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Sotto l’intercessione di Pasolini

Pubblico l’ultimo intervento della manifestazione Sguardi a perdita d’occhio. I poeti leggono il cinema. L’introduzione e gli altri si possono leggere qui, qui qui e qui.

di Valerio Magrelli

I. Prologo

Tra le tante iniziative che nel 2005 hanno accompagnato l’anniversario della scomparsa di Pasolini, una in particolare mi ha colpito. Mi riferisco a una mostra tenutasi a Roma con il titolo “Pasolini: ultimo atto?” e composta da 110 foto, in gran parte inedite, scattate da Dino Pedriali nel 1975. Si tratta di immagini impressionanti per il loro valore documentario, oltre che artistico, in quanto scattate poche ore prima che il regista venisse massacrato. Esse lo ritraggono in varie situazioni, mentre scrive o legge nella sua torre a Chia, nei dintorni di Viterbo, oppure, in qualche caso, completamente nudo, nell’integrità del suo corpo non ancora martoriato, come si legge nelle note di accompagnamento.

Ebbene, in un momento in cui si torna a indagare il mistero di quel lontano omicidio, a metà strada fra aggressione sessuale e agguato politico (dove forse la prima è servita a nascondere il secondo), una testimonianza del genere ribadisce la natura provocatoria, indifesa, scandalosa, scabrosa, dell’intera produzione pasoliniana. Ma l’interesse dell’iniziativa non si esauriva qui: per una sorta di corto circuito, il materiale presentato finiva per caricarsi di un’energia ulteriore, irradiata dal perturbante spazio in cui era stato accolto. Situata nel Palazzo Roccagiovine, la galleria che ospitava gli scatti di Pedriali sorge infatti sulle rovine della Basilica Ulpia, la più grande fra quelle costruite nella Roma antica. Grazie ai recenti scavi, è ormai da qualche tempo possibile scedere al di sotto della superficie stradale, per ammirare l’antica pavimentazione dell’edificio. All’ignaro passante, ecco allora dischiudersi uno spettacolo inatteso: la visione di uno spicchio dell’abside orientale, nonché di buona parte della zona occupata dal doppio colonnato laterale della navata centrale.

Ricordo bene l’impressione di quella visita, di quella improvvisa immersione nel sottosuolo. L’esperienza di un simile inabissamento mi suggerì un immediato, sebbene forse improprio paragone. Anche l’opera di Pasolini, pensai, ci appare oggi come un’archeologia dissezionata, un corpo che riemerge sì alla luce della storia, ma solo a brani, a brandelli, a lacerti. Così, nella stessa maniera di Orfeo, straziato dalla furia delle baccanti, il poeta della Meglio gioventù, l’autore di Salò, sembra voler offrire al nostro ricordo le proprie membra scempiate, ed insepolte.

II. Il debutto poetico

Era il 14 luglio del 1942, il giorno in cui si festeggiava la presa della Bastiglia, quando la libreria antiquaria Mario Landi di Bologna pubblicò la raccolta Poesie a Casarsa. In effetti, un assalto c’era stato: l’assalto che, in quei versi, un povero dialetto come il friulano, del tutto privo di tradizione illustre, portava contro la sontuosa fortezza della lingua italiana. Di tale scontro trattava appunto il volume, opera prima di un ventenne irrequieto e coltissimo.

Nato a Bologna, ma presto trasferitosi nella città che dava il titolo al testo, bocciato in italiano agli esami di ammissione alla scuola media, Pasolini, benché esordiente, dava prova di una rara sicurezza espressiva, insieme a una penetrante coscienza critica. Prima ancora che un semplice debutto, il suo volle essere infatti il manifesto di un ambizioso progetto culturale, volto a elevare il friulano al rango di lingua d’arte. Lo vide bene un filologo come Gianfranco Contini, che recensì il fascicoletto del giovane con parole di elogio, scorgendovi “la prima accensione della letteratura dialettale all’aura della poesia”.

Ma non fu che l’inizio di una lunga vicenda editoriale: mentre nel 1954 Poesie a Casarsa confluirono in un libro più complesso, intitolato La meglio gioventù e aperto da un’affettuosa dedica a Contini, nel 1975 Pasolini tornò su quelle stesse pagine riproponendole modificate e ampliate. Siamo così di fronte al paradosso di una poesia in cui, a distanza di decenni dalla prima stesura, la più appassionata adesione alla parlata popolare torna a fiorire sotto forma di raffinata, estenuata erudizione. Poiché per Pasolini il rovello stilistico aveva come immediata controparte una precisa e decisa scelta ideologica: ridare voce agli oppressi, ai senza parola, agli esclusi, nel sogno di una lingua dell’origine.

III. Geografie pasoliniane

Sono davanti a una dozzina di libri su Pasolini, nel tentativo di illustrare il senso del suo rapporto con Roma, tanto determinante per la sua opera letteraria e cinematografica. Film come Accattone, Mamma Roma o La ricotta, romanzi come Ragazzi di vita o Una vita violenta, cicli poetici come le Ceneri di Gramsci, formano infatti un’unica costellazione figurativa e linguistica. Eppure non è facile provare a chiarire il profondo legame che unì lo scrittore del Nord alla capitale, dove si trasferì verso il 1950. Infatti il poeta di Monteverde, il leggendario insegnante di Ciampino, è in realtà lo stesso autore che seppe aderire come pochi altri sia alla struggente bellezza dell’Italia triveneta (con L’usignolo di Casarsa), sia al fascino di un “Altrove” intercontinentale (grazie ai grandi reportage asiatici e africani).

Per quanto riguarda il prima caso, basti ricordare come Casarsa e la sua provincia facciano tutt’uno con la prima fase della sua produzione. Eppure,caso davvero raro nella letteratura italiana, proprio il cantore della piccola patria friulana seppe aprirsi come pochi al richiamo di altre culture. Basti pensare al suo cinema, con l’Inghilterra dei Racconti di Canterbury o la Tanzania, il Kenya, l’Uganda di Appunti per un’Orestiade africana, luoghi a cui deve aggiungersi, sul piano della saggistica, un testo illuminante quale L’odore dell’India. Come è stato notato, alla base di queste scoperte stavano da un lato l’inquietudine per “l’universo orrendo” del neocapitalismo italiano, dall’altro l’ansia di visitare paesi che accogliessero, ancora incontaminati, natura, arcaismo, povertà, eros. Ebbene, l’amore di Pasolini per Roma dev’essere appunto inserito all’interno di questa fortissima polarità fra localismo e cosmopolitismo, ripiegamento contadino e curiosità etnografica.

L’acuminata sensibilità di questo autore per i paesaggi geografici e, antropologici trova così nella nostra capitale il punto mediano fra i due estremi della sua parabola espressiva. La borgata, cioè, si configura come uno spazio incerto e mutante, sempre sul punto di trasformarsi in realtà mitica. Non per niente, il desolato gruppo di baracche da cui proviene il protagonista nel romanzo Una vita violenta, fra l’Aniene e il quartiere Tiburtino, è soprannominato “la piccola Shangai”. Non per niente, prima di tuffarsi nel Tevere, l’eroe del film Accattone viene paragonato a un faraone egizio. Posta all’incrocio fra classicità e industrializzazione, arcaismo e modernità, Roma fu dunque un luogo in cui rievocare un altrove struggente, tradito, perduto, o forse soltanto sognato.

IV. Un reportage

Piazza Gasparri, il cuore di Ostia Nuova, ha un aspetto particolare, a metà strada tra il paesaggio marino e quello urbano. Per certi aspetti somiglia alla grande piazza di Trieste: dal lato della spiaggia, si spalanca sull’orizzonte, mentre alle spalle, resta circondata da palazzi. Solo che, invece di austeri edifici, ha i casermoni tipici dell’edilizia popolare. Il lido appare brullo, grigio, sudicio, intaccato dalla periferia. E’ un posto malfamato, un centro di spaccio. La luce della mattina rivela le pareti mangiate dalla salsedine e l’immondizia. Ma dalla piazza non si vede ancora niente. Buttano cicche dalle finestre. Bisogna avventurarsi nei budelli che corrono incassati tra i palazzi. Originariamente progettati come ingressi per le autorimesse, questi corridoi all’aperto si sono trasformati in autentiche trincee.

Sono in un telefilm americano, uno di quei polizieschi da tarda serata. La nostra macchina sobbalza e si inabissa lungo un pendio di cemento. Eccoci nella fossa, in mezzo a copertoni, cartacce, porte sfondate. Sulla sinistra, la carcassa fiammante di una vettura, ridotta ad un relitto scorticato e nudo, dopo essere passata attraverso le diverse fasi di una vera e propria catena di smontaggio (doveva essere nuova di zecca, di un azzurro morbido, scintillante). Continuiamo a addentrarci per i cunicoli, collegati uno all’altro da una rete segreta, sotterranea, catacombale. Di notte, questo semi-sottosuolo diventa teatro di traffici e furti. Verso nord, subito dopo l’ultimo edificio, si apre invece un panorama insolito, una landa selvaggia spazzata dal vento.

Sul piccolo deserto che da Ostia arriva alla fiumara, soffia il vento della steppa. L’ipocrita intestazione decisa dal Comune dice Parco Pasolini, ma se questo è un parco, il Tevere è potabile. Proseguendo lungo la costa, si arriva al monumento del poeta, il luogo che vide la sua morte. Qui, veramente Ostia finisce per convalidare la falsa etimologia del suo nome: non “bocca” (ossia ostium, foce), ma “vittima” (hostiam, agnello sacrificale, il nome della sfoglia offerta nella comunione). Errori, malintesi, per geografie fantastiche, interferenze cattoliche, con Santa Monica, madre di Agostino, che si spegne sul lido. La bocca del fiume e quella del fedele si confondono in un’unica immagine dove compare Roma, pagana, che si converte al Cristo accogliendo il suo corpo attraverso l’estuario. Il Tevere come la lingua di un credente che riceva l’Ostia. Il Tevere come la lingua di un serpente che faccia capo a Roma.

Comunque, appena accanto al misero trofeo mortuario di Pasolini, si nascondono ricchezze inattese. Si tratta di una doppia dimensione,industriale e turistica: da un lato i capannoni degli enormi cantieri nautici, dall’altro, invece, darsene, prati all’inglese, magnifici yachts che si dondolano pigramente. Produzione e vacanza, lavoro e lusso, fioriscono felici, rigogliosi, a pochi passi dalla desolazione. E in fondo lo spettacolo sublime e lacerante dell’Idroscalo.

Nei suoi film, nei suoi romanzi, nei suoi versi, Pasolini ha mostrato in che maniera squallore e povertà possano giungere a produrre poesia. Ecco il segreto di questo villaggio. Le costruzioni abusive diventano un presepe incantato, pervaso da quella stessa violenta bellezza che si ritrova in tanto paesi del Terzo Mondo. E’ un sentimento estetico complesso, contraddittorio, forse anche riprovevole. Fatto sta che la riva sinistra della foce, con le sue case basse, le pergole, le frasche, un paio di ragazzi seduti sul vespino, materassi e barchette parcheggiati per strada, il Ranch Rosci, le statue di due angeli, la sua piazza assolata, – forma un quadro indimenticabile.

Mi avevano annunciato che qui avrei trovato esotismo e folklore: la Nigeria.
Niente di più preciso. Dove l’acqua del fiume si mescola a quella del mare, sorge una lunga fila di baracche da pesca. Sono fatte di un legno grigio, nerastro, su cui s’innestano lunghe canne di ferro. Grazie a motori di vecchi montacarichi, è possibile manovrare le grandi reti quadrate destinate a sollevare il pesce. Queste ingegnose postazioni somigliano a crostacei con antenne lunghissime, vibratili. Sotto un cielo abbagliante, nell’odore di salso e d’immondizia, il piccolo bricolage appare silenzioso, senza un’anima. E’ ancora primavera, d’estate arriverà una folla enorme, spiega con gentilezza una signora a spasso. Tanto vale godersi questa calma irreale, lo sciabordio del mare, un alito di vento, le stradine sterrate.

V. Una prosa

Attraversai il fiume. Due buoi attaccati ad un carro salivano per una ripida strada.
Alcuni georgiani accompagnavano il carro.”Di dove siete?”, domandai loro. “Di Teheran” “Che cosa portate?” “Griboeda”. Era il corpo di Griboèdov assassinato, lo scrittore, quello che trasportavano a Tiflìs.
(A. Puskin)

Questa è una storia diversa dalle altre: riguarda la strana coppia che formammo da ragazzi, io e un mio amico, in Francia, come una specie di Bouvard e Pécuchet – i due personaggi descritti da Flaubert cedendo a un presentimento di Stanlio e Ollio. E il treno? Il treno c’entra perché a un certo momento, trovata casa, decidemmo di traslocare dall’Italia. Ma come organizzare un’operazione tanto complicata e costosa? In mancanza di altri mezzi, decidemmo di farlo per via ferroviaria.

La spedizione verso Parigi venne allestita con cura. Per prima cosa riducemmo l’arredamento all’essenziale, poi affastellammo tutto alla stazione, lasciando una terza persona di guardia. Non sto a elencare la marea di bagagli che accumulammo, invadendo corridoi e scompartimenti. Altri tempi, altri treni, altri passeggeri, altri controllori. La cosa più difficile, fu il materasso. Riuscimmo a trovarne uno di gommapiuma, che legammo per lungo, imbavagliandolo: non fosse stato per il peso, avrebbe potuto essere un cadavere trafugato oltre confine. Fatto sta che arrivammo sani e salvi, con tutte le masserizie al completo.

Ma questa vicenda ha una coda. Non appena giunto a destinazione, quel terzo amico che ci aveva accompagnati nel trasbordo del carico, si allontanò per telefonare ai suoi. Eravamo alla Gare de Lyon, faceva già buio, e lo aspettavamo impazienti, montando la guardia agli innumerevoli pacchi che costituivano la nostra casetta portatile. Giravamo nervosi fra cataste di valigie, con il morto da un lato, nascosto. Tornò poco dopo, trafelato e raggiante. Era novembre. Buone notizie, disse: la Lazio aveva vinto. Nient’altro. Ah sì: hanno ammazzato Pasolini.

VI. Due confessioni

Sono entrato in contatto diretto con il cinema di Pasolini soltanto in due occasioni. La prima, verso la metà degli anni Ottanta, lavorando per la Fondazione Pier Paolo Pasolini (allora diretta da Laura Betti). L’obiettivo dell’iniziativa era costituito dal rifacimento dei sottotitoli francesi di Uccellacci e uccellini. Nell’affrontare un compito tanto arduo, ebbi la fortuna di avere come guida era uno specialista del settore, Olindo Caramazza. Il risultato di tanti sforzi andò in scena a Bruxelles, presso l’Istituto italiano di Cultura, il 24 novembre 1987, per essere ripreso due anni più tardi a Parigi, nelle sale del Louvre.

Fu un impegno appassionante, che mi rivelò l’esistenza di una vera e propria metrica visiva. Si trattava infatti di fare in modo che le frasi scritte per accompagnare i dialoghi fossero distribuite in rapporto alla durata della scena, in un delicatissimo equilibrio fra sillabe e secondi, concatenazione alfabetica e pulsazione figurativa. Così facendo, giunsi a scoprire l’esistenza di un particolarissimo tipo di traduzione, intimamente connesso a parametri cronologici. Altrimenti detto, una sorta di lingua-tempo. Ecco: mai come in quella occasione, mi resi conto dell’inestricabile legame che stringeva il cinema di Pasolini alla sua poesia, ossia all’assoluto rispetto per le esigenze di ogni singola parola.

L’altro momento in cui ho avuto modo di lavorare di persona sulla filmografia pasoliniana, è invece più recente, e risale all’anno scorso. Nell’occasione, su invito di Giuseppe Bertolucci, ho accettato di prestare la mia voce al restauro della Rabbia, per un progetto organizzato dalla Cineteca di Bologna. Uscita nelle sale nel 1963 dopo varie peripezie, la pellicola era stata pesantemente tagliata dalla produzione, perdendo così molte sequenze. Soltanto adesso, grazie a Bertolucci, è stato possibile ristabilire i quasi venti minuti di immagini e commento amputati.

Anche questa esperienza è stata preziosa, innanzitutto da un punto di vista tecnico. Ho cioè toccato con mano la complicata articolazione fra immagine e voce fuori campo, seguendo al contempo l’opera del regista e quella del poeta, in una specie di doppia grammatica espressiva. D’altronde, la figura di Pasolini mi ha sempre fatto pensare a un Giano bifronte, capace di padroneggiare, caso certamente unico in tutto il Novecento (e non solo italiano), letteratura e cinema.

VII. Una poesia

A Pierpaolo Pasolini

Avrebbe minacciato un benzinaio
con la pistola carica
di un proiettile d’oro.
Cineasta e poeta, orafo e orco!
Ma cosa contestare a quest’accusa,
l’arma o la sua pallottola?
Santa Romana Chiesa o l’usignolo?
Quel colpo mai sparato traversa la sua opera
piegandola ad un duplice ossimoro,
fantastico fantasma di violenza
e pietà, di sangue e alloro.

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9 Commenti

  1. La ricorrente “Pasolineide” di questi anni, lontani culturalmente e politicamente anni-luce da quelli in cui Pasolini visse, mi fa pensare che ormai Pasolini sia diventato uno scrittore per tutti. Perfino Morgan lo cita a piene mani (da Santoro)… E forse il destino di un’opera d’arte è proprio questo: di finire depurata dalla congerie socio-politica-culturale in cui è nata, e di proporsi altra-da sé, nella sua purezza artificiale, agli sguardi delle generazioni successive. Pasolini era di parte, anche visceralmente. E quella sua visceralità lo portava (anche) ad esprimere artisticamente posizioni politicamente ingenue, “innocenti”, per dir così. Per questo i rapporti di Pasolini con i movimenti sociali e politici degli anni ’60-70 non erano idilliaci. In soldoni, in Pasolini ha sempre giocato la prevalenza del discorso morale su quello politico. Discorso morale, più che etico, perché la contraddizione, anche cocente, tra cattolicesimo e comunismo, era connaturata al suo pensiero. Ma il discorso politico non ha bisogno di correttivi o supporti etici, e tantomeno morali, perché l’etica è parte consustanziale della politica, è già nel suo dna. Certo, oggi le cose non funzionano così, perché il discorso politico si è separato in modo irreversibile dall’etica, ed è divenuto miserabile. Comunque, a quando una riflessione (di tipo filologico-contestuale, non teorico-astratto) sul coté politico di Pasolini?

  2. @robugliani

    caro roberto,
    io credo che sia stata proprio la programmatica “ingenuità politica”, la contraddittorietà sistematica, assunta a metodo ossimorico, nel procedimento del pensiero politico di Pasolini a far sì sì che egli “nel suo tempo” riuscisse a vedere con lucidità gli effetti di quella realtà proiettati nel futuro: proprio quelli che “ora” noi viviamo in tutta la loro infernale insipienza e banalità, dove tutto è merce omologata, anche la vacuità delle idee. Il Pasolini saggista e polemista sapeva utilizzare creativamente – con libertà e autonomia intellettuale rispetto alla “chiese costituite” del potere (partiti, religione, potentati economici) – le categorie del pensiero marxista e quelle del “sentimento cristiano” della vita (con te nella ragione, contro te nelle buie viscere”, parafrasando un verso de Le Ceneri di Gramsci): ed è questo “metodo, procedimento” che faceva la sua forza e rendeva lucido, visionario, proiettato nel futuro il suo pensiero critico. Certo, prestava il fianco – a sguardi superficiali o interessati (per altri livori) alla polemica distruttiva- alla facile e farisaica accusa di “contraddittorietà” , “ingenuità” eccetera eccetera; lo faceva sembrare un “reazionario” sia sul piano politico che sul piano letterario, proprio per l’ uso sistematico della provocazione e dell’ossimoro: sono una forza del Passato, nella Tradizione è la mia forza, soleva dire in alcuni attacchi di suoi poemetti (cito male e a memoria), ma lo diceva nella forma dei poemi delle croci, o di poesia in forma di rosa (tanto per ricordare alle correnti più bizarre ed estreme della neoavanguardia che non stavano inventando nulla di nuovo, che certe “forme” risalivano alla poesia greca del 650 a.c.). Sul piano politico, poi, mi sembra che la Storia recente gli abbia dato ragione e , se hai letto Petrolio, lo aveva già tratteggiato in quel grande e terribile affresco che non ha avuto il tempo di rifinire….e chissà se questo , ex post, non abbia finito per essere un bene, cioè non abbia finito per lasciarci quella sua “ingenuità e contraddittorietà” che – ora – lo rende accessibile a una lettura “multistrato” e “multisignificante”, che va al di là della contingenza temporale e lo proietta ancora in avanti.

  3. @ Salvatore,
    certo, l’opera artistica e la personalità di Pasolini è molto più complessa rispetto alle mie osservazioni. Volevo solo restituire al Pasolini “politico” quella patina di contingenza e contestualità politico-culturale che mi pare spesso dissolversi nelle sue letture contemporanee. Quanto poi al suo pensiero, credo proprio che vi sia un aspetto oggettivamente “reazionario”. A grandisime linee, la sua nostalgia per il passato, per una civiltà contadina italiana innocente e pura (virgolettando quanto si vuole), che lo spingeva a trovare situazioni analoghe in altre civiltà a capitalismo “sottosviluppato”, oggi può apparire romanticamente condivisibile, ma dato che la storia è una sola e non se ne ha una di scorta, va detto che il passaggio dalla povertà materiale della civiltà contadina che ha spinto molti italiani all’emigrazione al benessere sociale (anche relativo) di molte di quelle famiglie raggiunto con gli anni del boom neocapitalistico ha segnato una nuova fase dei rapporti sociali, magari anche a prezzo della perdita di valori e di umanità. Ma ritengo che la maggior parte di coloro che vedono positiva quella nostalgia per un mondo superato dovrebbero però interrogarsi se senza quel “passaggio” (violento, talvolta, disumano, ecc.) avrebbero oggi lo stesso livello di benessere. Il capitalismo italiano aveva bisogno di allargare il proprio mercato (i nuovi status simbol di allora, auto, elettrodomestici, ecc.) e per farlo era imprecindibile indurre nuove fasce sociali all’acquisto di merci, “creando” un certo benesere volto al consumo, e in ciò fu supportato anche politicamente (il welfare introdotto da governi keynesiani). E tutto questo l’arcaica società contadina non poteva assicurarlo. La contraddizione, a mio avviso, è che leggiamo Pasolini e magari condividiamo le sue posizioni “reazionarie” di rimpianto del mondo contadino o ci intristiamo per l'”orribile paesaggio” industriale, e nel contempo non ci priviamo (sarebbe assurdo farlo, del resto) delle merci che il benessere sociale conseguito con quel passaggio epocale ci induce ad avere.

  4. @robugliano
    caro Roberto,
    oggi verso le 14.30 ti avevo dato, a caldo, un’ampia e articolata risposta, ma vedo che essa si è dissolta nel web; non avendo io salvato il testo, non posso reimpaginarla . Allora provo ora a risciverla, partendo dalla coda del tuo intervento. Tu dici :”La contraddizione, a mio avviso, è che leggiamo Pasolini e magari condividiamo le sue posizioni “reazionarie” di rimpianto del mondo contadino o ci intristiamo per l’”orribile paesaggio” industriale, e nel contempo non ci priviamo (sarebbe assurdo farlo, del resto) delle merci che il benessere sociale conseguito con quel passaggio epocale ci induce ad avere.”.
    Beh, non sono d’accordo con questa generalizzazione e con quel “noi”. Riconosco che una certa “vulgata” trende a far passare il pensiero di PPP proprio nei termni da te riportati. Ma di vulgata si tratta e , en passant, essa è proprio di uno degli effetti e dei danni dell’omologzione cultuale di cui parlava Pasolini. Io non credo affatto che il pensiero di Pasolini sia “oggettivamente” reazionario. Peso esattamente il contrario, e provo a spiegarmi.
    Anzitutto vanno distinti due periodi del pensiero di Pasolini: 1949-1962 e 1963-1975 ( schematizzo, perchè si potrebbe ancora sottilizzare). Inoltre credo che i testi di PASSIONE E IDEOLOGIA e di EMPIRISMO ERETICO siano fondamentali per capire procedimento e metodo di pensiero di P. sia in sede artistica che in quella di polemica politica e sociologica. P. era solito utilizzare in maniera programmatica lo shema della provocazione e dell’ossimoro, agendo , da eretico, sulle contradizioni delle due grandi chiese (quella del Pci e quella cattolica), e lo faceva da posizioni correttamente di classe. Come intellettule, anzitutto “fotografava” la realtà delle classi subalterne come “altre” rispetto a quelle dominanti, nel senso letterale dell’etimo: sub-alterne a quelle che stanno “sopra”, che dominano; “altre” in termini di condizione economica, sociale, antropologica e culturale. E tali sono state fino alla metà degli anni cinquanta. Ma polemizzava contro il moralismo bacchettone dei cattolici e quello altrettanto bacchettone dei comunisti dell’epoca. P. non ha mai vagheggiato un mondo contadino arcaico acritico e meta-storico; al contrario , vi sono montagne di suoi scritti e soprattuito i suoi primi film, che dimostrano il contrario, proprio la forza e la potenza delle sue costruzioni denunciavano la dura condizione di vita delle classi subalterne. Testi quali L’ODORE DELL’ INDIA, APPUNTI PER UNA ORESTIADE AFRICANA, altro non sono che la lettura del “genocidio” operato dal modello neocapitalista a livello anche di quello che allora si chiamava terzo mondo . Proprio in quegli anni (1962-63) P. aveva scritto TEOREMA E PORCILE, e li aveva poi rappresentati al cinema ,assieme alla MEDEA, e andva elaborando una complessa metafora letteraria densa di riferimenti alle culturae “antiche”. Già dalla metà degli anni cinquanta P. vedeva con spietata liucidità marxiana le linee di tendenza del neocapitalismo, che proprio per il suo sviluppo strutturale, aveva bisogno di travolgere l’arcaismo del capitalismo italiano , sostanzialmente protoindustriale e innestato in una realtà arretrata e ampiamente contadina. Esso aveva bisogno di allargare al massimo l’area di partecipazione ai “consumi” inglobando in un modello unico anche le classi popolari . Questo passava attrraverso un’operazione “illusionistica”: quella di far credere alle classi subalterne ,sfruttandone la legittima aspirazione al benessere e al progrsso, di essere “uguali” ai piccoli e medi borghesi nei consumi, nel mod di vestire, abbigliarsi, perfino di parlare ecc.ecc.;la parola chiave :OMOLOGAZIONE. Ora P la critica a questo modello la faceva in termini di “classe”, con metodo correttamente marxiano, denunciandone la mistificazione (lo sviluppo senza progresso): sapeva bene e vedeva bene l’incapacità strutturale del pensiero marxista prevalente, nelle sue versioni ortodosse (cino-sovietiche) e socialdemocratiche (Pci e socialdemocrazia anglotedesca) che essi erano ormai da anni incapaci di proporre un modello di sviluppo alternativo al neoccapitalismo . E perciò, da eretico, e col metodo della provocazione e dell’ossimoro, svolgeva nei loro confronti una feroce polemica; così come lo stesso faceva nei confronti dell’altra grande chiesa (il pensiero cattolico ufficiale, utilizzando i valori radicalmente rivoluzionari delle origini “l’imperatore non è un dio, siamo tutti uguali davanti a dio;leggilo come un simbolo-metafora), chiesa che anch’essa di grande ascendente sulle classi subalterne, ma di fatto ipocritamente funzionale al neocapitalismo omologante, che andava distruggendo le radici vive dell’uno e dell’altro sistema di pensiero (marxismo e cattolicesimo). P. non era un filosofo sociale, nè leader di partito nè di movimenti, ma era un artista lucido, di solida formazione marxiana e con un grandissimo fondo di cultura nutrita dal grande pensiero critico borghese (l decadentismo, sintetizzando in un parola, ma nel senso del grande pensiero decadente, non come movimento letterario specifico). In tal senso il suo compito lo ha svolto in modo intrepido, da eretico, come dovrebbe essere ogni intellettuale degno di questo nome, non asservito a nessun conformismo nè tributario al pensiero dominante. Era talmente avanti nella sua spietata analisi e denuncia che non è stato capito appieno “nel ” suo tempo. Che deve fare l’artista e l’intellettuale di formazione marxista se non denunciare le linee strutturali del neocapitalismo, come espressione della strategia di nuovo dominio” della Borghesia che perpetra, così, la sua egemonia? E la Storia non gli ha dato ampiamente ragione? Che fine ha fatto ( e che danni ha fatto) il pensiero inaridito del marxismo ortodosso, che allora era totalmente subalterno ai modi e alle forme del neocapitalismo? E bada, P., agitando l’alterità delle classi subalterne, non agognava affatto, lo ripeto, un mondo arcaico e incontaminato! Basta leggere i suoi magnifici repotages fatti per conto di un settimanale negli anni 1959-61,in giro per l’Italia da Nord a Sud e risalendola, da costa a costa (raccolti e pubblicati qualche tempo fa da Contrasto), per rendersene conto: fu oggetto di un vero e proprio linciaggio di tipo sanfedista da parte della dc crotonese, perchè aveva “osato” denunciare le orribili e arcaiche condizioni di vita del proletariato agricolo calabrese, ad esempio. E che dire degli stupendi poemetti de “L’Umile Italia” ne “La Religione del mio tempo”, che sono veri e propri “carrelli sequenza” poetici dello stato delle cose dell’italia degli anni 1952-1959: se le leggi a fondo, ti rendi conto, che non c’è nessun compiacimento nè vagheggiamento di una Italia arcaica, astorica e reazionaria; soprattutto se li leggi con gli “occhiali” di PASSIONE E IDEOLOGIA e di EMPIRISMO ERETICO. Cosa significa il termine “reazionario” dal punto di vista delle categorie ideologiche del pensiero marxista? Molto banalmente, è reazionario, secondo queste categorie, chi si oppone a un processo rivoluzionario che tende a spazzare via il modo di produrre capitalista e le strutture dello stato capitalista. Bene, il NEOCAPITALISMO OMOLOGANTE era un movinmento rivoluzionario o un aggiornamento del modo di produrre e del dominio borghese? Chi si opponeva, da intelletuale, a questo modello, perchè ne vedeva con lucidità visionaria gli effetti distruttivi sulle Classi subalterne e sul Partito e il pensiero politico espresso da quelle classi, era un reazionario o un RIVOLUZIONARIO? La Storia – ora- gli a dato o no ragione? Ripeto, P. era un INTELLETTUALE, il suo compito era quello di denunciare con forza queste tendenze; agli altri sedicenti partiti della sinistra, socialdemocratici o di classe o rivoluzionari il compito di organizzare la lotta di opposzione e configurare un modello “alternativo”.
    Nella seconda fase , a sua volta divisa in due periodi (1963-1968 e 1969-1975), P. accentuava la polemica nei confronti delle due grandi Chiese (pci e chiesa cattolica) e nei confronti dell’estremismo dei giovani “rivoluzionari” del Movimento Studentesco: non perchè era contro la lotta degli studenti , ma perchè ne vedeva le fughei n avanti, ne coglieva tutto il velleitarismo nelle frange più estreme, e ne criticava l’aggessività nevrotica e angosciata” tipica delle tare borghesi dei loro padri” . Quella famigerata poesia “Il PCI ai giovani”, va letta non in termini LETTERALI, ma METAFORICI, come una METAFORA, dell’eterno trasformismo borghese. Nei confronti dei giovani di allora P. nutriva un sentimento di partecipazione e di addolorato dissenso, proprio perchè li invitava ad essere fino in fondo RIVILUZIONARI, nel senso di lottare coerentemente contro il modello NEOCAPITALISTA OMOLOGANTE, ma nel contempo nel vedeva, con lucidità, tutto il velleitarismo e gli abbagli, che hanno portato poi le frange più estreme nel vicolo cieco del terrorismo e della sconfitta più bruciante. Anche qui, ora, la Storia gli ha dato o no ragione? Rileggila quella poesia, fai un attimo mente locale su quanti di quei “giovani estremisti” iconoclasti sono rientrati nei ranghi di quella borghesia reazionaria e triumphans (Liguori, Brandirali, Cusani, e via elencando). Qell’invito “ingenuamente” rivolto agli studenti e ai giovani di “riprendersi il PCI”, e rilanciare la bandiera dell’alternativa al pensiero borghese, si è rivelata una illusion. Ma non certo per colpa di P. o dei giovani, semplicemente pechè già dagli anni trenta il pensiero marxista ortodosso, in tutte le sue varianti, aveva fallito ed è stato duramente battuto dai modelli borghesi e dai modi di produzione borghesi; e a questi modelli anche quel pensiero è rimasto sostanzialmente subalterno vedi Cina attuale).Da intellettuale “scomodo” , ma da vero intellettuale critico, P. ALLORA denunciava con grande lucidità e passione tutto ciò. Denunciarlo nel nome provocatorio dell'”alterità” antropolgica, culturale e politica delle classi subalterne,rispetto a un modello illusoriamente egualitario od omologante è REAZIONARIO? No, credo che sia esattamente il contrario.
    Mi spiace, caro Roberto, quell che riporti è la vulgata che ha stravolto il pensiero di P. : una vendetta “postuma” nei suoi confronti, una nuova notte dell’idroscalo,insomma. E credimi, non è rivolto a te, ma a chi ne ha così banalizzato la complessità di pensiero.

  5. ..e chiedo perdono a te e a chi legge per i numerosi errori e refusi di digitazione.
    Ci sarebbe poi da dire su come P. articolava tutto questo nella sua complessa metafora letteraria , poetica e cinematografica, e come negli ultimissimi anni il suo pensiero diventava sempre più lucidamente sulfureo e pessimista, tale che andava articolando quel terribile affresco di PETROLIO, metafora per antonomasia del Capitalismo del tempo ( e attuale, per i suoi riflessi di finanziarizzazione): un autentico capolavoro, anche così com’è, nel suo stato di abbozzo che si presta a una lettura “interfacciata”, attiva, multistrato.
    Ma questo è un altrop discorso.

  6. brano finissimo, con 2 o 3 punte memorabili, l’unico pezzo di NI che mi sia stampato e conservato, da vari anni che deludentemente lo frequento

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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