Portami a ballare

di Mirfet Piccolo

Anche la cataratta dovevi farti venire, sbuffa Irene. La madre, seduta sulla sponda del letto, con le gambe nude e secche che dondolano, su e giù, avanti e indietro, non ne vuole sapere di alzare le braccia. Dalla vita in su, il suo corpo è pesante, immobile nel vuoto. Irene si ferma, spazientita; la camicia da notte è una palla tra le sue mani magre, affaticate. Affonda le dita nella palla di stoffa, la guarda negli occhi: e se tu fossi morta, mamma. Sbrigati, la strattona, lo sai che non potevo lasciarti addosso il vestito bello. Irene le alza un braccio, e infila. Dai, forza. Poi le alza l’altro, e Irene infila ancora. Il pannolone lo ha già cambiato stamattina, prima di andare in ospedale per la visita. Adesso è ora di pranzo e il bar sarà pieno. Ci mancava solo la partita, pensa. Irene vuole andare a fare il suo dovere in fretta, preparare i caffé che deve e riempire i bicchieri senza fare domande. Perché l’unica cosa che desidera, che desidera veramente, è che arrivi sera. Per andare a cena con Salvatore. Speriamo si sia ricordato di prenotare il ristorante, pensa Irene, speriamo che non vada a finire come con il teatro al loro secondo appuntamento.
Irene aveva voglia di osare; e poi aveva letto che “L’anima buona del Sezuan” era uno di quegli spettacoli che parlano al cuore. Allora parlerà anche al mio, aveva pensato Irene, e aveva chiesto a Salvatore di farle questo regalo. Salvatore li aveva comprati subito, i biglietti, ed erano anche dei buoni posti, ma poi era stato così premuroso nel nasconderli che non era più riuscito a trovarli. Quando si è stanchi come Salvatore è facile dimenticare le cose, lei lo capisce. Li avrebbe ricomprati alla prima buona occasione, ma stasera no, aveva detto, stasera sono stanco. Restiamo a casa e tu mi consoli con il tuo dolcetto. Lavora sette giorni su sette, Salvatore, vende automobili e certi clienti sanno essere estenuanti con le loro pretese di qualità a buon mercato. Irene sa quanto certe giornate possano essere difficili e non se la prende; gli sta vicino come può, e come è giusto che sia. Perché amore non è pretendere, amore è dare.
Irene distende il corpo della madre sul letto e con il lenzuolo lo copre. E adesso dormi, le dice, che tanto non hai nient’altro da fare. Io, invece, ho da essere felice.
Prima di scendere al bar Irene vuole sciacquarsi il viso, spazzolarsi i capelli lunghi e fini, scrostare lo sporco che si sente addosso e che come carta velina la comprime, la pressa. Irene però ha imparato che il trucco per stare meglio è pensare a Salvatore. Allora Irene chiude gli occhi: vede e rivede. Ti è andata bene, dice, e sorride alla sua immagine riflessa allo specchio. Con un dito sfiora la cicatrice che le marca la guancia. Non fa niente, pensa. Le cose, adesso, stanno cambiando veramente; Irene è pronta a scommetterci.
Irene esce dal bagno, sente il respiro pesante della madre e ne è infastidita. È intelligente, Irene. È stata l’unica della sua famiglia a diplomarsi e adesso ha anche imparato ad usare il computer della biblioteca, ma non riesce a capire com’è possibile che una persona perda la ragione da un giorno all’altro. Perché sua madre, quella sera della vigilia di Natale, Irene l’aveva trovata con la camicia da notte intrisa di piscio che picchiava la testa contro il muro. Sono passati tanti anni, quasi venti, oramai, ma Irene ancora non sa come, non sa perché. Non con esattezza.
Irene adesso deve proprio andare e si affretta, con la borsa in spalla corre giù per le scale. Tolto il dente tolto il dolore, pensa, e maledice suo padre, uno scalino dopo l’altro per tre piani, per averla lasciata con una fratello bestia ed una madre demente. Mi hai mentito e ti odio, papà, ti odio perché sei morto.

***

Salvia ogni tanto aiuta Irene al bar e adesso vuole sapere come sarà questa sera.
-Non so, dice Irene, ma sarà bello.
-Io non so come fai.
Salvia si toglie il grembiule e lo passa a Irene. La gente del bar urla allo schermo della TV, alla partita che non va come vorrebbero.
-Cosa faccio cosa?
-Come fai che tu c’hai sempre il coraggio di innamorati. Io dopo che la pancia ce l’ho avuta piena di quel fetente ho perso le chiavi. Nel Lambro son finite, insieme a lui. Un topo di fogna.
Irene non vuole dire ciò che pensa, non le pare bello.
-Comunque dicono che stasera piove.
-Meglio- Salvia le strizza l’occhio – Così state più vicini, sotto lo stesso ombrello.
Salvia è sola e ha già un figlio di dieci anni e nessuno la vuole più. Però è anche colpa sua, pensa Irene, perché non ne vuole sapere di imparare ad usare il PC della biblioteca. Magari anche tu trovi qualcuno, le aveva detto un giorno, come ho fatto io con Salvatore. Ma Salvia era troppo ignorante e non aveva capito, aveva frainteso.
– Domani scendo al bar così mi racconti, dice.
Irene si stringe il grembiule attorno alla vita. Giudo è al bancone delle sigarette e della ricevitoria; il vetro in plexiglas è graffiato, gli deforma la faccia e storpia il suono della sua voce, ma Irene non riesce a non sentirlo.
– Dicci a tuo fratello che le sigarette me le deve pagare di più e meglio.
Irene vuole alzare il volume della radio alle sue spalle: si volta, e con la coda dell’occhio intravede la piccola Marinella, in lacrime. Non oggi, pensa Irene.
-Altrimenti lo rovino, dice Guido.
La giornata di oggi non me la rovina nessuno. Irene Grandi è la sua cantate preferita, e Irene alza il volume. Sono come tu mi vuoi, sono come tu mi vuoi. E poi ha il suo stesso nome. Questo è un segno, pensa Irene. Sorride, prende uno straccio, asciuga i bicchieri da vino dal vapore della lavastoviglie. In parte li asciuga ed in parte ci si accarezza le mani: a Irene piace sentire sul palmo della mano il caldo vapore della lavastoviglie. E poi, adesso, il calore le fa venire in mente Salvatore al loro ultimo appuntamento, quando lui le ha chiesto una prova d’amore. Forse come prova era stata un po’ prematura ed un tantino estrema, ma Irene aveva sentito un impulso forte e inconfondibile. Allora ha detto sì. E Salvatore ha accostato la macchina nella zona industriale, che è sempre la più tranquilla, ed ha aperto la portiera ed è sceso. Poi ha accompagnato a sé Irene prendendola per i capelli (con passione, aveva precisato a Salvia) e si è tirato giù la cerniera. Adesso bevi. E Irene gli ha dato prova del suo amore. Perché l’amore, quello vero, non deve avere limiti altrimenti non è amore.
– E abbassa quella cazzo di radio, urla Guido. Irene non abbassa il volume e lo guarda sbuffare e sprofondare sulla sedia. Appiccato con lo scotch sul bordo del bancone della ricevitoria, il manifesto della Dea bendata penzola nell’aria viziata: non cadere, pensa Irene, non oggi.

Con uno staccio umido Irene pulisce il bancone, canticchia.
Gabriele si avvicina, allunga il bicchiere vuoto.
– Irene, dice.
Irene vorrebbe sorridergli, chiedergli come sta, e se balla ancora.
– Gabriele, risponde, e gli versa un altro bianchino.
Certo che era proprio bello, pensa, quando da ragazzi ballavamo tutti insieme giù alla rotonda, con Gabriele che sapeva ballare veramente e aveva fatto anche dei provini importanti alla RAI. E poi aveva quei capelli arrotolati che sembrava proprio il Leroy Johnson del quartiere. Poteva ballare qualsiasi cosa, e per Rosa ballava Cyndi Lauper dieci volte di seguito. Ora i suoi capelli sono corti corti, indossa una tuta blu sbiadito e ripara ascensori. Chissà se sa ancora ballare, si chiede Irene, chissà dov’è Rosa.
Nel bar entra un uomo che Irene non ha mai visto. E’ cieco, e Irene pensa che anche sua madre finirà per perdere la vista. L’uomo picchietta il percorso con il bastone: lo immagina e poi lo incide tra il vuoto e il pavimento. Da ragazza avrebbe voluto studiare recitazione, e aveva pure scritto un monologo che parlava di una donna cieca. E per scrivere meglio la parte, per fare le cose fatte bene, Irene si era messa una benda attorno agli occhi. Per provare a vivere senza vedere; per sentire, immaginare, e capire se anche da ciechi si potesse essere felici. L’uomo cieco è davanti a lei, sorride. Sorride a me? Come fa a vedere che sono qui? E se mi sposto, lui che fa?
L’uomo chiede un caffé, lo beve a piccoli sorsi. Irene vorrebbe chiedergli se è felice lo stesso, e come fa ad esserlo. Magari lui la felicità l’annusa. L’uomo ringrazia ed esce, cammina sicuro sul suo percorso puntellato. E Irene sente di invidiarlo, anche se non saprebbe dire esattamente perchè.
Irene cammina decisa alla ricevitoria e strappa con forza una gratta-e-vinci. Tu sei pazza, le dice Guido. Con una moneta raschia la polverina argentata, e gratta così forte che il biglietto si lacera proprio nel mezzo. Irene decide fare le cose fatte bene e divide in due il biglietto. Poi gratta prima una parte, con minuzia, e soffia; gratta l’altra, con più minuzia, e soffia ancora. Poi accosta le due parti, le incastra come due pezzi di un puzzle. Irene guarda. Andrà meglio la prossima volta, si dice; la prossima volta, si ripete.

La partita di calcio è finita e Gabriele se n’è andato da un pezzo. Nell’angolo da gioco il signor Piero e gli altri vecchi sbavano imprecazioni sulle carte perdenti, le gettano sul tavolo, le bestemmiano. Alla tabaccheria una processione lenta ma continua di persone si trascina sui gratta e vinci accartocciati e buttati a terra. Da dietro al bancone Irene si sente protetta, diversa, non contaminata. Elegante, le ha scritto Salvatore in chat, e fai la brava. Ci teneva al vestito. Irene ha comprato in grande offerta un vestito perfetto per l’occasione. Color lilla, aderente al busto e poi sciancrato con il gonnellino in piume. Un po’ corto ma non troppo. Comprato al mercato ma non si direbbe, sembra uscito da una boutique tanto è cucito bene e di buona fattura. Irene non vede l’ora che arrivi sera per indossarlo. Ecco la tua donna, gli avrebbe detto, e l’avrebbe lasciato a bocca aperta, e gli avrebbe detto Portami a ballare. Perché Irene ha capito subito che a certi uomini piacciono le donne che sanno dosare bene la sottomissione e l’intraprendenza. Irene si mordicchia il labbro, e in fondo si sente come se il jackpot l’avesse vinto lei.
Irene vede arrivare le due zingare di Chiesa Rossa; si siedono di nuovo davanti all’entrata del bar, allungano le mani vuote a chiedere elemosina. La gente del quartiere non li vuole, perché entrano nelle case, perché piangono che stanno male ma alla fine hanno le roulotte e le mercedes. Però Irene una sera ha sfogliato un libro in biblioteca, in attesa che il PC si liberasse, che parlava di certi zingari che lavoravano il ferro, e quando arrivavano loro nei paesi era sempre una gran festa. Saranno zingari diversi, questi. Gli zingari puzzano e non pagano le tasse, dice Guido, e con i loro furti ti smuovono troppo il quartiere. Guido esce dal bar con la mazza in mano, la brandisce, violenta l’aria muta e fragile.

***

L’abito scivola sulla sua pelle e tutto il suo corpo sembra respirare a nuovo, da principio, come appena nato. Irene si guarda allo specchio. La sua immagina un po’ la imbarazza, ma infondo si piace. E’ che non sono abituata a vedermi così, pensa.
Per truccarsi la luce è fondamentale, Irene lo sa. Ideale è quella del giorno, ma non quella diretta del sole. Oppure una luce artificiale ben distribuita che non crei ombre sul viso. Fuori è sera e Irene ha solo una normale lampadina che penzola anonima dal soffitto. Parte del suo viso è in ombra. Ma Irene è pronta anche a questo, si è preparata e ha fatto come consigliato da Fiammetta di Donne Più Donne: le prove due giorni prima, poi la prova generale un giorno prima. E quando il giorno zero arriva tu sarai perfetta, così era scritto.
Irene si siede di fronte alla specchiera, raccoglie i capelli in una fascia color carne, respira profondamente.Ogni amore ha i suoi giusti rituali. Irene dispone con cura i suoi strumenti e guarda la sua collezione di trucchi. Un po’ erano di sua madre, alcuni glieli ha prestati Salvia, altri erano omaggi di riviste. Irene ha tutto ciò che le serve per essere attraente, per impressionare, per far innamorare.
La base del trucco è una delle cose più importanti, e il fondotinta (quello di Irene è del tipo compatto) è indispensabile per un trucco ben riuscito. Per una buona applicazione del fondotinta la pelle deve essere perfettamente pulita, e Irene si è preparata anche a questo. Ha fatto dei regolari gommage per eliminare le cellule morte, avvizzite, stanche di loro stesse. Irene pizzica una noce di cotone, vi lascia cadere la crema idratante e si massaggia piano. Perché se la pelle è idratata il trucco tiene meglio, e mettere il fondotinta è più facile. Inumidisce la spugnetta con l’acqua della ciotola e distende il fondotinta sul mento, sulle guance, lungo tutta la fronte; dall’interno del viso verso l’esterno, dall’alto verso il basso. Picchietta. Il correttore minerale scorre lungo la cicatrice, mentre quello liquido è per la base degli occhi. Poi l’illuminante, il suo grande acquisto, il Touch Ecclat di Yves Saint Laurent comprato per l’occasione in Corso Buenos Aires. L’ombretto cremoso silver e l’ombretto gold sono per la base degli occhi, quello marrone invece è per la parte interna dell’occhio. Eyeliner, mascara. Rossetto rosso lucido e a lunga tenuta, come il loro amore, pensa Irene. E qualche ciglia finta, giusto due o tre alla fine, per allungare un tantino l’occhio. Solo un po’, quel che basta. Con la cipria salda il tutto sulla sua pelle. Sono pronta, pensa. Sono perfetta.
Riflessa nello specchio, Irene vede una figura che non è la sua. Sua madre è in piedi, sorretta dallo stipite della porta, muta. Vederla la disgusta. Ha la camicia da notte bagnata di piscio e adesso Irene dovrà lavarla e metterle una camicia pulita. E’ sua madre, lo deve fare. Perchè a volte Irene si dispiace, di non amare questa donna. E si dispiace pure di non odiarla. Non l’ama, non la odia. Prove acute punte di disgusto per quella presenza parcheggiata in un corpo vivo e già morto che Irene deve pulire.
Irene si sfila piano il vestito, lo distende leggero sul letto, con la mano elimina le pieghe indesiderate e, vestita dei collant e del reggiseno, va a fare quello che deve fare. Le toglie la camicia da notte, la infila nella vasca, le punta il getto d’acqua tra le gambe. L’acqua è fredda e la madre ha un sussulto. Ma Irene va avanti, e inonda quel corpo in rovina, quelle pelli nude e cascanti come lacrime svuotate e pesanti. E mentre le mette il pannolone, mentre la conduce a letto vestita della camicia da notte pulita, mentre la copre con il lenzuolo e le da un bacio vuoto sulla fronte, Irene pensa che la vita non può essere tutta qui, che la vita bisogna aggredirla altrimenti ti sbrana e ti lascia agonizzante.
Poi torna in camera, Irene. S’infila il vestito per la seconda volta, si guarda soddisfatta allo specchio. Un scarpa, poi l’altra. I tacchi non mentono, l’ha letto su Donna Più Donna. A Irene piace questa frase, anche se non ne comprende bene il significato; le piace il suono epico. Si dice “epitaffio”, pensa. E’ ora e lei è veramente pronta. La madre, dal suo letto, dice qualcosa che Irene non distingue. Perché Irene è emozionata, come una ragazzina innamorata al suo primo appuntamento. Le gambe un po’ le tremano, deboli sotto l’abito e incerte sui tacchi, ma Irene ha deciso. E chiude la porta alle sue spalle.

Ha lasciato l’ombrello a casa, perché con l’abito sta male specialmente d’estate. Salvatore le ha detto di farsi trovare giù, perciò vuol dire che non la farà aspettare molto, e se inizia a piovere ci sono sempre i portici, dove Irene può andare a ripararsi. Per fortuna che la maggior parte del trucco che indossa è waterproof. Irene passeggia lungo il viale, guarda la vetrine che conosce così bene. Quella del colorificio è la sua preferita. E poi è l’unica con una luce vera al suo interno che illumina il negozio anche quando è chiuso. Per tutti gli altri, Irene si deve affidare alla luce che dai lampioni arriva stanca sul marciapiede. A Irene piacciono i colori, e ogni volta che guarda i barattoli e le tavolozze oltre il vetro si stupisce che al mondo esistano così tante tonalità. Irene immagina di dipingere la loro casa con un colore diverso per ogni stanza. E’ sicura che a Salvatore piacerebbe. La cucina la vorrebbe arancione, azzurro il bagno, blu la camera da letto. La cameretta bianca, in attesa del colore, però il cielo stellato andrebbe comunque bene, pensa. Salvatore ha detto alle nove e sono le nove e venti. Irene ha il cellulare stretto in pugno. Il traffico può essere terribile, pensa. Passeggia; Irene ha preso confidenza con i tacchi. Ogni tanto apre il display per vedere se ci sono messaggi o chiamate non risposte. Magari ha dimenticato il cellulare a casa.
Continua a camminare, Irene. Su e giù, avanti e indietro. Dal tergicristalli di una macchina parcheggiata, Irene sfila un giornale pubblicitario. A parte il cibo per gatti, l’Unes non fa poi così tanti sconti, pensa, però è l’unico supermercato che c’è da queste parti, altrimenti ti tocca andare fino a Rozzano, al Fiordaliso. Le scarpe cominciano a farle un po’ male. Irene dispiega le pagine del giornale sul marciapiedi e ci si siede sopra. Si sfila la scarpa sinistra, per dare un po’ di tregua al piede. Guarda la ferita sul mignolo, la pelle arrossata a mezza luna poco sopra le dita. Chissà perché le scarpe, quando fanno male, fanno male quasi sempre ad un solo un piede e non a tutti e due, si domanda. Strano. Se non potrà ballare dopo cena, magari lui le proporrà un posto tranquillo dove bere qualcosa e stare vicini. Qualsiasi cosa va bene, pensa.
Un clacson suona e Irene lo riconosce e si alza di scatto. Finalmente. E poi sta iniziando a piovere e Irene cominciava a preoccuparsi.
Hey, urla Salvatore. Con il braccio le fa segno di salire in macchina. Dai, forza, le urla. Irene corre, ed è così felice che non sente più dolore al piede. Chiude la portiera, gli stringe le braccia al collo, lo bacia. Amore mio, dice, e accoccola la sua testa sopra la spalla che profuma di uomo. Vero amore che dopo cena mi porti a ballare? Salvatore ride: ecco il nostro dolcetto, dice. Vero amore? E poi nei sedili dietro Irene vede. Cosa, esattamente? Un’ombra? Il completo da lavoro appeso? Un grande pacco regalo? E’ un uomo, e anche lui ride.
Irene sente molto freddo, adesso; scioglie l’abbraccio e si siede rigida, composta. Guarda davanti a sé oltre il vetro battuto dalla pioggia e vede le macchine correre veloci, appropriarsi della strada, abbagliare mordaci le strade bagnate.

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9 Commenti

  1. .. cappero…

    .. non riesco a capire se è una buona scrittura, è un po’ come la mia, sincopata, che non sono uno scrittore, a me sto pezzo è paciuto un casino, molto; si però adesso voglio sapere come continua.. B. la prego non mi lasci così…

  2. B. dall’altra parte si stanno scannando su estetismi fari, se leggono sto pezzo lo fanno a brandelli.. °-°

    ..senta , ma, è grave che a me sia piaciuto?..

  3. Mirfet Piccolo, B. non mi darà retta – è un vezzo degli intelletuali lasciarmi sempre senza risposte – la prego, almeno lei, mi faccia leggere il seguito, non mi lasci così..

    .. quando parlavo di scrittura sincopata dicevo per dire, a me piace moltissimo quel tipo di scrittura.. ehm..sincopata.. si..

  4. È tutta un’attesa questo racconto, un’attesa che si srotola piano con i pensieri che si fanno immagini dettagliate: pare di essere lì con Irene quando è con la madre o al bar o in attesa sul marciapiede dove anche la luce si fa buia e penetra solo un poco, se non fosse per quei colori dell’unico negozio illuminato quasi a sottolineare la sola speranza e la sola gioia di Irene, quella di una serata diversa, di un amore nuovo, tutto sarebbe buio come la sua esistenza e quella della madre. Come le altre esistenze, quelle del bar per dire, o forse di tutti noi quando nessuna speranza, nessun amore o dolore o anche odio scalfisce la patina dei giorni.
    E poi quello che mi piace dei tuoi racconti, cara Mirfet, è che i tuoi sono personaggi minimi, persone qualsiasi, li estrai dalla massa incolore della quotidianità dandogli una forma e una voce.
    Hanno sempre uno strappo, un taglio, un dolore ché la vita non è mai facile, mai felice. Soltanto il cieco lo è nel tuo racconto. Forse bisogna bendarsi gli occhi per riuscire a vederla e a sentirla la vita. Ciao Lucia

  5. Ansiogeno colpo di scena finale…in una giornata ansiogena come questa…ciliegina sulla torta.
    Splendido, però. Finale completamente diverso, ma in certi aspetti mi ricorda “Eveline”, in Gente di Dublino, paralizzata da una vita che non ama, alla ricerca disperata della felicità che le sfugge di mano. Solo che in questo caso, Irene, a differenza di Eveline, uno sforzo per trovare la luce lo fa, con voglia e impegno, mentre Eveline la rifugge, assecondando nichilisticamente una sorta di autolesionismo spirituale.
    Complimenti davvero per l’agghiacciante finale a sorpresa.

  6. Dunque… ehm .. io avrei finito di rileggere per la 12esima volta questo e l’altro brano della Piccolo.. mi conviene riprendere la lettura o attendo un altro brano dell’autrice?..che dovrebbe essere ormai imminente.. giusto?

    B. non voglio meterle fretta faccia con comodo, comincio ad impararli a memoria..

    dunque..

    “Anche la cataratta dovevi farti venire…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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