IL NIDO DELL’AQUILA
di Vincenzo Pardini
Quell’inverno, Fidelco Meroli Gregotti decise di non scendere in paese coi quattro figli e la moglie; volle restare nella casa sull’altopiano, la medesima dove vivevano dalla primavera all’autunno. Periodo, quest’ultimo, in cui si concludeva la raccolta delle castagne. Desiderava rimanere solo. Trascorsi in un baleno gli anni, s’era accorto di aver avuto poco tempo per sé. Quel tempo, intendeva, di ritornare con la mente al passato, per rivedere e capire cosa fosse stata la vita. Superata la sessantina, tutto gli stava divenendo oltremodo monotono. Adulti, i figli gli parlavano sempre di meno. Era giusto così. Dovevano avere la loro vita. Due erano in procinto di accasarsi e il più giovane, in attesa di svolgere il servizio di leva, si mostrava taciturno e apprensivo. Fidanzato con una ragazza dai capelli neri e dal fare dolce, n’era geloso e temeva che qualcuno, in sua assenza, gliela corteggiasse. Sebbene sposata, la figlia trascorreva gran parte del giorno con la madre. Piccole e rotonde, parlavano con voce stridula e alta che lo inquietava. Di più, allora, si abbandonava ai tormenti. Dai loro risvolti emergevano sequenze di vita dimenticata, che lo riportavano alla gioventù, periodo che vedeva alla stregua d’una radiosa aurora. Adolescente, un pomeriggio, la terra venne traversata da un boato. Il terremoto. Dai muri e dai tetti uscirono spirali di polvere. La gente urlava. Altre scosse avvennero i giorni di poi. Di notte si preferiva dormire nelle capanne e nei capannelli. Offrivano maggiore sicurezza. Era il mese di maggio e non faceva freddo. All’imbrunire s’accendevano dei falò, non tanto per riscaldarsi, ma per cucinare. Sembrava di essere tornati a una vita primitiva. Stanco di dormire coi familiari nel covile, volle tornare nella sua camera.
Fin dai tempi dei trisnonni, in quella casa avvenivano strani rumori. Porte s’aprivano e si chiudevano nel profondo della notte, passi scendevano e salivano scale. Si diceva fosse lo spettro di un’anima in pena e nessuno ne provava timore. Di tanto in tanto chiamavano il parroco a dare una benedizione; i fenomeni cessavano per qualche tempo, poi riprendevano. Dormì nella sua camera svegliandosi, come di consueto, all’aurora. Quelle di maggio, le più luminose, gli davano la sensazione di iniziare, sempre, una nuova vita. Pieno di buon umore guardava la finestra, allorché avvenne quanto non avrebbe dimenticato. L’ombra di una donna passò davanti i vetri, oscurandoli; ne intravide i lineamenti e la lunga veste. Disparve. Voleva alzarsi; non vi riusciva. Più che il panico, lo tratteneva una forte spossatezza. Il sudore gli scendeva a rivoli. A nessuno raccontò l’accaduto. Sentiva di non poterlo fare. Un veto gli annebbiava la mente, alla stessa maniera in cui l’ombra aveva oscurato l’aurora. Dopo qualche tempo, emigrato in Argentina, trovò lavoro a Santa Fe come falegname. Lavorava da mattina a sera, soprattutto, alla realizzazione di tavole e stanghe per la costruzione di carri, calessi e diligenze. Il titolare dell’azienda, un russo dalla lunga barba, praticava spiritismo. Dopo cena, si chiudeva in una stanza sul retro della falegnameria con alcuni fedeli. Seduto a un tavolo, presa carta e penna si concentrava finché non prendeva a comporre, prima linee disordinate e sconnesse, poi parole. L’entità era stata evocata. In breve, Fidelco imparò non solo a scrivere col braccio sospinto da una forza che si insinuava nei muscoli alla stregua d’una lieve corrente, ma anche a far muovere il tavolo a tre gambi o far scorrere il cucchiaino sopra un piatto. Il russo gli riconobbe grandi capacità medianiche ma, nemmeno a lui, rivelò d’aver veduto l’ombra. Di cui, lontano da casa, ne percepiva ancor più la vicinanza. N’era sgomento e, al contempo, incoraggiato. Quando le chiedeva se esisteva Dio, subito, gli faceva scrivere un grande sì.
Ripensava a ciò, in quei giorni sull’altopiano. Il tempo volgeva al brutto. Dall’Appennino, incappucciato di nubi, scendeva un vento gelido. Cessato il quale, avrebbe nevicato. Pioggia e neve gli erano oltremodo care. Gli sembrava lo proteggessero. Uscì fuori. Non c’era nessun rumore se non il sibilo della tramontana. La sua casa si trovava sulla punta d’un cucuzzolo, da dove non si vedevano che le estremità delle montagne. Un paesaggio rimasto tale nei secoli. Un angolo di mondo dimenticato. Tornati tutti in paese, cani e galli erano scesi al seguito dei padroni. Non s’udivano più le loro voci, sempre eguali e sempre nuove in ogni angolo della terra. Arrivato in Argentina, a mitigargli la nostalgia del suo paese furono l’abbaio di un cane e il canto di un gallo. Gli pareva avessero ridotto le distanze. Con lui erano rimaste due vacche, alcune galline, un gallo e un gatto maschio. Inutile portarlo in paese. Sarebbe venuto nuovamente sull’altopiano. Bianco e grigio, aveva la testa grande e rotonda. Era un assassino. Per farle tornare in estro, uccideva i cuccioli alle gatte. Di una, che emetteva miagolii che potevano essere scambiati coi lamenti di una donna, riuscì a salvare tre micini. La moglie e i figli avrebbero voluto ucciderlo; lui si oppose.
Con la tanica andò alla fontana. Gli piaceva cucinare con l’acqua di sorgente. Il vento piegava le cime degli alberi. Giunto nell’aia, udì il sibilo dell’aquila sovrapporsi a quello della tramontana. Roteava nel cielo, al di sotto delle nubi. Era ricomparsa durante la primavera; mancava dagli anni Trenta. Bambino, la vedeva spesso. Quasi ogni giorno, proveniente dal retro dell’altopiano, passava sopra la sua casa, per planare nel nido, sulla parete rocciosa di fronte che, all’alba e al tramonto, si tingeva di rosso. Suo padre e sua madre tenevano polli e anatre. Alcuni germani solevano volare su di un colle, per nuotare nelle gore. Con agguati sbucati dal nulla, il predatore li ghermiva.
…
[Il racconto Il nido dell’aquila, di cui con il consenso dell’autore e dell’editore ho riportato le prime pagine, fa parte della raccolta “a quattro mani” di Marino Magliani e Vincenzo Pardini Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo edita da Transeuropa, 2010 (postfazione di Arnaldo Colasanti)]
[L'immagine: M. F. Larionov, Soldato a cavallo, 1910-1911]
Cucinare con l’acqua di sorgente è già poesia…