La chiesa di Baranzate


di Davide Vargas

Il paesaggio scorre grigio. E’ un colore bellissimo. Non spegne ma fa pensare ad una mano che ha scarnificato le cose lasciando fremere silenziosa l’unica vita nascosta. Come un’opera di Michelangelo sottratta al peso del marmo. La distesa della campagna si offre fin dove la nebbia sfuma gli alberi allungati ritorti divaricati in filamenti di ombre. Riconosci olmi, ontani, platani, pioppi, è la pianura padana. Li ricopre una pasta bianca. Dici bianco perché così fa la mente che semplifica, ma è un altro tono grigio, più schiarito, venato di un azzurro chiuso. Occorre inventare un nome ed estenderlo a tutta l’aria. Una pasta uniforme che cela i nodi. E non è neve. Galaverna, un manto di aghi ghiacciati protettivo, tiene lontani gli insetti, concede una pausa ai vortici delle linfe, un breve sonno, poi diventerà nebbia o si scioglierà da brina.
Risalgono ricordi di un vecchio libro per bambini, sulle pagine cartonate disegni e parole narravano di un uccello capace di mimetizzarsi tra le forme e i colori dei rami e della neve. Smascherarlo era il gioco e appassionava quanto una escursione reale. Mimetizzarsi mi appare un’aspirazione, o una soluzione, diventare tutt’uno, entrare nella trama, respirare con le cortecce. Svuotarsi di sé.
Il grigio sfuma in un violetto pallido sotto il riverbero di sottili striature bianche che subito svaniscono. Qualcosa che si richiude.
Viaggio in una massa soffice. E così affiorano i cortili della mia terra dove le mamme e le nonne vestite di nero cardavano la lana e la distendevano su bianchi lenzuoli posati sul battuto del pavimento, ed era soffice. Accostamenti strani, agli opposti, ma così si muovono i miei pensieri, cercano pretesti per srotolarsi come in volo, senza freni. E regole. Traslocano da luoghi e tempi. Mi piace quando si fanno seguire e non fanno male. E’ questo il viaggio.
Baranzate è l’approdo giusto, è periferia rannicchiata e non mente. Come un volto non più giovane. Non si ha l’impressione di un paesetto, ma una strada con case di qua e di là, un cordone continuo fino al centro di Milano pochi chilometri indietro, qualche penetrazione, stradine, semafori, automobili, case popolari in mattoni che ancora raccontano di una cura smarrita. Un cartello indica la chiesa di vetro. Poi si perde, infine si ritrova.
Eccola. In una giornata fredda mi piace. E’ una questione di congruenza. Parla.
Intorno parcheggi, case, supermercati, gente che passa imbacuccata e veloce, il solito accerchiamento. Il recinto è un muro di cemento e ciottoli, la chiesa è sollevata e sembra poggiare sulla sua sommità.
Varcarlo dà l’impressione di lasciare fuori la guerriglia e di penetrare in un recinto sacro. Si gira intorno, la croce, la vasca d’acqua, il prato, le superfici dilavate dei pannelli, scrostate, macchiate, le teste delle travi in cima come le metope del tempio, la linea mossa del profilo, le sagome dei palazzi che negli anni si sono avvicinati, duri. Hanno spazzato via i covoni di fieno delle prime fotografie. Il campanile. Che cosa è? un traliccio, una torre di servizio, un osservatorio, una garitta. E’ una gabbia spoglia, attraversata da una scala elicoidale bianca fino alla piattaforma con le campane. Non svetta, non domina, non lancia proclami, tra i rami spogli e sottili dei pioppi cipressini è semplicemente uno di loro. Naturale, come i viali di bagolari nella città, le nebbie e le risaie, triangolazioni sul territorio, frasi che si intersecano.
Nella chiesa.
Un crocifisso sospeso. Povere sedie. I vetri intorno sono lastre di ghiaccio. Un che di immobile come l’aria della giornata. Vuota, fredda, lirica. E’ lo stesso paesaggio di fuori. E sono avvolto dal sacro.
Sono i materiali di una fabbrica, pilastri, travi e solai prefabbricati, pannelli di vetro resi traslucidi da un foglio di polistirolo, onice in una giornata di sole, pellicola opaca in una giornata chiusa, una membrana che mai ti disarma, pavimenti di cemento battuto. Materiali bruti, usati mille volte, miracolosamente rinnovati. Come dice Hikmet, il rinnovamento è il non ripetersi del ripetersi. E’ come sempre. Le cose in sé non sono né nobili né povere, e non sono né nuove né vecchie, non sono nulla, forse non esistono neanche, è l’uso che se ne fa, la declinazione, l’assemblaggio, la metrica diciamo, che crea il valore della realtà. Le “petroliere” in una poesia di Montale.
Ha la mia età questa chiesa, progettata e costruita da Mangiarotti, Morassutti e Favini dal ’56 al ’58. Nella mia terra c’è una fabbrica di Mangiarotti che ha subito le offese del tempo e degli uomini, frantumata, divelta, avvelenata, carcassa tenacemente in piedi in una piana grassa tra un boschetto di pioppi dritti come pertiche e campi di broccoli gialli.
C’è un filo che sempre mi riporta indietro al punto di partenza, come un’eterna odissea. Una condanna. O il destino scritto: perché corri lontano? per ritornare.
Qui restano sul sottofondo le parole dell’architettura che raccontano di anni eroici in cui la volontà di interrompere le tradizioni, di sperimentare nuovi materiali, di credere nella tecnica, di costruire modelli esemplari e ripetibili, di sentirsi artefici sociali era il fuoco del fare e del sognare.
Qui, al centro di questa aula di vetro, i pilastri ruvidi, quattro visibili onesti, il soffitto attraversato dalle nervature del cemento ti raccontano, la voce bisbigliata, che la tensione eterna delle forze, immensa, titanica, è solo un lavoro. Minuzioso, da fabbrica. Si fa e basta.
Avanzi i passi lenti sul cemento screpolato, un lieve scalpiccio come un ritmo, mentre la vista si appoggia alla fonte battesimale, un fungo di pietra, monolite primitivo. Qui al centro di una “misura”, non pensi ma senti.
E’ questa l’architettura, tace se stessa e offre all’uomo una possibilità. E senti che ti puoi fidare delle pareti. Esci allo scoperto con le tue forze, c’è una bolla d’aria tra te e, vuoi dirlo, Dio.
Fai il tuo lavoro.

Baranzate, gennaio 2010

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42 Commenti

  1. bellissimo

    un’ode leggera piena di ricordi comuni

    un canto di affetti

    – per i paesi terminanti con lo sgraziato largolombardo –ate

    – per l’uomo misura delle cose

    l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono

    [ e un respiro fra il twitterismo imperante ]

    poi la galaverna

    G R A Z I E

    ,\\’

  2. un eccesso di enfasi veramente gratuito, per un edificio che richiederebbe letture meno fomentate.
    mai stato lì, però se c’è solo “una bolla d’aria tra te e dio” ci vado subito.
    volevo dirlo.

  3. ,,, mia impressione (linda linda) è che la foto non rende giustizia al racconto: la foto, per me, è inguardabile: lì non cogli spiritualità nemmeno se ci porti un santo in carne e ossa.

    mentre il racconto (dove il grizio è tante altre cose) è altra cosa.

    mio parere, ovviamente

  4. Sempre preciso, attento, simmetrico nell’ “architettura” delle sensazioni, che qui procedono per accumulazioni e non per affastellamenti; accumulazioni che costituiscono la trama sottile della costruzione interiore del “riflesso del mondo esterno” che informa la scrittura di Davide Vargas: esattamente il suo stile, elegante e non gridato; quel tanto d’ enfasi invece (ma enfasi, e mi sbaglierò, è parola un po’ fuorviante, forse, per chi non lo conosce, perciò insisto su “accumulazione”) è la cifra del suo stile.
    Mi piace la “memoria fotografica”, i click interiori che richiamano i paesaggi dei propri luoghi (anch’essi di “bassa”) per analogia confrontati con questi della bassa di Baranzate.
    E poi, sì, “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”; il richiamo a Protagora mi pare proprio appropriato, quanto al metodo che informa la scrittura di Vargas.

  5. conosco molto bene quel progetto, peraltro assai noto.
    non è l’edificio che non mi piace – anche se non mi fa impazzire – è la scrittura per dirlo.
    voglio dire che è proprio la scrittura di vargas che non mi piace.

  6. Eccoti qua. Ancora uno schiaffo, un altro graffio profondo sulla mia anima sottile e infantile. Come sempre, da un po’, anticipi le cose che sento, vedo, ascolto, percepisco. E che non trasmetto ad alcuno, se non al corpo egoistico di me stesso, attraverso scontate reazioni chimiche, non ancora indagate perfettamente dalla scienza. La terra della mia terra e quella, forse algida, della chiesa di Mangiarotti. Lo scavo nella architettura della gioia e della passione entusiasta. Il dialogo del dentro_fuori, in simbiosi assoluta. Il rigore del mestiere, supportato dalla saggezza dell’esperienza. Tutto ciò, ed altro ancora, poni qui con delicata e cavalleresca spavalderia, sul tavolo della scrittura, come un trofeo che tormenta l’apatia del nostro tempo senza scelte. E, infine, il colpo di grazia, che di grazia nulla possiede. La consapevolezza di non saper fare architettura così bene come tu sai fare con la scrittura. Leggendo ripercorrevo sensazioni caotiche, immerse nella nebbia, e tentavo di capire se fosse riproducibile quel processo fluido della tua scrittura, nel fare la mia architettura. Volevo rubarne il metodo, l’intensità, il desiderio, la forza, la griglia poetica. Vano tentativo. E per tutto questo, vorrei non averti mai letto. Ma continuo a leggerti. Con affetto, Raffaele (amico di te).

  7. Ci sono cresciuta lì a Baranzate, e ci ho fatto comunione e cresima nella Chiesa di Vetro.. quando ci entravo da bambina mi sembrava di galleggiare in un acquario, mi immaginavo che i pannelli di polistirolo continuassero a sciogliersi, sapevo che erano così per colpa di un incendio ma a me sembravano di ghiaccio.. un ghiaccio che con la chiesa gremita continuava a sciogliersi.. una sorta di iceberg pregante e galleggiante in mezzo alla Baranzate Bene, perchè io abitavo nel palazzone orrendo 12 piani..
    e c’era troppo bianco nella chiesa per riuscire a concentrarsi a messa, e la voglia di guardare fuori dalla finestra era di più di quella che avevo di ascoltare la predica.. Ma non si vede niente da dentro.. Ma quanto l’ho guardata e riguardata in tutti i dettagli… Non mi intendo di architettura, è che vedere queste foto e leggere, mi ha fatto tornare alcune sensazioni e ricordi..

  8. Questi archietetti un po’ m’inquietano, si proclamano tutti artisti, ce ne fosse uno che si dica architetto.

  9. Nessuno, gentile Ares, credo abbia scritto di arte o similari, vagheggiando nell’etere. Il pensiero tendeva proprio al contrario di quello che hai percepito.
    (Se quello che hai scritto si riferiva a me, naturalmente. Altrimenti, come non detto_scritto…) Saluti.

  10. Questi artisti dalla letteratura un po’ m’inquietano, si proclamano tutti architetti, ce ne fosse uno che si dica artista. ^_-

  11. Pensandoci bene, se i carabinieri ti fermano per strada e leggono sulla carta d’identità “artista” o peggio “scrittore”, ti portano subito in questura per un controllino; sulla carta d’identità è bene srivere architetto, è più rassicurante.

  12. @Cutillo si, mi riferivo a lei, ma non faccia caso ai miei commenti, talvolta non riesco a controllarli ed escono dasoli, sgrammaticati e inconcludenti; farei bene a conservali sottovuoto..

    .. che nessuno pensi al mio cervello!! è_é

  13. la buona scrittura ci aiuta a vedere oltre quello che l’architettura si sforza di fare , il racconto trasforma la realtà,forse la migliora ,aggiunge emozioni ci trasporta oltre…. avrei preferito il testo senza l’immagine….
    al di là dei commenti riportati e non tenendo conto di Artisti ed Architetti bisogna sempre dire GRAZIE ad un uomo che ha il coraggio di scrivere con queste parole

  14. E’, ormai, solo una conferma!
    Labili i confini tra prosa e poesia, e per questo coinvolgenti.
    Grande coerenza, stesso fascino: nell'”architettura” del tuo “sentire le cose”, fatta con pietre di parole semplici, e nell’architettura tua, fatta con l’uso accorto di pietre semplici.
    E poi, tra noi, sì, come sempre: velata sofferenza per la nostra terra incapace di “sentire” per “agire” – forse, a dirla con Raymond Aron, essa “pur facendo la storia non sa quale storia sta facendo”.

  15. errata corrige: ………nell'”architettura” del raccontare il tuo “sentire le cose”…. (mancava raccontare).

  16. @GP 08

    “.. GRAZIE ad un uomo che ha il coraggio di scrivere con queste parole..”

    in che senso scusa.. se un uomo sa usare queste parole che coraggio deve avere ?

  17. …ehm… “ringraziare sempre” non mi trova affatto d’accordo. io critico pure i santi, se mi capita.

    comunque
    se un coraggio c’è, in questo brano, è quello di aver tentato di stabilire un rapporto tra il “grigio” dell’ambiente, esterno alla chiesa, e a “grigio” della chiesa stessa.

    lo chiamo coraggio perché un lettore che non conosce i luoghi (io, per esempio) non riesce proprio a coglierlo questo rapporto (la foto è una cosa, l’esposizone dei luoghi è altra cosa). mi si può dire allora che se non conoscevo i luoghi non dovevo commentare, ma io non sono stato mai a Pietroburgo, eppure credo di aver respirato l’atmosfera descritta in “delitto e castigo”

    quindi il mio commento di prima era, fondamentalmente, una critica.

  18. .. hem .. ma io non ho capito se la tua è una “critica” (negativa suppongo?) alla foto o al pezzo di Vargas o al post di Biondillo, che è altra cosa ancora.

  19. …critica… be’ chiamiamola critica (nel mio piccolo critico), non però al racconto (che comunque si destreggia direi bene) e nemmeno alla foto (avrà il suo fascino, penso): ma al rapporto, all’atsmofera, che in entrambi non ho colto ( o non ho saputo cogliere). Il racconto, mi pare, percorra altri lidi rispetto alla foto.
    quel polistirolo mi pare una cosa forte, ma mi lascia perplesso.
    sòb

  20. Biondillo ha “ciccato” il raporto foto-testo ?

    .. e vabbè dai puo’ capitare.. comunque è una questione di gusto..

    ..a me piace ad esempio; poi non so se hai notato: le due foto sono diverse, l’indecisione estetica di Biondillo è, secondo me, la cosa che non ti fa piacere l’insieme del post; a mé comunque il testo di Vargas mi è talmente piaciuto che ho deciso di assolvere Biondillo, che comunque ha avuto l’idea di pubblicarlo ^__-

  21. …Ares, ti dico la mia impressione para para. a primo impatto, leggendo, mi è piaciuto il modo di esporre (l’architetto qui non vi entra per nessuna via: l'”osmosi spirituale”, cioé di quelle bolle d’aria che lo potrebbero in qualche modo rivelare il tecnico, non lo fa: c’è un linguagggio, per me, del narratore di razza), poi, guardando la foto (le foto, hai ragione) mi sono incavolato perché non ho trovato riscontro di ciò che avevo letto.

    quindi il mio è il disappunto di un lettore che si è trovato “spaesato”.

    prendendo a parte le foto (ora che le ho riguardate a parte, non considerando il testo) , mi sono reso conto che anche le foto hanno un loro fascino.

    diciamo che ogni arte ha bisogno di esprimersi da sé: mischiare le cose (testo e foto), è per me, un tentativo di fare arte.

  22. ok, il tentativo di fare arte di Biondillo.. ti ha spaesato..

    .. ma sai lui si dice architetto.. che vuoi che ne capisca di arte ;-P

  23. …ehm… sai ancora non ho capito bene come funziona Nazione Indiana, chi posta, chi è l’autore, chi non lo è… non sono di quelli che vanno a vedere in rete chi è l’autore: magari mi capita di avere a che fare con Eco, e gli dico che è scarso :-)

    quindi, debbo regolarmi in futuro, ora che ho trovato un sito dove posso imparare tante belle cose.

  24. hahahah, si le prime volte ho fatto anch’io confusione..

    .. comunque in fondo al post trovi la scritta “Questo articolo è stato scritto da..” e il nome dell’autore del “post”.. in questo caso Biondillo.

    Se all’interno del post è riportato un brano di altro autore, come in questo caso, l’autore del post scrive di chi è il brano “postato”, in questo caso Davide Vargas.

    Per qunto riguarda ECo, basta essere educato quando commenti, ed ogni critica sarà ben accetta, anche la più ingenua… credo..

    .. se ancora non mi hanno eliminato dev’essere così ^__-

  25. …giusto Ares, grazie… spierò ogni mossa.

    …però una critica a Eco ti fa figo, ammettiamolo :-) … eh eh

    una cosa linda linda
    devo dire grazie a NI perché non solo spendo di meno in libreria, qui c’è tolleranza e spesso saltano fuori di autori che non conoscevo. insomma seguo, imparo e porto a casa.

  26. Cari amici non credevo di suscitare tanta vivacità, comunque ne sono contento e mi viene di dire alcune cose. Andiamo con ordine: questione foto. La spiegazione é molto banale: il giorno che ero lì non avevo con me macchina fotografica però era così forte il “sentimento” che poi ho scritto. La foto in b/n é tratta da Casabella n°721 ed é una delle diverse foto che da sempre hanno documentato quest’opera. Anche io capivo che non era la stessa atmosfera descritta dalle parole ma mi é sembrato cmq un “documento”. La foto a colore é di gianni credo. Ma la questione é più ampia. Avrei potuto non mettere foto, é vero, ma io credo, a differenze di quanto ho letto, che “parlare più lingue” oggi sia necessario. L’ho detto e scritto più volte, e persino uno scrittore come Pamuk, che certo non ha bisogno di “aiuti”, ha sentito il bisogno di andare “oltre” il suo specifico e nelle strade di Istambul sta realizzando il suo “museo dell’innocenza”. Figurarsi per uno come me che ha scritto un solo libro e di mestiere fa l’architetto! Vi allego due link dove queste cose sono dette più ampiamente e mostrano anche come il mondo dell’architettura si sia interessato al mio lavoro di scrittura, confermando che un bisogno di contatto esiste:

    http://www.domusweb.it/upd_Architecture/article.cfm?idtipo=1&id=826

    http://www.domusweb.it/architecture/article.cfm?id=189957

    Infine, un grazie a tutti, anche a F.P. che non condivide la mia scrittura e questo per me é un’occasione di riflessione

  27. @Callettino ..Come spendi meno in libreria ?. ma possibile che sono solo io l’unico pirla che ultimamente spende più in libreria che altrove?

    ..mamma mia sti architetti spuntano come funghi.. ^__-

  28. …ehm… ti dirò Ares, a parte le cose che leggo qui (commenti comprersi), mi sono fatto un amico: ex libraio del corso Italia (c’è sempre un corso Italia in ogni città: ed è la nostra tragedia, perché c’è sempre un caos di macchine), che andando in pensione si è fatto una specie di deposito con libri di seconda e terza mano, libri antichi anche, e ogni tanto compro tre al prezzo di uno. insomma per farla corta, mi sono fatto il pieno di certi libri di mio interesse, spendendo relativamente poco: quindi metto in borsa e leggo anche piedi piedi, se capita.
    prima ero uno sprovveduto: compravo libri dell’ultima ora, che avrei tirato in testa agli autori, tanti osannati e che, però, a me, intrigavano poco.
    morale della favola (c’è sempre una favola), certi autori dell”800 sconosciuti (o poco noti solo me) mi intrigano di più, e spesso trovo l'”opera pia” dove non me lo aspetto.

    comunque conosco un sacco di architetti (più ingegneri, veramente), ehm… alcuni scrivono da far venire la sciatica al lombo sacrale, altri sono talentuosi, che manco mi vedono (e poi Gadda era ingegnere, tanto per citarne uno che conta). basta sniffargli i polpacci, e ti rendi conto con chi hai a che fare.
    però io… ehm… che sono un poveraccio di un geometra (e scrivo dall’altro ieri, e non so nemmeno io perché), mi dovrei sparare in testa sòb.

    vargas ti abbiamo letto con attenzione, personalmente preferisco un linguaggio che scava, che coglie sfumature, nel poetico.
    sono stanco di minimalisti e lessico asettico e striminzito, che sanno dire solo parolacce, o come è fatto un culo e ti raccontano la vita che già conosci a memoria. io amo la scrittura alla Calvino, mi piace il fantastico, annegare nella fantasia. come lettore sono scaduto, mi sa.

    be’ si fa quel che si può,
    saluti

  29. Saluti °_°

    !?!?.. sniffargli i polpacci ..

    [..]che sanno dire solo parolacce, o come è fatto un culo e ti raccontano la vita che già conosci a memoria.

    .. ma chi Fabio Volo ?

  30. …Volo? lo hai detto tu, io non mi permetterei mai.
    però se conosci qualcuno che parla bene della sua scrittura, sono qui pronto per vedere cosa dice.
    ho letto solo un libro di Volo: c’ho scritto sopra un commento, per ricordarmi di ciò che ho letto.
    è la mia mania di fare il lettore. non dico altro, sigh.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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