Bogdan, o Doran
L’insegna “Villa delle Ninfe” troneggia accattivante sulla parete gialla scrostata del ristorante. Sembra un bel posto, visto da qui. Dentro lì non ci sono mai stato. Io mangio nella trattoria “Bel Paese” ogni domenica, da quando avevo sei anni. Amici.
Quando ho visto la polizia lì davanti, l’altro giorno, ho pensato subito che fosse stato avvelenato qualcuno. Sì, avvelenato. Sono passati sotto l’insegna senza guardare, con una faccia tesa e i denti schiacciati, e io dico che se avessero alzato gli occhi, la scritta li avrebbe messi tranquilli, perché è accattivante, ti dico, su quelle pennellate crepate di giallo. Sono entrati come se avessero avuto paura di perdersi qualcosa. Con l’obiettivo già lampeggiante negli occhi. E, infatti. Si sono portati via il Potenza. Lui si teneva la testa chiusa dentro il petto. Non so cosa pensasse. Un poliziotto lo fece salire in auto. Un altro si voltò verso di me. Io non so niente. Io non so niente.
Il Potenza io lo conoscevo solo di fama. Dicevano tante cose su di lui. Una volta era finito sul giornale per un qualcosa che chiamavano “Pallonetto”, e non ho mai ben capito che fosse. Gli piaceva il mare perché si era scelto l’edificio in modo che da dentro si potessero vedere le onde. Ma qua piace a tutti, il mare. Una volta mi hanno raccontato un episodio che ebbe con un cliente, turista, che adesso non sto a raccontare, ma che è stato, come dire, l’inizio delle maldicenze. Non era gradito a tutti, a quanto pare.
Non pensavo, davvero, però, fosse capace di tanto. Stamattina ho comprato il giornale, e quello che ho trovato scritto sul Potenza mi ha fatto andare di traverso il caffè. Aveva un dipendente, un ragazzo, me lo ricordo bene perché comprava il pane dove lo compro io. Praticamente non parlava l’italiano, così ogni volta era un indicare e annuire. Credevo si chiamasse Doran, invece il giornale dice Bodgan. Ma io credo proprio si chiami Doran. Veniva dalla Polonia. Era l’unica cosa che sapeva dire. Girava sempre con dei suoi amici. Lavoravano tutti alla “Villa delle Ninfe” e quando entravano guardavano sempre l’insegna. Accattivante, davvero. Accattivante. Una sera, sarà stato più distratto del solito, Bodgan, o Doran, insomma, si è rovesciato addosso ottanta litri di olio bollente. L’unica ustione che mi sono fatto io è stata con il caffè, sul braccio, e non l’augurerei a nessuno. L’olio, dicono, è molto peggio. I piedi, poi! Non poter più camminare. E qui sta il problema: il Potenza non pagava più l’assistenza sanitaria. Allora, per paura di essere scoperto e multato, se non peggio, ha pensato bene di rinchiudere Bodgan ferito nello scantinato, lasciandolo in compagnia di un materasso e di un secchio per bagno. Neanche fosse stato un carcere, dico! Poi un giorno è arrivato un medico, mi raccontava il barbiere, ma è stato lì poco più di un quarto d’ora.
Questo noi non lo sappiamo. Succede dentro. E noi siamo fuori, ignari.
A pranzo ne ho parlato con mia moglie. Lei non ascoltava e faceva sì con la testa. Tendeva le orecchie al televisore, dove parlavano senza pause. Allora sono stato zitto e ho mangiato. Nel lavare i piatti mi ha colto una sorta di flashback, di déjà vu, come se mi trovassi dentro il ristorante, uno dei tanti polacchi, e dovessi lavare i piatti dalla mattina alle otto fino a sera dopo mezzanotte. E Bodgan, che secondo me si chiamava Doran, non c’è. Dov’è? Di sotto. Come sta? Non lo sa nessuno.
Il mio Rudi abbaia. Ora della passeggiata.
Ripassando davanti all’insegna cerco di capire la strada che Doran ha fatto, strisciando, dopo venti giorni di buio e freddo, buttandosi fuori da un cassonetto della spazzatura dove i suoi amici l’avevano messo, nascondendolo, per farlo uscire da quello schifo. Strisciare. Come i vermi. Fino alla prima cabina telefonica. Possibile che nessuno l’abbia visto? Rudi saltella, gli tremolano le orecchie. Tempo di tornare a casa, vecchio mio. Sospiro.
Passo a prendere il pane. La panettiera ha letto il giornale. Mi infiammo in una discussione degna di un abile cialtrone. Da giudice supremo emetto la mia condanna. Mi sento meglio.
Fino a che ci sarà qualcuno da additare, nessuno penserà mai ad indicare me.
Che quelle urla, dalla strada, le avevo sentite.
Agghiaciante questo racconto.
Non posso immaginare il dolore fisico,
mi fa paura.
E’ un racconto che tocca all’l’indifferenza
di quello che distoglie lo sguardo e passa…
L’avevo letto PRIMA di incontrare il capitolo “Villa delle Ninfe” su “Servi” di Rovelli. Ora che l’ho riletto DOPO mi piace ancora di più, è cornice e corollario della storia di Bogdan, dei mille Bogdan che si offrono muti ai nostri sguardi assenti, vittime “di ciò che gli altri dicono”. O non dicono.
Brava. Bravi entrambi, tu e Marco. Due racconti dal medesimo abisso.