PERCHÉ BUÑUEL

Di seguito il terzo intervento della rassegna Sguardi a perdita d’occhio. I poeti leggono il cinema. L’introduzione e gli altri interventi si posso leggere qui, qui e qui.

di Franco Buffoni

Perché scelgo di proporre Buñuel per questo ciclo di Bergamo-poesia, che mira a coniugare l’arte di un grande regista con la scrittura di un poeta contemporaneo?
Ricordo che negli anni accademici 1969-70 e 1970-71 – mentre ero studente alla Bocconi – frequentai anche i corsi di “Teoria cinematografica” tenuti da Sergio Raffaelli e Morando Morandini presso la Facoltà di Teologia dell’Aloisianum di Gallarate. E il regista sul quale svolsi la mia tesi fu Luis Buñuel. Basta questo perché io lo scelga di nuovo a distanza di quasi quarant’anni?
Pensando alle centinaia di film successivamente visti, alle decine di registi incontrati e studiati in età più matura, devo ammettere che sono anche altre le ragioni per cui vi propongo e mi ri-propongo Buñuel.
Anzitutto per il ruolo-chiave che i Gesuiti ebbero nella formazione di Buñuel – che amava definirsi “ateo per grazia di Dio” – e anche nella mia.
“In fide veritas / In dolore gaudium”, questi gli ammaestramenti che – a partire dagli otto anni di età – al piccolo Luis vennero impartiti in un’atmosfera cupa per rigida disciplina e soprusi corporali. Buñuel non ha lasciato testimonianza di violenze personalmente subite in collegio, ma solo di quelle a cui assistette, in particolare le durissime punizioni e persino gli abusi sessuali perpetrati ai danni di compagni di corso da parte di alcuni “prefetti” e persino di un padre “spirituale”.
Circa la mia esperienza, qualche anno fa scrissi un racconto – “La collina dei Gesuiti” 1 – , il cui inizio mi sembra opportuno riproporre qui per contestualizzare il mio incontro con il regista di Viridiana.
Esistono parole che – percepite nella prima infanzia come puri insiemi di fonemi – ci sorprendono quando le vediamo scritte per la prima volta. Fu per me il caso di “Domodossola”, quando lessi il toponimo sul libro di geografia (“il papà è a Domodossola” significava che il papà non c’era, non che Domodossola esistesse). O di Aloisianum. “E’ su alla luisianum” significava che la nonna sarebbe tornata da messa e mi avrebbe preparato la colazione. Poi volle dire un campetto di calcio con uno studente gesuita che ci guardava giocare; quindi la “casetta” dove la domenica pomeriggio si proiettavano film di avventure. Per chi abitava nella zona Nord di Gallarate, dove le prime colline moreniche annunciano le prealpi, i gesuiti negli anni cinquanta, con la loro “casa” dominante dall’alto del terreno donato loro “dai Bassetti”, erano il punto di aggregazione.
In famiglia percepivo rispetto e stima nei loro confronti. Padre Busa era stato il padre spirituale di mia zia, divenuta poi suora carmelitana nel convento di via Marcantonio Colonna a Milano. E si sussurrava di strane cose geniali che facesse in un seminterrato con un’enorme calcolatrice. Allora si chiamavano così i prototipi di computer: alle concordanze lessicali in Dante – seppi poi – si dedicò per anni. Lo appresi dal professor Lazzati, rettore della Cattolica, che era stato un compagno di Lager di mio padre, prima a Moosburg poi a Meppen, dal 43 al 45.
Crebbi, e si chiamava padre Vidoz il gesuita sottile dall’ampia veste che in bicicletta scendeva a portare la comunione a mia nonna ormai immobilizzata. Ma intanto, dallo studio della storia, apprendevo anche mixed feelings se non disrespect nei loro confronti. Espulsi dalla Francia nel 1594, dall’Inghilterra nel 1604, da Venezia nel 1606. E ancora dalla Spagna nel 1767 e da Napoli nel 1768, e infine soppressi come ordine da papa Clemente XIV nel 1773. Provai a chiederne conto e ragione a padre F, il gesuita giovane che con noi ragazzi, nella “casetta” ormai piena di ciclostili, parlava di tutto ma proprio di tutto… Era il “sessantotto” e padre F che poi avrebbe “lasciato”, si sarebbe sposato, mi rispose che le vie del Signore – anche nell’errore – sono proprio infinite. Ma non volle specificare se nell’errore fosse incorsa la Compagnia o sua santità. Anche perché la situazione stava precipitando: molti studenti non rientravano dalle vacanze. L’altoatesino K, dell’ultimo anno, prima di lasciare per un coming out nel F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) mi regalò un calice in argento, che ancora conservo.
Io compii vent’anni proprio nel Sessantotto e commisi il fatale errore di ritenere che la vita adulta coincidesse con quanto accadeva fuori e nel FUORI. Impiegai anni poi a comprendere che mi era capitato di diventare adulto in un ben particolare momento di snodo nella storia del mondo occidentale. E della Compagnia di Gesù.
Ma gli anni accademici si svolgevano lo stesso, e nel 69-70 seguii come uditore il corso di marxismo che era impartito agli studenti restanti da Mario Spinella. Le lezioni di Spinella da una parte e le prove ontologiche dell’esistenza di Dio dall’altra (che per tanti anni mi erano state propinate con un insegnamento fortemente basato sulle vite esemplari e le citazioni) evidentemente congiurarono tra loro, producendo l’effetto di trasformarmi in un convinto sostenitore della rule of law e dell’impianto filosofico che da Duns Scoto e Ockham, attraverso Ruggero Bacone prima e Francesco Bacone poi, giunge a Locke, Bentham, Hume e al secondo Mill, quello del Saggio sulla Libertà: “Il solo scopo per cui si possa legittimamente esercitare un potere su qualche membro della comunità civilizzata contro la sua volontà è quello di impedirgli di nuocere agli altri. Su se stesso, sul suo corpo e la sua mente l’individuo è sovrano”. Un esito che ho ritrovato anche nella biografia buñuelliana.
Lo studio della cultura inglese, intanto, mi aveva insegnato che i gesuiti nella loro storia erano stati tentati anche dal terrorismo: il 5 novembre 1605 a Londra il loro attentato contro il Parlamento nel giorno inaugurale della legislatura era stato sventato in extremis, salvando la vita a King James I, ministri e parlamentari. Fra i cospiratori c’era niente meno che il Padre Provinciale, Henry Garnett. E ancora oggi la data viene ricordata (“Remember, remember the 5th of November”) come la notte di Guy Fawkes, col nome di colui che venne colto in flagrante nelle cantine mentre stava per appiccare il fuoco ai barili di polvere.
Credo che Buñuel avesse presente tutto questo quando scrisse la sceneggiatura della Via Lattea. Nel 1968. Vi pare casuale questa data?
Se A.M.D.G. 2 era costretto a scrivere su ciascun foglio di protocollo il piccolo Luis nel severo collegio gesuitico spagnolo in cui era recluso, lì a Gallarate altre sigle io sentivo ormai pronunciare il sabato pomeriggio negli inverni del 70 e del 71 seguendo i corsi di teoria cinematografica.
Non credo di dovere aggiungere molto altro per giustificare il perdurare della mia scelta, almeno per quanto attiene certi modi e certi odori, certi sguardi e certi corridoi, le ombre di cappelle e confessionali, i riti, i metodi. Già, i metodi. E non mi riferisco ai metodi disciplinari perché io non fui mai allievo interno, ma ai metodi di insegnamento e di studio, ai modi di apprendimento, che una volta acquisiti diventano patrimonio inalienabile del soggetto “colpito”… o beneficiato? Nel mio caso propendo assolutamente per il secondo termine, perché il rigore coniugato alla determinazione rimane ancora oggi per me l’unico atteggiamento possibile di fronte a qualsiasi istanza intellettuale.
Credo di poter affermare che fu così anche per Luis Buñuel, perché a tutto si può sfuggire fuor che al proprio imprinting.
Non vorrei però si pensasse ad eccessiva gravitas o perdurante cupezza. Al contrario: una infanzia e una adolescenza severe, infelici e compresse possono – per contro – produrre giovinezze e età mature in cui ha molto spazio anche la levitas. Non è una contraddizione. E’ il frutto dell’ebrezza per l’acquisita bruciante libertà. Inebriante nel suo cammino, fino a diventare fantasmatica. I miei vent’anni londinesi – per esempio – furono veramente “il fantasma della libertà”. Gioiosamente scatenati anche in virtù del periodo storico in cui mi accadde di viverli. Chi è stato libero sempre – e sempre è stato compreso, difeso, protetto – difficilmente può assaporare appieno il fantasma della libertà. Da qui l’apparente giocosità di certi componimenti che appaiono nei miei libri giovanili. In particolare nella prima raccolta, Nell’acqua degli occhi 3. Dove, per esempio, nella poesia “Ganimede”, configurai il mitologico personaggio in un autostoppista (forse qualcuno ricorda quanto fosse in voga l’autostop negli anni sessanta e settanta del secolo scorso): Ganimede ha raggiunto l’Olimpo, ma già pensa a come potersene allontanare. Mollemente abbandonato su un divano guarda le Erinni, le conta e le riconta, si annoia: “… Metteva nell’abbandono / Il lato vile / Di autostoppista servile / Appena raccolto / E rideva tenuto / Pensando che infine / Mercurio / Contava quel tanto / Che basta per dire / “Son io” per entrare”.
Surrealismo? Certamente, si parva licet. E questo è proprio il tratto che più connota il primo Buñuel, ebbro degli incontri parigini con Bréton e Picasso, delle acquisite amicizie con Ortega e Alberti, Lorca e Dalì. Tra tante testimonianze mi piace citare quella di una attrice, dalla quale – visti i ruoli che il regista le chiese di interpretare – ci si potrebbero aspettare parole di introspettiva cupezza e distruttivo pessimismo. Scrive dunque la protagonista di Belle de Jour nel suo articolo “Lavorando con Buñuel”: “L’ottica di Buñuel, anche quando firma una storia sgradevole, resta quella dello humour nero. Buñuel è volentieri canzonatorio, malizioso e ama ridere. Grazie a lui ci si divertiva molto sul set ed era evidente che attraverso il personaggio di Don Lope, magistralmente interpretato da Fernando Rey, costruiva una sintesi dei suoi personaggi maschili”. E anche Truffault – nella sua famosa Presentazione di Buñuel al Ciné-Club de la Victorine nel 1971 – afferma: “Ritengo che Buñuel, quando inventa un personaggio maturo, non un giovane, si diverta ad attribuirgli le idee che giudica le più stupide, controbilanciate da pensieri veri profondi e coerenti, i suoi proprio pensieri. E’ questo che produce il paradosso, una fusione di notazioni critiche e notazioni autobiografiche”.
Che cosa accade – invece – con i personaggi giovani? Nazarino, Viridiana, Simon del deserto, Tristana sono tutti degli ingenui illusi, dei destinati alla derisione, alla sofferenza, al fallimento. Sono destinati a crescere. A diventare essi stessi dei fantasmi, come i personaggi interpretati da Fernando Rey. Sedotti dal fascino discreto della borghesia, del perbenismo, della ritualità religiosa.
A distanza di più di trent’anni da quando Buñuel girò i suoi ultimi film, non possiamo non constatare come il binomio “borghesia-pratica religiosa” appaia ormai alquanto sfocato: funzionava bene nella Spagna tardo franchista; forse ancora nell’Italia democristiana. Oggi che i nostri atei devoti si fanno scudo della teoria dell’Intelligent Design per continuare a non riconoscere quelle due o tre cose essenziali tanto chiaramente indicate da Buñuel, quel binomio ci fa quasi tenerezza.
Quando nel 1987 scrissi Suora carmelitana, Buñuel era morto da appena tre anni. Le sue storie di abiure e di eresie, di anatemi e scomuniche erano nitide nella mia memoria. Nel 1981 inoltre avevo trascorso l’estate tra Burgos e Avila, Madrid e Salamanca. La sua Via lattea – con quel cammino fantastico verso Santjago de Campostela attraverso violenze culturali e farneticazioni – era presente nelle mie speculazioni intellettuali e persino nei miei sogni. Al punto che nei Tre desideri, il libro di poesia che Giovanni Raboni mi pubblicò nel 1984 a Genova, da San Marco dei Giustiniani, appaiono alcune poesie fortemente intrise di quelle atmosfere, come “Giovanni di El Greco consente” – ispirato dai Dodici Apostoli nella sagrestia della cattedrale di Toledo – e “Grandine ad Avila”, ispirato dalla presenza di Santa Teresa adolescente nel coro della cattedrale di Avila.
Se mi aveste invitato l’anno scorso, quando il vostro ciclo prevedeva la scelta di un pittore, sarei stato incerto tra Caravaggio e El Greco, per l’appunto. Credo che questa ammissione vi permetta di cogliere l’intonazione più profonda del mio gusto.
Ma vi leggo in sequenza i due frammenti spagnoli e il poemetto sulla Suora.

Giovanni di El Greco consente

Verde del milleseicento
Acido per dodici uomini.
Sfugge a cercarlo sfugge
Muove le labbra
Acido ancora per pochi
Grigio nero e grigio di luce
Per l’empio
Contrae
Pupilla azzurro dissolve
Acido solo.

Grandine ad Avila

Grandina ad Avila
Ed è tuono
Profondo di montagna
Un suono concepito per la veglia.
Grandina nel patio nobile
All’interno del colore
Azzurro
Che non fu dei suoi occhi
Ma del vento.
Grandina e non la vedi
Neanche in cattedrale,
Stava da quattro secoli
Al suo tempo
Tra le mura vive.

Suora carmelitana

Il convento di Via Marcantonio Colonna
È del trenta. E mia zia
Che aveva lavorato nella ditta
E quando è entrata la guerra era finita
È lì dal quarantasei.

Da allora è uscita tre volte per votare
(Divorzio, aborto e quarantotto)
E due per andare in ospedale.
Per votare ci vuole la dispensa
E anche per l’ospedale.

La regola prevede per tre anni il noviziato,
Poi con i voti la clausura.
Sono quasi tutte laureate
Le nuove suore entrate in questi anni.

Le suore sono in tutto una ventina,
Ventiquattro per la precisione erano prima
Della fondazione di un Carmelo nuovo.
Alcune sono state trasferite
E a Milano ora sono in diciassette
Le più vecchie.

Mi ricordo il convento da bambino,
La zia si presentava con il velo
Dietro le grate:
Due, come la regola prescrive,
A un palmo di distanza tra di loro.
Ma il mio braccio ugualmente le giungeva
Vicino, fino a undici anni è passata la manina.

Ho pensato poi alla mano nella grata
Alla prima foto di fist-fucking.

Del parlatorio la ruota mi piaceva da morire
E oggi attira Stefano ugualmente.
Dall’apertura poteva fuoruscire
Il mio regalo
O anche niente.
Ma era bello così farla girare,
Per l’odore dentro.

Il Convento di via Marcantonio Colonna
È un convento moderno
Non ha i muri spessi sostiene mia zia
Non c’è umidità.
Hanno al massimo quattordici gradi d’inverno
E più di trenta quasi tutta estate.

Da studente le chiedevo se sapeva
Chi era Marcantonio Colonna.
Lei preferiva parlare d’altri papi
E qualche volta solo di dottrina.

Quando ero militare mi diceva che capiva.
Gli orari ben scanditi e quella forma
Di disciplina. Il padre provinciale e il cardinale
Ai superiori si doveva dare
Obbedienza continua.

Ormai che la sua faccia è più vecchia
Di santa Teresa nel quadro
Appeso in parlatorio
Più di me non le mento, sto a sentire.

Di fronte al grande crocifisso
E alla zia che spiegava la passione
I chiodi degli uomini romani,
Stefano ha fissato a lungo quelle forme
Toccandogli gli mani:
“Così sta su”.

Parlando della zia dice che è stato
Da una suora americana.

In conclusione, una conclusione che vale certamente per me, ma credo anche per don Luis, dovunque ora egli si trovi: in quale girone, potrebbe sussurrare qualche nostalgico…
Buñuel, come me, come credo molti di voi, era stato educato da persone che credevano che la Terra fosse al centro dell’Universo, che la Chiesa fosse al centro della Terra, che l’Uomo fosse al centro delle creature.
Come entrare decentemente nella modernità? Nascondendo la testa sotto la sabbia? Cercando antistoricamente e ascientificamente di continuare ad assecondare “i noster tradisiun”?
Con Buñuel sento il dovere morale di proporre una cultura basata sul rispetto della ragione e della natura, intesa come la physis dei greci, l’essenza da cui tutto si genera e a cui tutto ritorna; sullo studio armonico delle scienze – dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, della biologia e dell’astrofisica – e soprattutto sul metodo della scienza: della prova e della verifica. Un’educazione in cui, fin dall’inizio, si concepisca la vita con la morte, in inscindibile unità. Un’educazione alla natura e al relativo: quella che Keats definisce la negative capability: l’educazione al dubbio e alla mancanza di assoluti. Nella convinzione che l’uomo possa essere seriamente educato, non solo manipolato.
Altrimenti continuerà a lievitare fino a fagocitarci questo mostro di banalità, volgarità e ingiunzioni dogmatiche, che Buñuel da par suo – e più di mezzo secolo fa – già stigmatizza e condanna.
E’ quanto cerco buñuellianamente di affermare anche nel mio nuovo libro – Roma – in uscita in novembre da Guanda. Un libro in cui mi provo a leggere – come in una piccola Via lattea – la città eterna e la sua storia in modo sincronico e diacronico assieme:

Com’era il mondo dove sbarcò Enea?

Com’era il mondo dove sbarcò Enea
Al di sotto del piano di campagna?
Rimosso lo strato di cenere compatta
Appaiono ambienti d’epoca ellenistica
Già nel 79 dopo Cristo abbandonati
Per precedenti terremoti e inondazioni…
Erano tante Rome disperse nei villaggi,
Varrone già lo scrive col tono del racconto:
Mons Capitolinus era chiamato un tempo
Il colle di Saturno, e cita Ennio
Come in una favola, sul colle
Saturnia era detta la città…
E presso Porta Mugonia al Palatino
Dalla casa dei Tarquini
Nel passaggio sotterraneo che conduce
Al santuario di Vesta
Scava ancora l’équipe per dimostrare
Come vuole il professore
Il legame tra i poteri:
Solo al re un diretto accesso era permesso
Al sacro fuoco.
Roma, Roma che ci scherzi ancora.

Ma non posso concludere questa mia conversazione a Bergamo parlando di Roma. Anche perché nei Tre desideri c’è una poesia intitolata “Bergamo”. Negli anni ottanta insegnavo la letteratura inglese nell’allora Istituto Universitario di via Salvecchio. Una mattina, mentre oltrepassavo i leoni di Porta S. Alessandro, pensando al rapporto di Bergamo col mare, con la Serenissima, rimasi molto colpito dall’inizio di una nevicata. Le raffiche bianche giungevano da San Vigilio conferendo un senso di irrealtà a Città Alta. Mutavano le proporzioni delle torri, delle mura, degli alberi. Poi giunse un enorme corvo… a proposito di surrealismo.
E con la lettura di questi versi, vi saluto e vi ringrazio.

Bergamo

Quando la terra si imbiancò di neve
E le stelle si spensero nel pallido azzurro dell’aria
Un corvo si portò Città Alta nel becco
Per salvarla dal sussurro dei rumori in basso.
Gli sarebbe restata soave,
Via dai rottami in deriva
Come un’onda al largo a ritrovare
Più profonde mura
Verso il mare.

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NOTE
  1. Oggi edito in volume: Reperto 74 e altri racconti, Zona editore 2008.
  2. Acronimo per Ad majorem gloriam Dei.
  3. Guanda 1979, V Quaderno Collettivo curato da Giovanni Raboni, redattore Maurizio Cucchi.

17 Commenti

  1. ho in casa uno speciale altarino dedicato a Buñuel, dunque apprezzo assai. In particolare la via lattea è uno dei miei film preferiti, straordinario impasto di delirio e dibattito sulle migliori eresie. Grazie di questo tuo così personale scavo.

  2. Che bel testo. Anch’io sono stato (e sono?) un bunueliano de hierro, ho visto 31 film dei suoi 32 e i suoi Sospiri estremi sono, per restare al tuo testo, di una levità bellissima.

  3. Buñuel o della giovinezza di ognuno di noi. Franco mi permetta un ricordo dei miei vent’anni, non proprio coincidenti con la sua londra del ’68, ma con la milano fine anni Ottanta: io, Jan Reister e qualche altro cane sciolto dei giri punk avevamo fatto di Buñuel il nostro “maitre à voir et à imaginer”, e condensavamo in un potente pastone la musica e le performances dei Throbbing gristle, le serate alla cineteca Obraz (“ginocchi in bocca”) e l’improbabile accopiata Céline- Burroughs.

    Grande pezzo Franco. In Italia, è abbastanza raro oggi vedere una solida e corente personalità intellettuale come quella di Buffoni, che è a mio parere basata su un forte nesso tra esperienza umana e strumentazione culturale. Molto spesso, nel mondo intellettuale – leit-motiv di Musil – queste due realtà convivono senza una reale compenetrazione. La vita è maestra di nulla, e la cultura non sfiora la vita. Questo produce anche quell’eclettismo intellettuale tanto tipico del nostro paese, in quanto non essendo la vita pietra di paragone di niente, si misura l’adesione a delle idee a partire da criteri “estetici”, di opportunità culturale, di aggiornamento con le mode e le correnti. Vi è invece sempre un sapore d’inattualità in Buffoni, ma è un segno di maggiore radicamento delle idee, di una loro minore volatilità.

  4. Sai che non ricordo il mancante? E’ uno di quei due/tre film “alimentari” (come lui stesso disse) fatti a Città del Messico, che vidi per bunuelofagia ma di cui non rimase traccia. Insomma, sono destinato a restar con questa “casella vuota” ad aeternum…

  5. uno degli aspetti ‘anticlericali’ della poetica di Buñuel, si deve al fatto che da piccolo visse in un paese (della regione di Aragón) in cui la presenza oppressiva della chiesa e soprattutto dei suoi funzionari era per lui insopportabile. c’è purtroppo da dire che molte idee ‘geniali’ vendute come proprie sono poi risultate nate da teste altrui quali Dalí o Pepín Bello, ideatore dell’immagine nel “perro andaluz” delle formiche sul palmo della mano, per esempio, o dell’asino -da molti letto come una critica juanramoniana del “Platero y yo”, poi svelatasi errata; o di altre molte immagini de “l’età d’oro” che sono di Dalí.
    e cosa curiosa (forse), Buñuel in una intervista diceva che odiava il Messico.

    un abbraccio

  6. Condivido pienamente il commento di Andrea Inglese.

    Il testo di Franco Buffoni rievocca les apprentissages della vita intelletuale non di manera fredda, ma con una sensibilità tratenutta.
    Dietro il paragone di un’educazione reliogiosa, si intarvede qualcosa dell’inferno: i corpi violentati, stretti – lo spirito prigioniero, il linguaggio
    chiuso.

    Franco Buffoni sa del dolore della giovinezza, del primo desiderio di libertà e di piacere. L’infanzia la più reclusa cerca uno spazio e nuota
    sempre verso l’acqua, una certa gioia di provare il corpo senza lividi.

    Evocando il suo amore per il cinema di Bunuel, Franco Buffoni parla di un ‘esperienza che parla a nostri cuori: la possibilità attraverso l’arte di comprendere meglio il mistero dell’inferno umano.

  7. Dei miei sospiri estremi è la sua autobiografia, edita da SE nel 1991, ma non è un film, vero Marco? Perché manca come film sul mio altarino.

  8. grazie andrea, mi commuove quello che scrivi perché era il mio obiettivo nella vita. e tu quasi riesci a farmi credere di avercela fatta.
    sparz: credo si tratti di Gran Casino e El Gran Calavera, girati in Messico nel 46. oppure, marco, i due mai distribuiti in Italia: Il grande teschio del 49 e La figlia dell’inganno del 51.
    grazie a giovanni e véronique!
    alessandro: come ebbe a dire Picasso, un vero artista non copia: ruba.

  9. sì Gianfranco, però Buñuel ebbe a dire che era roba sua!
    come sai alcuni anni fa, ad esempio per quanto riguarda “la edad de oro”, si scopirorono tutti i disegni di Dalí, che erano in pratica ‘tutte le immagini surrealiste’ della pellicola, (non a caso Gala non sopportava molto il Nostro), e il Nostro ne aveva difeso sempre l’autoria.
    mah, gli artisti!
    /bel pezzo, sentito e vissuto/

    un abbraccio

  10. El gran calavera (il grande teschio) lo vidi in un cineclub a Roma. Gran casino (inguardabile…) ricordo che lo diedero di notte sull’allora Telemontecarlo. Potrebbe essere La figlia dell’inganno, sì…

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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