Terezia Mora, Tutti i giorni
In un intervento apparso di recente sul blog Nazione indiana, Dubravka Ugrešić, scrittrice croata di stanza ad Amsterdam, si esprime in modo pressoché definitivo sul vizio molto euro-occidentale di affibbiare etichette in difesa delle «minoranze»: «la ricezione delle opere letterarie ha mostrato che il fardello dell’identità finisce per impantanare l’opera. Perché è stato dimostrato chiaramente che le etichette alterano la sostanza di un’opera e il suo significato. Perché l’etichetta è, in effetti, un’interpretazione testuale semplificatrice, quasi sempre fuorviante. Perché un’etichetta fa sì che si legga in un’opera qualcosa che non c’è. E infine perché l’etichetta discrimina l’opera». Fortunatamente, a dispetto di quest’ossessione politically correct, «una vasta zona grigia di letteratura non territoriale cresce negli interstizi letterari europei (e non solo). Questa zona è abitata da autori “etnicamente inautentici”, emigrés, migranti, scrittori in esilio, scrittori che appartengono simultaneamente a due culture, autori bilingui che scrivono “né da qui né da lì”, in ogni caso oltre i confini delle loro letterature nazionali».
Terezia Mora è una di questi autori: nata nel 1971 a Sopron, nell’estremo ovest ungherese, ma di madrelingua tedesca, si è trasferita a Berlino nel 1990. L’esordio narrativo nel 1999 con i racconti di Seltsame Materie le è valso il premio Ingeborg Bachmann, mentre l’edizione tedesca di Harmonia Caelestis di Péter Esterházy ha imposto all’attenzione il suo talento di traduttrice. Ma a una simile «zona grigia» extra-territoriale appartiene anche il protagonista del suo primo romanzo, uscito in Germania nel 2004 e finalmente disponibile anche in italiano con il titolo, fedele all’originale – e all’omonima poesia della Bachmann cui s’ispira –, Tutti i giorni (traduzione di Margherita Carbonaro, Mondadori, pp. 441, € 22,00). «La guerra non viene più dichiarata, / ma proseguita. L’inaudito / è divenuto quotidiano» recitano i primi versi del componimento bachmanniano, datato 1953, e l’inaudito è l’elemento esistenziale in cui è gettato Abel Nema, emigrato all’inizio degli anni Novanta, poco più che maggiorenne, dalla cittadina di S., in Europa centrale, appena prima dello scoppio di una guerra fratricida che cancellerà il suo paese dalle carte geografiche (ma il riferimento all’ex-Jugoslavia non è più di una vaga allusione). All’inizio del libro lo troviamo, più morto che vivo, appeso a testa in giù a una struttura per arrampicarsi in un parco giochi di B., la città tedesca dove si è stabilito ormai da un po’. Due donne lo soccorrono, è portato in ospedale, dove una certa Mercedes lo rivede per la prima volta dal giorno del divorzio, quattro anni prima. Cos’è accaduto ad Abel in quegli anni, nei precedenti trascorsi a B. e in quelli ancora prima, tra infanzia e giovinezza? La struttura in questo senso circolare del romanzo s’incarica di illustrarlo attraverso le tappe, avventurose è dir pco, dell’erranza metropolitana di Abel inframmezzate da flashback più remoti – non prima però di aver annunciato il tratto fondamentale del protagonista, ossia l’«estraneità», inscritta già nel nome: «Nema, il muto, imparentato con lo slavo nemec, che oggi sta per tedesco e in passato per ogni lingua non slava, insomma il muto, o per dirla altrimenti: il barbaro». Parola di una certa Kinga. E il silenzio impenetrabile di Abel è una delle ragioni del suo fascino, come spiega un certo Konstantin in quell’apparente caos di voci che dà l’abbrivo alla storia: «penso che la sua vera specialità sia che la gente si interessi di lui, senza che lui faccia niente per ottenerlo». Questo intrico di prime testimonianze, tuttavia, è un caos solo apparente, perché Terezia Mora ha un sapiente controllo del racconto, e l’originale polifonia del suo stile energico, che accoglie la terza persona narrante e le voci dei personaggi (senza virgolette) entro uno stesso paragrafo e persino nella stessa frase, non è che l’analogon formale di una poliglossia che è soprattutto del protagonista: dopo la delusione d’amore che è la vera causa del suo espatrio, Abel scopre il suo vero talento: imparare le lingue. Da questo punto di vista, la sua permanenza a B. è la storia di un successo. Grazie al connazionale Tibor, docente presso un’università cittadina, Abel vive di borse di studio e passa i giorni a studiare lingue straniere in laboratorio, sperimentando tutte le possibilità foniche della propria cavità orale. È una conoscenza astratta, senza alcun legame con pratiche e territori, priva di appartenenza, ma è anche un sapere straordinario: al culmine del percorso, Abel Nema giunge a dominare alla perfezione dieci lingue, tanto da attirarsi a un certo punto le attenzioni sperimentali di linguisti e neurologi. Nel frattempo il lettore, sempre meno frastornato, ha conosciuto le vicende esistenziali di Nema, dalla sparizione improvvisa del padre al rapporto irrisolto con Ilia, l’amico-amato dell’adolescenza, alla prima convivenza a B. con lo squattrinato Konstantin, al periodo trascorso con la vitalissima maniaco-depressiva Kinga e la sua band, prima al chiuso di un improbabile comune abitativa e poi in tournée, tra concerti e sbronze. La narrazione segue un bizzarro andamento concentrico che rimescola di continuo i piani temporali, si è più volte riportati, dopo giri diversi, a uno o all’altro snodo della trama. Ma un po’ alla volta si assapora l’ordine segreto di questa inusitata costruzione; allora anche l’incontro con il giovane rom Danko e i suoi amici teppisti pare già annunciare il proprio esito fatale, e il matrimonio con Mercedes, a dispetto del tenero legame pedagogico che nasce tra Abel e il figlio di lei, si svela per quello che è: un matrimonio combinato un po’ per caso allo scopo di regolarizzare i documenti del protagonista. E sempre, sempre Abel affronta gli avvenimenti con la vaga indifferenza di chi, per destino storico e personale, non appartiene a nulla e a nessuno. Perfino le notti orgiastiche al club “Mulino dei Matti” sono per lui, cliente fisso, qualcosa di estraneo, cui partecipare restando in disparte, e vestito. Peraltro la fissità del suo aspetto, del suo abbigliamento e le batoste corporali subite da un capitolo all’altro fanno di lui un eroe dalle sette vite, quasi fumettistico, comunque forgiato da una forza immaginativa squisitamente romanzesca e centroeuropea, che ha tra i suoi precedessori più celebri il Franz Biberkopf di Döblin, il professor Kien di Canetti o l’Oskar Matzerath di Grass. Abel Nema è il loro erede del nuovo millennio, il migrante nel quale l’esilio interiore, frutto di lacerazioni affettive, fa tutt’uno con quello esteriore, imposto dalla Storia. Il suo continuo smarrirsi tra le strade di B. non è che la ricaduta urbana del suo sradicamento, e la sua conoscenza del «mondo come vocabolo», come dice Abel nell’allucinato delirio del penultimo capitolo, è la «consolazione» di chi ha lasciato, con la madrepatria perduta per sempre, la propria madrelingua. Noi, tuttavia, ci guardiamo bene dall’accordargli la compassione ghettizzante di chi ancora si illude di avere una Heimat, tanto più alla luce del finale spiazzante, dalla bellezza amara. Ne salutiamo invece l’avvento entro l’arte sovranazionale del romanzo, richiamando alla memoria le parole di Danilo Kiš, l’ultimo grande scrittore jugoslavo, quando si opponeva alla «letteratura che si vuole minoritaria. Non importa di quale minoranza: politica, etnica, sessuale. La letteratura è una e indivisibile».
L’articolo è apparso su «Alias» il 5.12.2009.
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Bello trovare questo post.
“L’arte è così strana. La sopravvivenza è così strana. Cominciamo mangiando le nostre madri nel loro ventre. Poi nel loro latte. Trafughiamo la loro lingua dal loro sguardo.” (P.Quignard)
lingua – terra d’origine…
“Il ministero del dolore” della Ugresic…uno dei libri più intensi degli ultimi anni, si dovrebbe eseguire un salto nel vuoto ponendo la sua opera accanto a quello della Zambrano ad esempio sulla questione dolore/esilio. Sono contento di leggere quelle parole proprio da parte sua, pensiero comune diluito in diversi post proprio in questi giorni. Sull’essere “etnicamente inautentici”… si aprono possibili scenari di discussione, buchi neri della lingua, del corpo e della terra…
L’opera della Ugresic come di altri pochi autori dimora nell’esilio che è l’unica condizione creatrice, non si compone che in esilio, non può essere altrimenti per dare luogo alla possibilità di trovare una lingua altra, una “lingua straniera” come affermava Proust. Il libro di Terezia Mora, questa sorprendente nipotina della Bachmann, è bellissimo ed ha una curiosa parentela con un suo cugino americano, “Giochi d’infanzia” (purtroppo non una traduzione eccezionale da parte di Fazi) sempre di una scrittrice, Lynn Sharon Schwartz, proprio sulla questione della lingua e dello straniamento in luogo di una tragedia. Entrambi i libri sono usciti nello stesso anno tra l’altro. Ci sarebbe tantissimo da dire…
amo in particolare l’ultima bachmann, quella di cause di morte ( malina, il caso franza, requiem per fanny goldmann), e la bachmann di christa wolf, delle premesse a Cassandra. quella wolf che l’ha salutata così:
«È venerdì 19 ottobre 1973, una giornata fredda e piovosa, sono le 18.30. In Cile la giunta militare ha proibito l’uso della parola ‘compañero’. Non c’è allora motivo per dubitare della efficacia delle parole. Anche se colei che ha sempre fatto affidamento sull’uso serio delle parole non può più ricorrere ad esse; si lascia andare e vive questi giorni in una sua frase: ‘con la mia mano bruciata scrivo sulla natura del fuoco. Ondina se ne va.’ Un filo scuro si è inserito nella trama. Impossibile lasciarlo cadere. Per raccoglierlo è ancora troppo presto»
darò però un’occhiata alla nipotina:)
Il nome del protagonista è significativo. Abel come Abelardo, il primo grande intellettuale del Medioevo, colui che nell’immaginario dell’intellettuale incarna ragione e passione. Nema come un nessuno frutto di una ghettizzazione. Ma anche “barbaro”, come dirà un personaggio del romanzo.
Abel, in ebraico “alito, fiato, nullità”, Nema in croato “non c’è”.
La stessa autrice fornisce spunti diversi definendolo “Nema, il muto, imparentato con lo slavo Nemec…”. Che, letto al contrario, diventa “amen”.
Il romanzo è un grande racconto sulla solitudine e sulla vita. Di notevole interesse per chi, come gran parte dei giovani del nostro continente, si sente a casa e straniero allo stesso tempo, e tenta in modo frenetico e dolorosamente, di essere cittadino d’Europa.
Fin dal titolo, questo romanzo fa intravedere sullo sfondo l’alone della guerra. Un mondo messo a rovescio in cui “l’inaudito è divenuto quotidiano” e dove “ciò che appariva come caos era in realtà una conseguenza di giorni sempre uguali”, come si esprime la scrittrice. E’ forse il caos, infatti, il protagonista dominante di “Tutti i giorni” o meglio è lo stato attuale del mondo e il suo profondo smarrimento.