Due congetture su Jakob
di Domenico Pinto
La sagoma gigantesca di Jakob attraversa un binario poi l’altro, scema, intorbidisce mano a mano che si avvicina alla cabina di controllo. Sulle linee dei binari che conosce come la propria mano, in una stazione della Germania dell’Est, molto probabilmente Dresda, il ferroviere onnisciente viene travolto da una locomotiva mentre tenta di evitarne un’altra. L’ipotesi che Jakob abbia commesso un errore si può segnare col carbone bianco. Si è trattato perciò di suicidio, di assassinio, forse?
Sono trascorsi cinquant’anni dall’avvio della domanda, quando un giovane Uwe Johnson – sostenuto da Siegfried Unseld, di lì a poco alla guida di Suhrkamp – licenzia Congetture su Jakob, libro che insieme al Tamburo di latta di Grass e Biliardo alle nove e mezzo di Böll, usciti il medesimo anno, apriranno la strada alla nuova narrativa tedesca, nel mirabile 1959.
Il romanzo appare in italiano sul termine del 1961, nella traduzione sensibilissima, eseguita a rotta di collo da Enrico Filippini, il quale si era affrettato – dopo aver perso il manoscritto della prima stesura – a costruire una seconda versione chiamando in aiuto l’autore. Un lavoro che presentava difficoltà di resa inimmaginabili, e che sarebbe caduto in uno scenario solcato da grandi tensioni. Basti pensare a come Hermann Kesten malintende le idee di Johnson, durante il simposio milanese organizzato per il lancio delle Congetture, e come sulla «Welt» di Axel Springer lo accuserà di giustificare la costruzione del Muro, più ancora, di essere un prodotto della dittatura di Ulbricht. Johnson riesce a confutare queste recriminazioni soltanto grazie al sonoro originale delle parole da lui pronunciate, contenute nel nastro in possesso di Giangiacomo Feltrinelli.
Opera ‘noiosissima’ per Bobi Bazlen, «straordinariamente arida» per Alberto Arbasino, le Congetture sono da ritenere, al contrario, fra i romanzi maggiormente carichi di futuro del Novecento. La storia del dirigente di movimento Jakob Abs, la sua morte inspiegabile che riunisce, nel tentativo di darle un senso, le vite della ‘sorella’ Gesine (protagonista de I giorni e gli anni), dell’ebanista Cresspahl, del filologo Jonas Blach, dell’agente dei servizi Rohlfs (il funzionario dai mille nomi), ha per boccascena i fatti d’Ungheria del 1956 e una DDR che si presenta come laboratorio politico e, al contempo, luogo di contraddizioni incomponibili. Jakob finirà sotto lo sguardo dei potenti, intenzionati a usarlo per agganciare Gesine, fuggita all’Ovest, nella speranza di farne una loro informatrice.
Il racconto, che potrebbe essere quello di una tradizionale spy story (con tanto di piano «colomba sul tetto»), vira verso il giallo epistemologico in virtù della sua forma: il romanzo è incardinato su un principio di indeterminismo narrativo che trasforma i protagonisti nelle voci di un coro greco. Spesso non sappiamo chi sono i portatori di parola, e da quale margine temporale proviene il suono; è impossibile risalire il bel fiume della memoria, sostituito da una mappa ripiegata che il lettore è costretto a interpretare, talvolta rifare di pianta (Johnson non sarà mai un «mormorante evocatore del passato remoto»); scorci di discorso si aprono talmente inaspettati che ci ritroviamo ascoltatori casuali; nessun affresco, nessuna cornice, nelle inquadrature strette — come nel Bresson estremo del Lancillotto e Ginevra — entra il semicerchio di una scopa di saggina, il bagliore di un metallo, l’orlo della brughiera, l’aria di polvere dietro un mobile spostato.
Questo romanzo meravigliosamente complesso è scritto contro la linea retta («Non è vero che la linea più breve sia sempre la più diritta», notava Lessing), perché il non sequitur rende il testo inesauribile, perché agisce al fondo la lezione di Döblin: si possono conoscere solo «alcune superfici di realtà», non essendo il mondo sotto i nostri occhi che mera ipotesi, nebbia di fenomeni, congettura.
Bisognerebbe prendere in mano La sopraelevata berlinese, contenuta nel «Menabò 9» (1966), curato da Enzensberger, in cui Johnson riferisce delle «difficoltà che mi impedirono di descrivere una stazione di Berlino», per comprendere come questa prosa — all’apparenza fredda, ma straripante informazioni sulla vita, e tanto più nitida lì dove la vita sembra essere meno presente — abbia sempre che fare con il problema della verità e della sua rappresentazione. Si può dire che il libro sottoponga alla prova di resistenza la logica di ogni discorso, in un imponente interrogatorio degli enunciati. Le Congetture sono il romanzo di un confine, continuerà a parlarci, sotto la terribile spinta dell’avversativa iniziale («Ma Jakob ha sempre attraversato i binari») dell’uomo che sul confine, su una faglia della Storia, trova la morte. A noi spetta il tentativo di avvicinamento a questo vuoto ermeneutico, «se siamo d’accordo che nessuno è fatto delle opinioni che circolano sul suo conto».
E il segnacolo della radicale inconoscibilità del soggetto si trasferisce per intero alla vita dell’autore. Venticinque sono gli anni che ci allontanano dalla sua morte. Numeri periodici, costanti, anniversari.
Col tempo Uwe Johnson è divenuto una figura sempre più fantastica, isolata, privo dei suoi lettori ideali — quelli della RDT — mai realmente a suo agio nella Repubblica Federale; vivrà negli Stati Uniti, ancora in Europa, infine a Sheernees on See, alla foce del Tamigi, sino alla morte avvenuta per infarto cardiaco.
Le parole con le quali Johnson apre il documentario realizzato da Jürgen Bevers apprestano il cancellamento, l’ultima biffatura: «Lei farà vedere che in passato i miei capelli erano più lunghi; farà vedere che in passato avevo un altro viso; come allora si portassero altri tipi di occhiali. Tanto che per lei, per gli autori di questa pellicola, e forse anche per il pubblico, apparirò come una figura di cui si può disporre, perlomeno facendo vedere questa figura… e io mi auguro che lei, con ciò, non voglia provare nulla».
Uwe Johnson, Berlin 1956, foto di Heinz Lehmbäcker.
L’articolo è apparso su «Alias» il 23.01.2010.
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non sapevo nulla di ciò, ma una recensione così insegna e invoglia molto davvero. Grazie Domenico.
Lettura in bianco e nero. L’aria fumosa, oppressiva di un ambiente minato da delazione e sospetto. I clangori di ingranaggi che sottostanno ai moti delle ferrovie quanto dell’anima. I dialoghi spezzettati, le sequenze sospese, il tempo scandito a cadenze casuali. La libertà impossibile, anche quella dell’ovest. La verità impossibile, anche quella su Jacob. Un libro affascinante.
dom! come sai sto leggendo in questo periodo le congetture e ne sono estremamente affascinato, per diversi motivi.
uno è l’ennesima soluzione non “classicamente” romanzesca alla narrazione e, perché no, anche al romanzesco, che questo ‘900 tedesco è riuscito a immaginare (rispetto ai dibattiti di questi giorni c’è davvero da chiedersi in italia chi pubblicherebbe oggi le congetture – un vero e proprio “mattone” e proprio per questo così interminabile, così irresolubile, così duraturo). un altro è la rappresentazione congetturale, come sottolinei tu, che in effetti è una rappresentazione ossimorica, proprio perché ciò di cui si parla lo si ipotizza (e in qualche modo lo si genera, dunque, più che rappresentarlo). e ancora quell’ipotesi di autore che c’è dietro, così asciutto, così etico, così politico.
e, per finire, mi unisco a sparz nei complimenti/ringraziamenti: grande rece!
Scusi Pinto, ma perché nessuna casa editrice fa ritradurre il testo, se fu tradotto mezzo secolo fa a rotta di collo?
una lettura che cadrebbe davvero a fagiuolo, ringrazio per la recensione. e domando: è mai stata (verra mai) riedita l’edizione Feltrinelli delle Congetture?
saluti,
f.t.
avevo già apprezzato la recensione apparsa su Alias.
grazie.
cercasi libro disperatamente.
di uwe m’innamorai con schizzo di un infortunato.
poi ho trovato i giorni e gli anni, ma questo, purtroppo, ancora no
Bel pezzo, davvero. Grazie.
[…] Continua Articolo Originale: Due congetture su Jakob – Nazione Indiana […]
Bellissimo articolo. Grazie a Domenico.
Io dare in prestito te, cara maria (v), prima edizione italiana (1961) e tu restituire, ja?
Fabio: Feltrinelli 1995
Ringrazio sparz, niky lismo, fabio teti, maria v, nicola lagioia e giovanni per aver lasciato traccia della loro lettura.
E naturalmente anche Gherardo, sempre lucidissimo.
@ e-lettore: perché costa, immagino; e perché bisognerebbe fare meglio della prima volta, non è così semplice.
Carissimo Giorgio, offerta talmente generosa che costringerà anche un orso come me ad uscire dalla tana. Grazie, davvero.
Per tornare al discorso di Gherardo, (e di Domenico che scrive come si sia anche qui fermi al punto sulla verità e sua rappresentazione), aggiungo che per me Uwe Johnson è qualcosa di più di un maestro, una guida, una persona speciale…lo vedo al centro esatto di quel nodo scorsoio vita – letteratura, epopea-biografia. è un colosso. ma fragilissimo, troppo umano, lo vedo crollare sotto il suo peso, il peso della storia, delle sue idee, delle sue convinzioni, dei suoi princìpi, del suo dolore. Uno scrittore di tale grandezza da partorire tale romanzo sulla Germania divisa e pensare, più tardi, di rilanciarlo, in prospettiva mutata in grandiosa tetralogia, vedere quello stesso andare improvvisamente, letteralmente in pezzi, vederlo tramortito, in quello schizzo esilissimo, in ginocchio, per una vicenda privata che lo sconvolge più di una catastrofe travolgendolo fin nelle sue intime fibre, da costringerlo a rivedere tutto, ad interrogarsi, da capo, su tutto, a mettere in dubbio ogni fede, ogni scritto, la sua stessa idea di letteratura, bruscamente interrotta, assieme ad una fetta consistente della sua vita cui stenta a credere e non potrà fare altro che respingere, allontanare da sé in un corpo a corpo mortale…pochi anni dopo lo Schizzo di un infortunato e il congedo de I giorni e gli anni, ripreso dopo una lunga interruzione, Johnson morirà – altrove ho letto- “al termine di un disperato rpocesso di autodistruzione”-
il nodo…
Dice di attenersi a una diagnosi che MAX FRISCH ha pubblicato undici anni fa: non è tempo per storie in prima persona. Anche lui cercava in passato di rappresentare i singoli individui solo nelle loro connessioni con numerose altre persone, nel contesto della società, e rifuggiva da storie che gli sembrassero prigioniere di una sola figura, o di due, inutili, irresponsabili, inammissibili. Eppure, ecco l’antitesi, la vita umana si compie e fallisce nel singolo Io.
Mai altrove.
E quindi lui è una delle varianti fallite, una delle varianti infortunate
Uwe Johnson, Schizzo di un infortunato,
Traduzione di Rossella Rizzo SE 2006, (Skizze eines Verunglückten, 1982)
grazie, grazie, grazie. di Johnson non si parla mai abbastanza.
[…] 1 tags: libri, tedesco, Uwe Johnson by Valentina tanto per tenere in esercizio la memoria, da Nazione Indiana e addirittura un documentario su YouTube, in cinque parti. Ecco la […]
Mi fa bene, questa recensione, perché è un memento (“ricordati di lèggere Johnson”).