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Una modestissima cosa. Collage per Howard Zinn (1922 – 2010)

di Luca Lenzini

1. Quando, nel dicembre 2009, Barack Obama ritirò a Oslo il Premio Nobel per la Pace, nel discorso di accettazione(1) non mancò di notare – e lo fece in esordio, senza tanti preamboli – che il fatto di avergli assegnato quel premio poteva, per più ragioni, sollevare legittimi dubbi. In primo luogo, osservò, egli era all’inizio, e non alla fine, del suo impegno «sul palcoscenico del mondo», perciò a confronto con i risultati ottenuti da «giganti della storia» come Schweitzer, King, Marshall o Mandela, che avevano anch’essi ricevuto il Premio Nobel per la Pace, i propri meriti erano poca cosa. Il secondo motivo, «forse più profondo», era dato dall’essere egli Comandante in capo dell’esercito e non dell’esercito di una nazione qualsiasi, bensì di una nazione impegnata in due guerre. Guerre diverse tra loro, ma in ogni caso: « … siamo in guerra, ed io sono responsabile dello spiegamento di migliaia di giovani americani che combattono in terre lontane. Di essi qualcuno ucciderà. Qualcuno sarà ucciso.»

Nel prosieguo del discorso Obama richiamò il concetto di “guerra giusta”, osservando che «vi sono momenti in cui le nazioni – a livello singolo o collettivo – si troveranno a giudicare l’uso della forza non solo necessario ma moralmente giustificato». Nel dir questo, aggiunse, non dimenticava quanto aveva dichiarato, proprio in occasione del Nobel, Martin Luther King: «La violenza non porta mai una pace duratura. Non risolve i problemi sociali: ne crea soltanto di nuovi e più complicati»; ma, quanto a sé, pur riconoscendo di esser lui stesso, Barack Obama, una prova vivente dell’efficacia delle battaglie di King e della «forza morale della non-violenza», nondimeno come capo di stato – precisò – non poteva assumere a guide esclusive uomini come King o Gandhi, rimanendo inerte di fronte alle minacce rivolte al popolo americano. Insomma, «For make no mistake: evil does exist in the world» (non sbagliamoci: il male esiste, nel mondo.)
L’esempio portato da Obama per illustrare la “guerra giusta” è quello della Seconda Guerra mondiale. A questo proposito, è da citare quanto, in una conferenza tenuta agli studenti del Massachusetts College of Art di Boston, appena un mese dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ebbe a dire Howard Zinn, lo storico americano autore di A People’s History of United States(2) , da poco scomparso:

“Ricordiamo che la Seconda Guerra Mondiale fu la “guerra giusta” per antonomasia. Quando io stesso ero in guerra, però, non riuscivo a capire la distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste. Una volta una studentessa scrisse nel suo tema: “Le guerre assomigliano al vino. Ci sono annate buone e annate cattive. Ma la guerra non è come il vino. È come il cianuro. Una goccia e sei morto”.”(3)

Zinn concluse il suo discorso a Boston con i versi di Daniel Berrigan: In loving memory – Mitchell Snyder. Nel corso della conferenza aveva ricordato altri artisti americani per l’impegno contro la guerra: da E.E. Cummings (I sing of Olaf glad and big) a Dalton Trumbo (E Johnny prese il fucile), da Eugene O’Neill a Joseph Heller (Comma 22), Kurt Vonnegut (Mattatoio n. 5), Bob Dylan (Masters of War). E poiché la memoria della strage e il dolore per quanto avvenuto a Manhattan erano allora vivissimi, in quell’ottobre 01, ma già altrettanto chiare le intenzioni del governo americano in carica quanto alla reazione, egli avvertì:

“Non possiamo rispondere a un atto terroristico con la guerra, poiché in questo modo stiamo commettendo lo stesso tipo di azione dei terroristi. Quella mentalità ragiona in questo modo: “sì, sono morti degli innocenti, peccato. Ma è stato fatto per un fine importante. Si è trattato di ‘effetti collaterali’. Gli ‘effetti collaterali’ sono accettabili se facciamo qualcosa di importante”. Questo è esattamente il modo in cui i terroristi giustificano le loro azioni. Ed è lo stesso modo in cui lo fanno le nazioni. Vorrei che tutti noi riflettessimo con attenzione e chiarezza. Perché se ci uniamo a sostegno di azioni che renderanno il mondo ancora più pericoloso di quanto non lo sia ora, ci pentiremo di essere rimasti in silenzio e di non aver levato le nostre voci di cittadini per chiedere: “non sarebbe meglio tentare di risolvere questo problema alle sue radici? È giusto rispondere alla violenza con la violenza?”(4)”

2. Sulla prima pagina di un quotidiano italiano l’11 dicembre 2009, il giorno dopo il conferimento del Nobel al Presidente americano, è apparso un commento intitolato Il soldato riluttante, a firma di Vittorio Zucconi. Nell’articolo si fa riferimento al passaggio del discorso di Obama sulla “guerra giusta”: «Per la nobile sensibilità del pacifista – è il commento di Zucconi – quella fra “giusta” e “ingiusta” è una distinzione senza una differenza, essendo ogni guerra per definizione il Male assoluto da respingere. Per la responsabilità dell’uomo pacifico e del guerriero riluttante, le armi sono invece l’ultimo ricorso, quando ogni altro tentativo, se fatto seriamente, e non soltanto per predisporsi un alibi propagandistico, è fallito. » Così conclude l’articolo:

“Obama è l’uomo tranquillo che non vorrebbe battersi, ma non può accettare la violenza, il sopruso e la minaccia alla nazione che gli si è affidata. È il leggendario “Sergente York” interpretato nel 1941 da Gary Cooper, strenuo obbiettore di coscienza e pacifista che, costretto in trincea, impara a uccidere e a sconfiggere il nemico. E sa che la strada per ogni pace, pur effimera, è sempre, nel calvario della storia umana, lastricata dalla guerra. Se quello sarà il risultato, questo Nobel sarà stato ben meritato.”

Merita attenzione, nel pezzo di Zucconi, la contrapposizione tra sensibilità e responsabilità; ma anche e soprattutto la citazione, compendiata nell’immagine del soldato riluttante, del film di Howard Hawks, Sergeant York. È qui implicito un parallelismo tra Pearl Harbour e Twin Towers, ricorrente nei media. Il film di Hawks si ispirava alla figura di Alvin York (1886-1961), caporale dell’82a Divisione dell’esercito americano sul fronte delle Argonne nell’ottobre 1917, che da solo catturò 132 prigionieri e rese inoffensive 35 mitragliatrici tedesche: figura leggendaria e, per gli americani, «il più grande eroe della prima guerra mondiale», come ha ricordato, dando notizia del ritrovamento (nel 2006, dopo lunghe ricerche) dei bossoli sparati da York sulla collina di Chatel-Chehery, il «Corriere della sera (6)». L’articolo del «Corriere» annotava inoltre, in quell’occasione:

“Nel 1940, quando l’America si interrogava se entrare o no in guerra contro la Germania di Hitler, alla Casa Bianca si ricordarono del sergente York. Nacque l’idea di un film. Il regista Howard Hawks si mise all’opera con il grande Gary Cooper nelle vesti del sergente York e la dolce Joan Leslie nel ruolo della fidanzata. Ne venne fuori un’opera di straordinaria propaganda, con il buon contadino che non vorrebbe uccidere, ma si convince a usare le armi per evitare guai maggiori, per combattere contro il male, per salvare la libertà. Gli americani uscivano dalle sale cinematografiche convinti che la guerra è una cosa morale se serve a rimettere ordine e a portare giustizia. Così, dopo l’attacco di Pearl Harbor, l’opinione pubblica era pronta a entrare in guerra. C’è sempre una missione per la superpotenza, c’è sempre bisogno di un sergente York che salvi i buoni e castighi i cattivi: quando Bush ha mandato i soldati in Iraq ha indicato come scopo dell’invasione la necessità di abbattere il tiranno e portare democrazia.”

3. «Evil does exist in the world», dice Obama. Zucconi, da parte sua, ci rammenta il «calvario della storia umana». Un’altra finezza gnomica è quella pronunciata da Robert McNamara nel film-documentario di Erroll Morris The fog of war. Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara (2003), quando all’intervistatore che poco prima aveva ricordato il numero dei soldati americani e dei civili morti in Vietnam, sentenzia: «You can’t change human nature».

Nel luglio del 2009, quando McNamara morì, Howard Zinn partecipò a un dibattito televisivo sulla sua figura complessiva e sul suo lascito come Segretario alla Difesa con Kennedy e Johnson. Questo fu allora il suo intervento(7) :

“Beh, nel valutare la sua eredità, mi sembra che una delle cose su cui dovremmo riflettere è che McNamara rappresentava tutte quelle qualità superficiali di brillantezza, intelligenza e istruzione che, com’è noto, sono tanto ammirate e rispettate nella nostra cultura. Quest’idea dominante per cui i giovani di oggi sono giudicati in base al punteggio nei test, a quanto sono brillanti, a quante informazioni possono assimilare, restituire e tenere a mente: era questo in cui eccelleva McNamara. Certo: era brillante, era abile. Ma non aveva intelligenza morale.”

Quanto al lascito, Zinn aggiunse qualche altra riflessione:

“Delle molte lezioni che possiamo imparare dall’esperienza di McNamara, quella che più mi colpisce è che noi dobbiamo smettere di ammirare e rispettare quelle qualità superficiali di brillantezza e abilità, e educare una generazione che pensi in termini morali, che possieda un’intelligenza morale e che non domandi “stiamo vincendo, o perdendo?”, ma: “È giusto? È sbagliato?” E McNamara non pose mai questa domanda, anche quando lasciò la carica di Segretario alla Difesa, anche quando decise … quando dovette dimettersi. E le sue dimissioni non si basavano sul fatto che la guerra era sbagliata. La ragione per cui lasciò era, invece, che non stavamo vincendo.

E venendo ai nostri giorni, cioè ai tempi di Obama:

“Purtroppo, l’attuale amministrazione è tuttora bloccata in questo tipo di concezione. Li ascolto quando parlano alla Casa Bianca e dintorni, Obama e gli altri, di vincere in Afghanistan, invece di chiedere, piuttosto: “È giusto essere in Afghanistan?”. […] Un’altra cosa su cui riflettere [in merito a McNamara] è il fatto che dopo aver deciso che bisognava lasciare il Vietnam, egli rimase in silenzio. Come sapete, se ne va in silenzio. Non va a parlare al resto del paese, a dire “Dobbiamo andarcene.” Non critica la guerra in corso, sia sotto la presidenza di Johnson che più tardi di Nixon. No, continua a starsene in silenzio, mentre la guerra continua. E questo è il tipo di cosa che non si può perdonare e di cui penso dovremmo molto seriamente preoccuparci.”

In linea con queste considerazioni, all’indomani della notizia del Nobel conferito a Obama Zinn osservò :

“Ho provato sgomento quando ho saputo che era stato dato il Premio Nobel per la pace a Barack Obama. È stato un vero shock pensare che a un presidente che porta avanti due guerre venga assegnato un premio per la pace; finché non ho rammentato che Woodrow Wilson, Theodore Roosevelt e Henry Kissinger ricevettero, tutti, il Nobel per la pace. Il comitato del Nobel è famoso per i suoi giudizi superficiali, per farsi conquistare da gesti di vuota retorica, e per ignorare clamorose violazioni della pace nel mondo.
Sì, a Wilson si attribuisce il merito della Lega delle Nazioni – organismo inefficace, che nulla fece per prevenire la guerra. Ma egli bombardò la costa messicana, inviò truppe d’occupazione a Haiti e nella Repubblica dominicana, e portò gli Stati Uniti nel mattatoio della Prima guerra mondiale, che di certo quanto a guerre stupide e letali è in cima alla classifica.
Certo, Theodore Roosevelt negoziò la pace tra Giappone e Russia. Ma era un guerrafondaio che prese parte alla conquista di Cuba, fingendo di liberare l’isola dalla Spagna ed in realtà soggiogandola agli Stati Uniti. E come Presidente guidò la sanguinosa guerra per sottomettere i Filippini, addirittura congratulandosi con un generale americano che aveva appena massacrato 600 inermi abitanti di un villaggio delle Filippine. Il Comitato del Nobel non dette il Premio a Mark Twain, che denunciò Roosevelt e criticò quella guerra, né a William James, allora a capo della lega anti-imperialista.
Eccome, il Comitato ha ritenuto bene di dare un premio per la pace a Henry Kissinger, in quanto firmò l’accordo che poneva fine alla guerra in Vietnam, di cui era stato uno degli architetti. Kissinger, il quale di buon grado seguì Nixon nell’estendere la guerra, con il bombardamento dei villaggi di contadini vietnamiti, del Laos e della Cambogia. Kissinger, al quale calza a pennello la definizione di criminale di guerra, ha ricevuto un premio per la pace!
Si dovrebbe dare un premio per la pace non sulla base delle promesse – come nel caso di Obama, uno che ne sa fare con eloquenza – ma sulla base degli effettivi risultati raggiunti per porre fine alla guerra, e Obama ha continuato a compiere azioni inumane e letali in Irak, Afghanistan e Pakistan.
Il comitato del Nobel per la pace dovrebbe andarsene in pensione e devolvere le sue enormi risorse a qualche organizzazione internazionale per la pace non succube della retorica e dalla fama, e che abbia una qualche comprensione della storia.”

4. Il forte accento pedagogico che caratterizza gli interventi di Zinn, e che ha un immediato riscontro nella chiarezza espositiva dei suoi libri, comporta necessariamente un versante polemico. Il suo leggere la storia e il presente deve passare attraverso l’erosione dei luoghi comuni, delle continue manipolazioni operate dai media, della mascheratura di interessi particolari fatti passare per generali (analoga funzione hanno i filosofemi con cui è ribadita l’antropologia perenne dell’homo homini lupus, tanto cara ai lupi). Nel 1999 Zinn disse di sé e del proprio mestiere di storico: «Non m’interessa soltanto la produzione di libri e non mi interessa soltanto tenere un corso dopo l’altro da cui usciranno persone di successo che occuperanno diligentemente il posto preparato per loro dalla società. Quello in cui dobbiamo essere impegnati – che siamo insegnanti o scrittori, cineasti, sceneggiatori, registi, musicisti, attori, qualunque cosa facciamo – non deve solo far sentire bene la gente e farla sentire unita, ma deve anche educare una nuova generazione per fare una modestissima cosa: cambiare il mondo».

Cambiare il mondo? La “sinistra” – quella televisiva democratica progressista di governo non estremista disincantata realista riformista adulta e responsabile – raccomanda il Sergente York come modello, il soldato riluttante, pacifista redento. Quanto all’educazione dei giovani, l’intima sua aspirazione è che essi divengano, finalmente, smart and bright, superando i test aziendali e entrando nel “numero chiuso” planetario. Che pertanto non si chiedano “è giusto?”, “è sbagliato?”, ma credano nelle guerre umanitarie, nelle missioni congiunte di democrazia e di pace (uno che alla storia guardava dalla parte di quelli che “stanno in basso” ha scritto: «Quando chi sta in alto parla di pace / la gente comune sa / che ci sarà la guerra. // Quando chi sta in alto maledice la guerra / le cartoline precetto sono già compilate(9).») Ma se essi, invece, vorranno imparare dalla storia, è all’intelligenza morale di un maestro come Zinn che dovranno rivolgersi.

*

Note:
1) Il discorso si legge in http://nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2009/obama-lecture_en.html
2) Trad. it. Storia del popolo americano. Dal 1492 ad oggi, Milano, Il Saggiatore, 2005. Sulla “guerra giusta” vedi anche l’intervento a Roma del 2003: http://it.peacereporter.net/articolo/3038/La+guerra+giusta
Il sito dedicato a Zinn: http://howardzinn.org/default/
3) H. Zinn, Artisti in tempo di guerra, in Dissento. Storie di artisti in tempo di guerra, San Lazzaro di Savena, Nuovi Mondi Media, 2005, p. 15
4) H. Zinn, Artisti in tempo di guerra cit., pp. 24-25.
5) «La Repubblica», a. XXXIV, n. 293, 11.12.2009, p. 45.
6) Marco Nese, Ritrovati i bossoli di York pacifista che beffò i tedeschi «Corriere della Sera», 13 novembre, 2006, p.2.
7)http://www.democracynow.org/2009/7/7/vietnam_war_architect_robert_mcnamara_dies
8) A «The Guardian», 10/10/09. http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2009/oct/09/nobel-peace-prize-war-obama
9) Bertolt Brecht, Quando chi sta in alto parla di pace, in Poesie di Svendborg (1938), traduzione di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1976.

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2 Commenti

  1. Barack Obama è il naturale prolungamento della politica estera americana, con soltanto un po’ di belletto (nero) sulla faccia. E’ la spocchia USA ingentilita.
    E’ stato tipico di certa sinistra “illuminata” cadere in ginocchio di fronte “all’America che sa cambiare”, facendo paragoni tra la politica nostrana e quella USA.
    No, questi non cambiano. Puoi abbellire l’immagine quanto vuoi, l’imperialismo è sempre imperialismo.

  2. thanks much per il collage, luca! e ottime analisi anche rispetto a certe fonti italiane, ambito dove comunque il ‘messaggio’ di persone come howard merita proprio di essere rilanciato e contestualizzato; e certo, l’intelligenza morale e’ una dote tanto semplice quanto in via d’estinzione di questi tempi, sia in alto che in basso di una certa scala sociale wasp ma non solo…

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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