È vostra la vita che ho perso

di Amelia Rosselli e Isabella Vincentini

[L’intervista L’immagine del mondo fuori luogo è stata trasmessa il 28 dicembre 1988 durante la trasmissione Il mondo dei poeti di Isabella Vincentini su RAI Radio Uno.]

Isabella Vincentini: Spesso nei tuoi testi ci sono delle visioni: l’aspetto visivo della poesia ha un ruolo geneticamente primario rispetto al piano dell’espressione stilistica?

Amelia Rosselli: Nasce da uno studio della realtà. L’immagine è coltivata, ovviamente. Non sempre, però, nella poesia diventa metafora, l’immagine del mondo fuori luogo, come dire. Si può parlare della metafora in questo senso: l’immagine di una parte del mondo, o pura o esterna, che si spiazza nel tempo e entra nella poesia. Ma, in realtà, il fenomeno ispiratore è semplicemente la vita, il vivere, e un senso di ricerca formale per quanto riguarda la metrica.

IV: Che peso ha avuto la tua attività musicale nella costruzione del ritmo della poesia? Giovanni Giudici ha scritto che la prosodia non è fondata, in te, sul rapporto tra accenti tonici e numero di sillabe, come avviene in tutta la nostra tradizione poetica, ma sulla quantità, intensità e durata, come avviene perlopiù nella metrica classica. Hai anche pubblicato un saggio, Spazi metrici, nella raccolta Variazioni Belliche.

AR: Certo. Premetto: non sono mai stata compositrice; ho studiato composizione e per molto tempo, partendo per simpatie originarie, intorno ai diciassette anni, dalla musica di Bartók agli studi della dodecafonia a Firenze, quando Dallapiccola… e poi studiando di nuovo a Roma dal ’49 in poi, col maestro… privatamente, purtroppo, perché non ho potuto fare l’università od altro. Lavoravo mezza giornata come traduttrice e questo mi lasciava il tempo per studi privati. E ho continuato questi studi postbartokiani che vanno poi anche nella teoria e nel folk, ovviamente – folk in senso non commmercialistico. E a furia di suonare vari strumenti, avrei potuto essere organista professionalmente, ma un istinto mi diceva che dovevo fare un lavoro più creativo. Questo studio etnomusicologico, che si basa su dati di acustica musicale, facendo studi anche a Darmstadt per due estati nel ’59 e nel ’60, questo studio l’ho pubblicato da poco sul «verri», è divulgativo e completato; fu iniziato nel ’53 e completato nel ’77; ha grafici divulgativi. Però tu chiedevi di Spazi metrici, che è molto più breve; è un’aggiunta al primo libro Variazioni Belliche, che fu pubblicato nel ’64 per volere di Pasolini da Garzanti. Io ebbi una conversazione con Pasolini per cercare di spiegargli la mia metrica ormai chiusa, non libera, non neoclassica, aspirante a un nuovo classicismo, se vuoi, ma grazie ad una sintesi metrica fosse di mia utilità e potesse servire anche ad altri poeti, che più tardi, infatti, furono in crisi rispetto al verso libero o al neoclassicismo. È molto breve il saggio, è una postfazione. È scritto meglio di quanto faccia di solito perché Pasolini aveva quel modo di ispirarti. Fu ristampato su Antologia poetica uscita l’altr’anno; ho fatto una o due piccole correzioni, minuscole. Poi l’ho letto due volte spiegandolo a piccole classi.

IV: La tua ricerca formale non è solo molto erudita ma anche molto impegnativa.

AR: È formalmente molto… molto severa, come lo era del resto il neoclassicismo, cioè la metrica distingue la poesia dalla prosa e l’ha sempre fatto pressappoco. Sapendo tre lingue, l’abbandono del verso libero in francese, inglese, italiano in particolare, è un problema che riguarda tutti quanti. Si noterà perfino graficamente, che non sia forma grafica in superficie sulla carta, che le poesie si impongono come fossero cubiche, come avessero una densità e una regolarità metrica, anche se non do sempre rime esatte, anzi le do il meno esatte possibile, anche se non ricorro alla metrica accentuativa, ma avendo studiato per molto sia quella accentuativa, sia quella greco-latina. E quel che ne esce si può farne una sintesi, non posso spiegare il saggio, è molto denso e divulgativo, chi vuole può leggerselo e i poeti, se vogliono, possono capirci parecchio. E anche un critico, anzi di più, se ci si mette. Ma era fuori moda nel ’64 quel tipo di studi.

[Amelia Rosselli legge Hanno trovato stracci bianchi per terra… da Documento]

Hanno trovato stracci bianchi per terra…
Oh angioli che sommessi e con sommesso ardore
senza vento si coronarono d’amore
ch’io se potessi (e potrò) decantassi
invece di dure realtà a me dure
quello che di gioioso v’è in noi in te
lontana dalla tua selva d’immagini statiche
un nuvolo bianchissimo è più puro amore.
Realtà sempre sfuggì da un’analisi profonda
accorgersi d’essere stato sempre una realtà profonda
i suoi frati requisiti da una coscienza borghese
porta alla conoscenza d’ogni movente
questa realtà che non ha voce in capitolo
le vostre fracassate teste e case.

IV: Un tuo verso tratto dalla Libellula dice: l’avanguardia è ancora cavalcioni su / delle mie spalle. Infatti, la tua annessione al Gruppo 63 è stata occasionale e limitrofa. Il tuo sperimentalismo linguistico ha ben altra radice ideologica e ben diversi esiti stilistici. Qual è stato il tuo rapporto con la neoavanguardia?

AR: Impostavo diversamente la poesia anche perché avevo interessi politici che in quel periodo loro non avevano affatto. Li ebbero più tardi: Sanguineti diventò membro del pci, Balestrini si sa la sua storia; l’impegno politico venne, però, dopo per loro. Ma nella poesia… mi fecero leggere, fu molto interessante perché mi riavvicinò alla critica strutturalista che mi parve già da me assimilata. Dei cinque poeti più noti quelli che mi hanno influenzata di più sono stati, strano a dirsi, Massimo Ferretti, che è morto purtroppo, e Antonio Porta. Ferretti ha scritto un libro bellissimo chiamato Allergia, di poesia, è stato ristampato dopo la morte a quarant’anni ed è la poesia di uno che vive a Jesi, vicino ad Ancona, di un’enorme spontaneità e brillante intelligenza. La ricerca di Porta mi ha influenzata; quella di Sanguineti mi sembrava piuttosto poundiana. Io sono stata menzionata perché ero uscita sul «Menabò», perché non lo sai ma Elio Vittorini aveva accettato di pubblicare ventiquattro-ventisei poesie da Variazioni Belliche. Questo li ha interessati. Credo sia stato Giordano Falzoni a introdurmi all’ambiente. Comunque è stato interessante tutti e quattro gli incontri perché si è imparato a leggere al pubblico e si è imparato a discutere romanzi altrui. Ci sono delle poesie in cui faccio un collage in Primi Scritti, di quello che dice il critico e di quello che legge il romanziere e di quello che penso io mentre li ascolto. Faccio delle poesie così, mischiando questi tre elementi ma sono poesie particolari scritte un po’ in loro onore e un po’ per gioco.

IV: Com’è cambiato nel periodo successivo questo tuo rapporto con lo sperimentalismo, nei libri successivi?

AR: Non c’è sperimentalismo nella poesia, c’è sperimentalismo nella vita, c’è sperimentalismo finché si fa una ricerca di se stessi, nell’esperienza. Poi c’è sperimentalismo rispetto alla storia della poesia o della prosa, o della prosa poetica, o della saggistica, o del romanzo. L’universo della struttura non molto manovrabile. Ho parlato della parte sperimentale. Ce n’era parecchio nel primo libro perché non erano lapsus queste fusioni: avevo problemi linguistici tipo Gadda, tipo Joyce, tipo Pound, e problemi politici, anche nel primo libro. Poi lo sperimentalismo è andato piuttosto a sfogarsi nel dare esemplificazione di questa sistematica metrica nei miei libri susseguenti al primo.

[Amelia Rosselli legge Ininterrotta la mano guida ancòra impotenza da Documento e la notte era una splendida canna di giunco da Variazioni Belliche]

Ininterrotta la mano guida ancòra impotenza
nelle sue carni lentigginose così piene
di sale della terra che mai mostrò ad
altri altro che oreficerie, colombi,
rivolte o massacri.
Contaminata la gioia da parenti illustri
un dovere in più illustra situazioni
che non vengono chiarite: sei tu! a
non chiarirle: donna ed amore, forza
o polizziotto: guerra o revisione tutti
sistemati in un intero mondo verde di
lusinghe al povero e all’imbarazzato
che non potendo pane ai denti e al cuore
portare illustra sgabellando la sua
intera moralità.

La notte era una splendida canna di giunco
i suoi provvisori accecamenti erano di giunco
i suoi averi scappavano dalle mie mani
le sue filantropie erano di giunco.
Oh potessi avere la leggerezza della prosa
o di quel inverno che fu così ben racchiuso
fra i tetti impiantati: questa strada d’inverno
è come se qualcuno l’avesse saccheggiata.
Oh potessi realizzare le rissa degli angioli
indovinati fra le colonne vertebrate, così
come la strada precipita senza segno, senso
per un vuoto putiferio per un mistico
soliloquio.

IV: Molti tuoi testi sono scritti in inglese e francese. Come sei giunta a quel concreto ritmato italiano di cui ha parlato la critica?

AR: C’è un ritmo basilare, lo sanno scolasticamente, nell’italiano, che è un flebe che non rappresenta quello inglese, tipico della lingua inglese, che ha una sonorità tutta sua poi l’italiano, lenta nell’esplicarsi anche sul piano sintattico. Il ritmo è ta-taan, tatatan, tatatan, tatatan… un piede molto noto, che è molto nelle letture… Ungaretti accentuava. Nell’inglese c’è: tatà, tatà, tatà, tatà… ed è molto più tra i denti parlato, liquido, l’inglese, più veloce, meno sound. E poi io ho l’impressione che le declinazioni latine, le lentezze grammaticali, le chiarezze grammaticali latine siano preponderanti ancora nell’italiano. Perciò molti scrivono nel dialetto: per avere una voce più veloce.

[Amelia Rosselli legge Faro da Sleep]

be kind be kind be kind I hear this phrase
screaming in my ear each day, be sweet
be sweet be sweet be sweet this is all
I can say (or seem to say). Alas the phrase the
flare the open door the glare the blare the fan
the flight the high tower reaching up towards glaze
are all I am fit to say, to see to hear to feel
to sway. And the open door fitted into a present
day, most say most say most say most die
on this cross.
The watch-tower, the barrel-hill, the lights go
out, upon the swaying of the hill. It’s a plague!
and all bemoan the day the clay the meat
on your fingers.
So that’s what the’re for, the lighthouse watching
anxiously.

IV: In quale chiave hai letto i metafisici inglesi ed il surrealismo francese? Quale influenza hanno avuto queste letture sulla tua scrittura?

AR: Il fatto è: iniziai in America precocemente, fin dai quindici anni; poi ho ridato gli esami in Inghilterra e là, non solo Shakespeare, ma mi son precipitata – in una camera in affitto in attesa che mia madre venisse da Firenze – mi precipitavo a vedere Olson, […] Shakespeare e più tardi ho ripreso quelle letture, mentre… a Roma. Un’influenza molto forte si nota nel bisogno di regolarità e super… come dire, -metrica. Nella poesia in inglese è – c’è solo un libro in inglese scritto un po’ privatamente, che comincio a pensare di pubblicare ora – questa supér si trova; invece, nella lingua italiana è un bel problema perché… Intanto il libro è in inglese o in americano, non è il terzo libro italiano che è più angoloso, è qualcosa come quando… di Gerald Manley Hopkins o di Dylan Thomas, è fluido. Nelle due lingue principali – ho scritto anche in francese – in Primi Scritti ho dato tutta documentazione di esercizi che facevo fino a circa i trent’anni, per scegliere poi definitivamente di scrivere in Italia e di vivere in Italia, allo stesso tempo. Ma direi che non mi abbia molto influenzato nella poesia in italiano, quella inglese sì. Anche il romanzo: per me leggere grandi classici in prosa… mi danno quasi più ispirazione le prose, le grandi costruzioni prosastiche, che non la poesia, salvo per i grandi poeti, Lorca o Pasternak o Majakovskij, o tanti altri, Valéry, Rimbaud, ce ne sono tanti tanti. Una volta letti troppi poeti, si passa anche a leggere parecchia prosa, prosa in qualche modo che richiama alla realtà e all’esperienza. Hanno tendenza i poeti a fare un po’ di neoermetismo, vita interiore, eccetera, dimenticando che poi, giorno dopo giorno, è esattamente quel che gli accade che fa prorompere una poesia. Spesso si scrive anche di getto, no? oppure inaspettatamente, si scrive per venti giorni di seguito dietro un’esperienza, se non shockante, felice, di tutti i generi.

IV: L’elemento visionario a cui spesso la critica fa riferimento, le visioni, gli incubi, questo mondo immaginario…

AR: Il termine “visione” non vuol dire niente perché io ho studiato un po’ di psicologia, anche pensato da giovane non si potesse essere scrittori senza fare un’analisi per sbarazzarsi di problemi troppo personalistici e non immetterli negli scritti per un pubblico che dei propri personalistici problemi non ha voglia di interessarsi. Si può parlare in termini psicanalitici: non si parla di “visioni”, si parla di “inconscio”, “preconscio”. La metafora è un’immagine. Si possono avere immagini davanti agli occhi mentre si scrive, o anche non mentre si scrive, ma sorgono dall’inconscio. Questa visionarietà è semplicemente di tutti. È questione di sbloccare: il rapporto tra conscio e inconscio è molto rigido in una società inevitabilmente nevrotica, come diceva Freud. Il compito dello psicologo è di permettere un passaggio dall’inconscio al conscio non soltanto verbale, per immagini; spesso, infatti, sogniamo. Per esempio, se scrivo a macchina, se scrivo con una certa intensità o con una certa velocità, da due righe posso arrivare alla terza solo per un’immagine incomprensibile che mi si forma davanti agli occhi; ma questa non è visionarietà: posso usare un’immagine se voglio, soffermarmi a capire che cos’è. Perché ho una piccola expertise di ex studiosa di psicologia; poi, andare non dagli junghiani ma dai freudiani anni dopo, a un’analisi d’appoggio per correggere certi malintesi e disaccordi avuti con la scuola junghiana da giovane. “Visionarietà” in senso largo è visione del mondo, ma quello è un termine filosofico; la visione del mondo si sa che è soggettiva. Il critico potrebbe studiare la visione del mondo di un poeta quando ha finito di scrivere o quand’è morto, ma è proprio quel che il poeta evita di lasciar fare, anche se il problema è che tu non scrivi un secondo libro se ne scrivi uno uguale al primo. Non ha senso ripetersi, ha senso il misurarsi e il rinnovare questa visione, o queste mancanze nella propria comprensione nel mondo circostante.

1. La trascrizione dalle fonti video – e audiografiche si è mantenuta aderente al dettato spontaneo della poetessa; per gli interventi degli interlocutori, in qualche caso si è provveduto ad una risistemazione sintatticamente più comprensibile e sintetica. L’argomentare ha dunque l’andamento e i tratti distintivi dell’oralità, comprese cosiddette sgrammaticature, come anacoluti, disaccordi tra gli elementi della frase, tempi verbali impropri, etc. Analogamente, si è scelto di non normalizzare alcune distorsioni linguistiche dell’autrice per rendere conto della sua peculiare competenza espressiva. [Silvia de March]

2. È vostra la vita che ho perso è il volume numero 26 di FuoriFormato, collana di testi italiani contemporanei diretta da Andrea Cortellessa. Il volume è a cura di Monica Venturini e Silvia de March, la prefazione è di Laura Barile. L’11 febbraio 2010, data simbolica di uscita del volume, Amelia Rosselli era morta da 14 anni. Io ho pensato solo, con parole sue, e in questa liquefazione delle attitudini.
 

[La fotografia in apice è di Gabriella Maleti, Roma, 1 dicembre 1979.]

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13 Commenti

  1. Un’intervista molto profunda perché Amalia Rosseli parla con precisione del congegno della scrittura, si ferma nell’ attimo dove
    la vita entra nel mondo della poesia. Ho trovato quest’idea bellissima, piena d’energia e d’amore per la vita; si trova anche questo raggio negli occhi
    blu di fiore; un sorriso che si dà al mondo.

    Quando un’amica preziosa mi ha offerto una raccolta della poesia di Amalia
    Rosseli, mi è arrivato un senso vivo del dolore, un paesaggio mentale
    che non si puo dimenticare: una sola metafora rimane nella mente.

    L’intervista appunto evoca la nascita della metafora
    venuta della vita, ma anche di quello che è nascosto ( la vita interiore).

    Scrivere è forse non limitare questo confronto al fantasma, lasciare
    l’ombra venire e restituire la sua faccia luminosa nella musica del verso:
    lavoro di musista e di orologiero;
    Senza il lavoro della scrittura, la metafora rimane un mostro.

    Una parte interessante dell’intervista è anche nella riflessione sull’esilio
    della lingua italiana. L’esilio viene arrichire l’esperienza della scrittura, la lingua madre si nutrisce dei viaggi linguistici, come porto.

  2. Evviva l’uscita di questo grande volume. Un mio amico è stato in galera tanti anni e finalmente ha avuto tempo per leggere TANTO. Quasi quasi piacerebbe anche a me.

  3. Grande, sfortunata e misconosciuta (al grande pubblico). Le rendo omaggio postandovi questa sua poesia:

    Fui, volai, caddi tremante nelle
    braccia di Dio, e che quest’ultimo sospiro
    sia tutt’il mio essere, e che l’onda premi,
    stretti in difficile unione, il mio sangue,
    e da quell’inganno supremo mi si renda
    la morte divenuta vermiglia, ed io
    che dalle commosse risse dei miei compagni staccavo
    quell’ansia di morire
    godrò, infine, – l’era della ragione;
    e che tutti i fiori bianchi della riviera, e
    che tutto il peso di Dio
    battano sulle mie prigioni.

    (Poesie 1959, Da “Variazioni Belliche” Garzanti, 1964)

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