The death of Bunny Cave
di Camilla Barone
Sex maniac, poi Death trip of a sex maniac e alla fine The death of Bunny Munro. Nick Cave, alla conferenza stampa di presentazione del suo nuovo romanzo, va dritto al punto, e mette subito in scena il non detto svelando, attraverso le metamorfosi che ha imposto al titolo nel tempo, quale sia il vero personaggio centrale il suo libro. La morte che attende il protagonista Bunny, annunciata sin dalle prime parole del romanzo, quella stessa feroce liberazione rivoluzionaria, misandrica e paradossalmente pop dello SCUM Manifesto di Valerie Solanas, e quella stessa che è episodicamente ossessiva nei vangeli di San Marco e che ispira, come ci racconta l’autore, la struttura del romanzo. La vita non è che è il rovescio di un’esistenza al limite, viene da dire guardando Nick Cave e a forza di intuire la tensione del suo mistero seduttivo: Vita-Nella-Morte come continua e irriverente marcatura di ciò che è assente, innervata dal gusto per un desiderio ironico e sprezzante.
E’ così che nasce il libro La morte di Bunny Munro, edito da Feltrinelli: dalla marcatura di ciò che non avrebbe dovuto essere. La sceneggiatura della piccola storia inglese di un commesso viaggiatore, richiesta dal regista John Hillcoat, offre allo scrittore musicista l’occasione di riflettere su ciò che non la rende interessante: solo successivamente Cave ne fa un romanzo alle prese con ciò di cui lui desidera veramente scrivere. Dinamiche familiari e sesso, innanzitutto. Poi dio, morale e spiritualità che ha voluto fortemente presenti nel racconto proprio in quanto assenze fondanti la società contemporanea. Della Bibbia ama i racconti, conosciuti da ragazzino in tre o quattro anni di coro in una chiesa anglicana, ma è il diritto al dubbio a sostituirli in quanto potere generativo dell’essere umano in un’epoca di fanatismi. È ancora una mancanza, di un’educazione all’intimità e a dare e a ricevere, che condanna Bunny Munro ai suoi desideri, alla presenza del fantasma della moglie che a propria volta sta al posto di un residuo di coscienza, la stessa con cui Bunny manca a se stesso e di cui è schiavo, incapace di riconoscere le proprie responsabilità per la morte di lei.
Di nuovo un’assenza, sotto forma di scarto rispetto allo scrivere canzoni, è ciò che regala all’autore il puro piacere della scrittura, completo e liberatorio. Oltre ai libri ho scritto ormai centinaia di canzoni e invece, dice, quello è sempre stato un lavoraccio duro e da donne. “Come comprimere e fare passare un’anguria in un foro molto piccolo; doloroso e sanguinoso”.
Di nuovo, è una ruvida poetica della negazione il trucco di Cave per spiazzare Bunny dalla biografia dell’autore. Dalla platea ci si gode giochi di prestigio degni di una sapienza istrionica consumata a scoprire che è tanto improbabile che Nick sia Bunny quanto lo è che Cave non ascolti Miles Davis ma Avril Lavigne, che Kylie Minogue non abbia definitivamente sessificato l’intera cultura inglese nonostante il potere indiscusso dei suoi hot-pants dorati, che un figlio non inizi a smettere di considerare il padre un dio passati i dodici anni d’età – ed ecco perché Bunny Junior ne ha solo nove, come il minore dei figli di Cave.
Ma se quando sono arrivati i giornalisti per la conferenza stampa Mr. Cave era uscito alla pioggia di Milano con una sigaretta tra i denti, se ascolta le domande laconico per risponde secco come un battere dopo il levare, e se al momento del primo piano ride e acceca la telecamera buttandoci sopra un tovagliolo, allora noi scegliamo di vedere, al posto dell’ammiccare ostentato della pelle e dell’oro sotto il gessato impeccabile, le suole usurate delle sue scarpe nere, e ne facciamo segno di una sprezzatura che non si consuma.
Abbiamo letto “ La morte di Benny Munro “ scritto da Nick Cave.
Nick Cave è stato il leader e voce del gruppo musicale The Birthday Party; per trentanni ha calcato la scena musicale internazionale, prima in Australia da cui è partito poi a Londra e a Berlino. Il suo genere musicale può essere definito Post-punk[, Gothic rock, No wave. Dei trentadue dischi scritti e pubblicati ricordiamo From Her to Eternity, The Firstborn Is Dead, The good Son, Let Love in, Murder Ballads.. Qualcuno forse se lo ricorda anche nel film “ Il cielo sopra Berlino “ di Win Wenders. E’ anche uno scrittore, il suo primo romanzo, (che è stato giudicato dalla critica “ dalle atmosfere cupamente faulkneriane “), si intitola “ E l’asina vide l’angelo “ (1989). Oggi ha pubblicato il suo secondo libro “ La morte di Bunny Munro “.
Leggendo le prime pagine si provano sensazioni contrastanti, sembra di ritrovarsi in un libro di Barry Gifford o in un racconto di Irvine Welsh o forse in uno di Cormac McCarthy. In una di quelle storie selvagge che andavano forte negli Anni Ottanta. Ancora dopo trenta pagine non riuscivamo a capire se eravamo di fronte ad un capolavoro nel suo genere oppure se stavamo leggendo una fesseria fuori epoca. Andando avanti siamo stati avvolti dallo sconcerto e dalla follia di una storia feroce, disperata, poetica ed anche buffa e incandescente. Allen Ginberg negli anni Settanta consigliava di leggere Siddartha in acido lisergico, noi, molto più modestamente, diciamo che si dovrebbe leggere questo libro attraverso il vetro opaco di un bicchiere di whiskey pieno a metà. E allora tutto torna, tutto diventa credibile, commovente e malato. A questo punto pensando a Benny, a suo figlio Benny junior, alla sventurata Libby, ai colleghi di lavoro e al mondo circostante ci viene in mente una frase che andava di moda negli anni Sessanta: Dio è morto. E non come dicevano Guccini o Woody Allen. Allora Dio sembrava morto ma era solo in afasia estatica. In questa storia Dio è veramente morto e i poveri personaggi di questa fiaba metropolitana ne sono consapevoli ed hanno paura di vivere, di soffrire ed anche di fermarsi.
Benny Munro è allo stesso tempo un uomo ridicolo, un guerriero spaventato, un fantozzi anglosassone del Ventunesimo Secolo. Benny teme il mondo perché crede di conoscerlo, sicuramente conosce il lato più osceno della vita e cerca di salvarsi attraverso quello che gli piace di più: scopare. Ha paura della vita e per esorcizzarla non pensa ad altro che al corpo delle donne o a farlo. Ha il pene spesso in erezione anche a un funerale o davanti a una poliziotta che minaccia di arrestarlo. Se non copula ogni volta che si sente giù si deprime ancora di più. E allora beve e fuma fino a crollare. Per lui il sesso è come la droga per un tossico, come il lavoro per un alienato, come un’esperienza estrema per chi cerca adrenalina. Benny è in fondo un brav’uomo di cinquantanni, col ciuffo alla Elvis, la cravatta azzurra con dei conigli sdraiati su nuvole e il ‘pacco’ in evidenza spesso gonfio. Vende prodotti e creme di bellezza a solitarie casalinghe con mariti distratti e assenti e spesso con voglia di trasgressione. Gira tutta la settimana per il sud dell’Inghilterra e torna a casa il fine settimana. Da una moglie depressa e da un figlio di nove anni un po’ scemo ma dalla memoria prodigiosa. Quando torna un sabato mattina a casa scoppia la tragedia, sua moglie si è suicidata e il bambino gira per casa come uno zombie. C’è il funerale e poi gli ultimi tre giorni di vita di Benny che non sapendo come reagire al dolore e al senso di colpa di una vita al fondo riparte per lavoro e si porta con sé il figlio che resta in auto in attesa del padre che va a vendere i prodotti casa per casa. Tragico e disperato il personaggio di Benny, struggente e delicato quello del piccolo Benny Junior, un bambino che adora suo padre nonostante tutto ma che diventa come lui solo una volta. Credibili tutti gli altri personaggi che se fossero i protagonisti certo ci stupirebbero nel vuoto di vite nude. Ritornando alla domanda precedente, siamo convinti di essere inciampati in un piccolo gioiello narrativo che invitiamo a leggere a tutti coloro che non vivono “in un paese per vecchi”.
Non leggo moltissimo ma questo libro l’ho adorato. soprattutto la prima parte.
Scusate, mi è caduto l’occhio sullo SCUM Manifesto di Valerie Solanas, la lesbofemminista che nel ’68 prese a revolverate Andy Wharol, coerentemente col suo pensiero:
« In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile. »
Lo saprete sicuramente, ma se non è così, c’è un film divertentissimo “Women in revolt” di Paul Morrissey, del 1971, in cui lo SCUM della Solanas viene reinterpretato da tre transgender della Factory, tra cui la celebre Candy Darling (quella della canzone “Candy says”). Guardatelo assolutamente, è uno dei film più divertenti della terra – dopo i Blues brothers s’intende, e istruttivo, non tanto perché metteva in ridicolo la Solanas, persona con gravissimo disagio psichico, ma perché è ancora oggi, attraverso la decostruzione dei generi, un’ottima critica a un certo femminismo diciamo così abbastanza becero-demenziale.
E.C. Andy Warhol