LENIN ON-LINE
di Antonio Sparzani
Nel 1924, a quest’ora e in questo giorno 21 gennaio, moriva Vladimir Ilyich Ulyanov, in arte Lenin, dopo una lunga malattia, il primo attacco della quale si manifestò nel maggio 1922, anche come conseguenza della pallottola che gli era rimasta nel collo dopo l’attentato del 1918.
Io qui non tento neppure di parlarne (ho linkato la voce di wikipedia che mi pare piuttosto informativa, come pure la sua versione francese), limitandomi ad affermare che, per quel che pare a me, la sua prematura morte fu una vera sciagura per le future sorti del comunismo.
Invito se mai, a rileggere qui, dato che in tempi calamitosi come i nostri rinfrescarsi qualche memoria fa bene alla salute, il documento noto come testamento di Lenin, su cui riporto qualche notizia e di cui trascrivo due brevissimi stralci.
La Lettera al Congresso, conosciuta sotto il nome di “Testamento” fu dettata da Lenin dal 23 al 26 dicembre 1922 e il “supplemento alla lettera del 24 dicembre 1922” il 4 gennaio 1923.
Al pari delle lettere pubblicate più oltre, Sull’attribuzione di funzioni legislative al Gosplan e Sulla questione delle nazionalità o dell’autonomizzazione, questa lettera ha ‒ come gli ultimi scritti di Lenin, Pagine di diario, Sulla cooperazione, Sulla nostra rivoluzione (A proposito delle note di N. Sukhanov), Come riorganizzare l’ispezione operaia e contadina? (Proposta al XII Congresso del partito), Meglio meno, ma meglio, che egli dettò nel gennaio-febbraio 1923 e che furono pubblicati dalla Pravda, un’importanza di principio. Lenin riteneva indispensabile che dopo la sua morte la lettera fosse portata a conoscenza dell’imminente congresso del partito.
Ne fu data lettura ai delegati del XIII Congresso che si tenne dal 23 al 31 maggio 1924. Il congresso decise all’unanimità di non pubblicarla, considerando che, essendo rivolta al congresso, non ne era stata prevista la pubblicazione sulla stampa.
Per decisione del CC del PCUS, e per iniziativa del primo segretario del partito Nikita Sergeevič Chruščëv queste lettere di Lenin furono portate a conoscenza dei delegati del XX Congresso del PCUS e poi delle organizzazioni del partito. Nel 1956 furono pubblicate nel n. 9 del Kommunist e poi raccolte in un opuscolo di grande tiratura.
La lettera al Congresso è un insieme di documenti dettati da Lenin a sua moglie Nadežda Krupskaya e alla sua stenografa Maria Volodicheva tra il dicembre del 1922 e il gennaio del 1923, durante il suo soggiorno nella casa di cura di Gorky. Nella prima parte della lettera Lenin avanzò la necessità di aumentare l’effettivo del Comitato Centrale facendovi entrare operai e contadini (50-100 membri) e delineò i ritratti dei maggiori esponenti del partito candidati alla sua successione. Nella seconda parte del testo, Lenin propose esplicitamente al Congresso la rimozione di Stalin (giudicato “troppo grossolano”) dalla carica di segretario generale del partito.
Questi sono due stralci a proposito di Iosif Vissarionovič Džugašvili, in arte Stalin.
« Il compagno Stalin, divenuto segretario generale, ha concentrato nelle sue mani un immenso potere, e io non sono sicuro che egli sappia servirsene sempre con sufficiente prudenza. D’altro canto, il compagno Trotsky come ha già dimostrato la sua lotta contro il CC nella questione del commissariato del popolo per i trasporti, si distingue non solo per le sue eminenti capacità. Personalmente egli è forse il più capace tra i membri dell’attuale CC. »
« Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso, ecc. Questa circostanza può apparire una piccolezza insignificante. Ma io penso che, dal punto di vista dell’impedimento di una scissione e di quanto ho scritto sopra sui rapporti tra Stalin e Trotsky, non è una piccolezza, ovvero è una piccolezza che può avere un’importanza decisiva.»
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Il male assoluto è la burocrazia.
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…più che l’autorevole parere di Lenin, temo ci sarebbe voluta l’analisi dello psichiatra di razza, magari sarebbe saltato fuori, invece che un ingenuo “grossolano”, un minaccioso sadismo.
ma quella era un’era in cui l’inconscio collettivo riempiva strani vuoti e covava la sua vendetta.
è bello leggere qui le parole di Lenin. è un tuffo nel passato, un tuffo nell’idea (platonicamente parlando) che contiene il tutto e da cui si può generare il bello ed il brutto. Si è generato qualcos’altro…
L’intelligenza politica di Lenin l’ho sempre ammirata. Non è stato un profeta, anzi, dir così è riduttivo e fuorviante, ma in “Materialismo ed empiriocriticismo” ci ho ritrovato anche il dottor Lacan.
Il testamento politico di Lenin è un testo di cui si è discusso a lungo; ultimamente ne ha parlato Luciano Canfora nel suo libro *La storia falsa* (2008), suggerendo l’ipotesi che il testo, nella versione che conosciamo, sia stato sottilmente manipolato da emissari di Stalin allo scopo di mettere in cattiva luce Lev Trotsky. (Manipolato, secondo l’ipotesi di Canfora, limitatamente a uno specifico passaggio del testo, che non è fra i paragrafi riportati qui sopra da Antonio Sparzani: questi sarebbero autentici anche secondo Canfora. Canfora è uno storico tutt’altro che filotrotschista, tanto più dunque è interessante ciò che ha scritto sull’argomento).
Al di là di tali questioni filologiche, a mio modesto parere Lenin si decise troppo tardi a far suonare il campanello d’allarme. L’involuzione burocratico-autoritaria era un rischio già insito nella stessa concezione leniniana del partito, rischio che fu denunciato (fra gli altri da Rosa Luxemburg e dallo stesso Trotsky) già nel dibattito che seguì la pubblicazione del *Che fare?* (1902). La tragedia del movimento operaio del XX secolo fu anche, secondo me, nel non riuscire a rinnovare le sue forme organizzative, una volta che la forma-partito teorizzata da Lenin ebbe mostrato i suoi limiti.
Solo che la forma del partito leniniana, in quelle condizioni (clandestinità, forte repressione zarista, etc.), era la cosa più sensata: tant’è che la rivoluzione i bolscevichi la fecero, tra l’altro – chissà perché questo fatto non lo ricorda mai nessuno – fermando una guerra mondiale catastrofica.
Non c’è nessuna equazione matematica tra la concezione leniniana del partito e il seguito staliniano. Quella degenerazione è stata la conseguenza non di un’idea o di un’organizzazione particolare, ma del contesto: guerra civile, assedio delle potenze mondiali, fame … Come scrive Zizek, l’opzione staliniana del “socialismo in un solo paese”, con tutte le ricadute anche organizzative del partito e della società, è profondamente anti-leninista …
In ogni caso:
“Ripetere Lenin significa accettare che Lenin è morto, che la soluzione specifica da lui indicata ha fallito, anche in modo mostruoso, ma che dentro c’era una scintilla utopica che vale la pena di tenere accesa”. (S. Zizek, Tredici volte Lenin, Feltrinelli).
sp
Più unica che rara, l’assenza, in una personalità così eccezionale come quella di V.I.L., di ogni anche remota traccia di personalismo e personalizzazione. Lenin veniva messo in minoranza nel CC del PC (b), come sulla questione decisiva affrontata nelle Tesi di Aprile; collaborò strettamente con dirigenti con i quali aveva avuto dissensi anche aspri, p.es. Trozki, Zinoviev, Bukharin, e lo stesso Stalin. Anche nelle sue opere, si presentò essenzialmente come militante comunista. I suoi saggi più importanti, anzi geniali, come quelli sull’imperialismo, lo Stato e la rivoluzione,la dialettica hegeliana, sono frutto di profondo studio e lunghi dibattiti in seno al partito russo ed al movimento operaio internazionale. In nessun caso indulse alla tentazione di dar mostra di erudizione universale, a differenza di Plekhanov e poi Kautsky, che pretesero scrivere di tutto (“estetica marxista”, storia “marxista” delle religioni, ecc. ecc.). V.I.L. si definì sempre pubblicista, con ovvio riferimento ai vari giornali ed opuscoli di partito. Nelle Opere Complete si accede ai suoi Quaderni, impressionante esempio di serietà e scrupolosità intellettuale di una mente che rifuggiva dalla retorica, dall’improvvisazione, dalla superficialità culturale propria di tanta parte della II Internazionale, ma anche del successivo “marxismo occidentale”. La modestia di Lenin, straordinaria ma mai affettata, contrastava con lo stile declamatorio e trombonesco della II Internazionale, ricalcato sul modello dei “grandi oratori parlamentari” (e Jaurès ne fu maestro):una caratteristica pressoché esclusiva di Lenin è la relativa semplicità di scrittura, che non sacrifica peraltro mai la complessità dialettica dell’argomentazione, l’assenza di ogni demagogica “mozione degli affetti”, anch’essa d’origine parlamentare. Lo stile di Lenin è l’uomo, ma è pure la cosa: l’uomo, cioè il dirigente, lo stratega rivoluzionario, investito di una tremenda responsabilità storica e di questa consapevole fino in fondo; la cosa, cioè il metodo scientifico, obiettivo e critico, che sta alla base di tale strategia. Quest’uomo che si commuoveva ascoltando la musica (e diceva che non bisogna indulgervi eccessivamente, perchè ciò predispone alla benevolenza umanitaria) è stato definito “prosaico”, ed era certo molto meno patetico o pittoresco di tanti altri protagonisti del movimento operaio rivoluzionario di quel tempo. Ma, pur senza studiarsi di parerlo, pur attenendosi ad un’ammirevole sobrietà, ed evitando ogni posa intellettuale o fisica, Lenin era tutt’altro che semplice: anzi una personalità estremamente complessa, eccezionalmente capace di combinare analisi e sintesi,indagine sul terreno e direzione di gigantesche azioni collettive. E, per finire, profondamente diverso, ed in un certo senso, opposto all’idealtipo del rivoluzionario romantico (e poco romantico era apparso anche Blanqui, nonostante le sue incredibili traversie), ed altrettanto estraneo a quello che gli intellettuali piccolo-borghesi occidentali si immaginavano fosse “l’anima russa”.
Ridurre lo stalinismo a materiale da psichiatria è davvero sintomo di una certa povertá intellettuale. D’altra parte anche il cosidetto “testamento di Lenin” non ha poi questo significato decisivo che molti vi vedono. La morte di Lenin o la sua vecchiaia poco cambiano al fatto, quello si decisivo, che il progetto bolscevico aveva subito una sconfitta irrimediabile con il fallimento della rivoluzione tedesca, di quella polacca e anche di quella italiana. Lenin aveva ben chiaro che quello che si poteva ancora fare era gestire la disfatta cercando di mantener il piÚ posibile intatte le forze che avevano guidato l’Ottobre. Non fu cosí. I boscevichi furono sterminati negli anni delle purghe e dei processi e nel corso della guerra di Spagna. Era possibile un altro esito? È ua classica domanda controfattuale cioé un esercizio retorico. Certo Lenin e i Bolscevichi ebbero il merito di dimostrare che le classi oppresse e schiacciate dallo sfruttamento piú brutale potevano capovolgere la situazione e impadronirsi della direzione della loro storia. Questo era giá succeso per un breve momento con la Comune di Parigi. Il tentativo bolscevico fu immensamente piú ampio e significativo. Non penso quindi che il problema sia la forma partito di cui è necessaria una critica, a condizione che sia una critica pratica, cioè una critica che si faccia pratica organizzativa concreta, quant piuttosto il ritardo nella conquista di una forma partito adeguata nei paesi piú sviluppati capitalisticamente della Russia, cioé Germania e Inghilterra, in cui l’accettazione del metodo democratico e del paramentarismo aveva privato le classi lavoratrici delle loro armi.
genseki
caro genseki, che sia stata materia di psichiatria la personalità del signor stalin non lo dico certo io: basta rispolverare l’antropologo Eric Fromm, che in quanto al sadismo del signor s. da me menzionato ha dedicato un centinaio di pagine. attribuisci pochezza intellettuale tanto per, e non me ne lamento: l’intellettuale te lo lascio paro paro.
Lenìn, persona di grande cultura.
Lenìn, il grande affossatore della rivoluzione sovietica.
Trotzky, il capo dell’armata rossa, quella che massacrò gli insorti di Kronstadt. Per esser poi picconato, esule, dal suo contendente. Lotte per il potere.
Stalin, nulla da invidiare a Hitler. Anzi, peggio. Perché proveniva da ideologia, almeno in apparenza, opposta e contraria. Ma, all’atto pratico, questa stessa ideologia si tramutò in tragedia.
Stalin, colui che distrusse la rivoluzione spagnola del 1936 e, da bravo comunista (cortese alla propria destra, violento alla propria sinistra), si accordò col nemico.
Lo stalinismo, i partiti comunisti nazionali, dopo aver distrutto le sinistre rivoluzionarie, si son suicidati, diventando neoliberisti.
Ora, cosa rimane?
Macerie. Peggio.
Perché un secolo fa, era ancora tutto da costruire, l’Uomo nuovo.
Oggi il capitalismo prospera su questi stessi “errori”, meglio sarebbe chiamarli orrori, che ci hanno ributtato indietro, nella notte dei tempi.
Che una qualche divinità ci salvi perché, di fronte al disastro sociale ed a quello ecologico che incombe, è difficile coltivare speranze terrene.
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@ sp
Scrivi: “Non c’è nessuna equazione matematica tra la concezione leniniana del partito e il seguito staliniano”. Sono d’accordo: dal *Che fare?* non consegue necessariamente Stalin. E non intendo negare l’importanza storica della Rivoluzione d’Ottobre. Ho parlato di “rischio” d’involuzione burocratica, con questo senza negare che fossero possibili altri esiti. Mi sembra anzi (correggimi se sbaglio) che sia tu a considerare Stalin un esito storico necessario, quando scrivi che “Quella degenerazione è stata la conseguenza non di un’idea o di un’organizzazione particolare, ma del contesto”. E’ come dire che, in quel dato contesto, non era possibile fare nient’altro da ciò che fece Stalin.
A mio parere “accettare che Lenin è morto” implica riconsiderare criticamente tutte le teorie e l’operato dei dirigenti bolscevichi, senza condanne o assoluzioni preconcette. E’ semplicistico e ideologico sostenere che Marx o Lenin o Stalin fossero il diavolo, e il gulag una conseguenza logica delle loro idee; ma sarebbe una semplificazione indebita anche sostenere che Lenin aveva sempre e comunque ragione e che i suoi successori a un certo punto “deviarono” dalla retta via, oppure che il contesto storico non avrebbe consentito loro di agire diversamente da come fecero. Sono tutti punti di vista che non ci aiutano a capire e a progredire.
da Erich Fromm “Anatomia della distruttività umana”, “Stalin – un caso di sadismo non – sessuale.
“Stalin fu uno degli esempi storici più rilevanti di sadismo fisico e mentale. Il suo comportamento è una descrizione da manuale del sadismo non sessuale, come lo sono i romanzi di De Sade per quello sessuale. Fin dall’inizio della rivoluzione fu lui a ordinare per primo di torturare i prigionieri politici, cosa che fino che fino ad allora era stata evitata dai rivoluzionare russi. Con Stalin i metodi di tortura usati dalla NKVD superarono in raffinatezza e crudeltà quella polizia zarista. Talvolta era lui a ordinare personalmente il tipo di tortura da applicare a un prigioniero. Ma il suo sadismo era soprattutto mentale. Ne darò alcuni esempi: Stalin amava far credere alla gente di essere al sicuro, per poi arrestarla a un giorno o due di distanza. Naturalmente in tal modo l’arresto colpiva tanto più duramente la vittima che si era sentita al riparo, e Stalin poteva godere il potere sadico di conoscere il vero destino di un uomo nel momento stesso in cui lo rassicurava della propria benevolenza. Esiste forse un maggior senso di superiorità e di controllo sugli altri?…”
Che Stalin fosse o non fosse un sadico ha pochissima importanza se si cerca di comprendere la storia in termini storici. Inserire una diagnosi psicologica in un ragionamento storico politico è patetico.
Questo non vuol dire che Stalin non soffrisse eventualmente di varie patologie psichiche e fisiche, non lo so e non mi pare interessante saperlo ai fini di una sulla storia della Rivoluzione d’Ottobre e sulla Russia Sovietica. Suppongo che Stalin sia nato con un segno zodiacale, e che qualche astrologo abbia spiegato questa vicenda storica in termni astrologici altrettanto irrilevanti, in questo contesto che quelli psicologici.
Quello che a me premeva sottolineare, e che mi sembra serio e importante, è ció che rivela tutta questa foga critica relativa alla forma organizzativa del Pertito Bolscevico. Considerare che il fallimento relativo della Rivoluzione d’Ottobre sia dovuto alla forma organizzativa ideata da Lenin e da lui posta in opera mi pare una di quelle fallacie che si ripetono molto e si dimostrano poco. Personalmente, ripeto, mi pare che il problema sia stato invece proprio il contrario. Cioè il ritardo nei paesi a capitalismo piú avanzato, nel caso specifico la Germania nel processo di organizzazione di un Partito con caratteristiche simile a quelle dei bolscevichi. Ritardo che causó la disfatta degli operai rivoluzioari in Germania, Francia, Italia e Spagna e quindi l’inevitabile falimento in Russia e la reazione termidoriano staliniana conseguente.
Quello che Zizek vuol dire mi pare andare piuttosto in questo senso. Non ci puó essere una politica rivoluzionaria senza la centralitá dell’organizzazione. Non ci puó essere nessuna attivitá politica soggettiva autonoma delle classi subalterne senza uno strumento-partito adeguato. (I fori sociali e i movimentideimovimenti con i loro blocchi neri o senza blocchi neri, non sono durati nemmeno una stagione!!!!).
Così ripetere le litanie sull’inadeguatezza della forma partito è un modo elegante per porre la questione del riscatto delle classi subalterne e di una organizzazione razionale della societá umana tra le questioni irrilevanti.
genseki
…ah lei vuole comprendere la storia in termini storici: e nel voler comprendere la storia, ritiene di poca importanza che stalin fosse sadico… interessante punto di vista.
bè mi spiace doverglielo dire, ma a me non interessa un emerito nulla delle sue dissertazioni: né ciò che a lei premeva sottolineare, né di ciò che ritiene serio.
del resto, non mi aspettavo di dover discutere del sadismo di stalin, visto che ho semplicemente detto una cosa che anche le formiche dovrebbero sapere.
@ sp (su Zizek),
l’osservazione di Zizek (che altrove leggo con grande interesse, e mi convince molto la sua “rivalutazione” di Descartes in “Le sujet qui fache”), in questo caso non mi convince perché:
“accettare che Lenin è morto”, beh, sì, lo è dal ’24, se non sbaglio… ma, ed è questo il punto, bisogna quindi considerare il pensiero e la politica di Lenin fino al 1924, contestualizzarlo in quella congerie storico-politica, vederlo alla luce di quegli anni cruciali, quindi giudicare il suo pensiero politico, i suoi scritti e la sua prassi fino a lì,non addebitargli il fallimento e le mostruosità successive, perché lo scarto, il divario tra il suo pensiero e la sua azione e quella di Stalin, che un pochino tanto, se non troppo, differiva, non è “colpa” sua.
Gentile callettino,
apprezzo davvero la raffinatezza della sua argomentazione. Squisita. Specialemente in quel tocco zoologico finale. Che cosa vuole che le dica noi cicale non condividiamo le conoscenze delle dottissime formichine semplicemente ci dilettiamo a cantare prima dell’inverno.
L’argumenteum ad emeritum erano anni e anni che non lo avevo incontrato esposto con tanta intelligente acribia.
Ancora complimenti
Umilmente suo
genseki
ragazzi, se invece di disquisire di cicale e formiche e di sadismo, portassimo l’attenzione su un tema a mio avviso cruciale e forse mai abbastanza deciso dagli storici, neppure quelli di parte marxista, e cioè se già nell’impostazione leninista stava il germe di un fallimento e quale era questo germe; per esempio — provo a dire rozzamente — il problema dell’accumulazione primitiva e della enorme prevalenza data agli ovviamente irrinunciabili aspetti economici, ma trascurando e anzi volutamente eliminando per anni qualunque intervento su aspetti che potremmo chiamare culturali, più ancora che ideologici, eh?
E la critica economica di Mises al socialismo? (il cercare di comprendere questa crisi mi sta facendo diventare “austriaco”).
Nel pensiero e nell’azione politica di Lenin ci sono aspetti inquietanti. L’ossessione verso i nemici della rivoluzione, veri o presunti, all’interno del partito e nel variegato ambiente russo post bellico, e di conseguenza l’occhiutismo, originato dal maniacale controllo su tutto e tutti, quasi subito approdato alla fondazione della Ceka di Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, sodale di Lenin nonché da lui designato Ministro degli Interni, tutto questo getta le basi per i futuri massacri.
D’altra parte la violenza come mezzo irrinunciabile – ancorché legittimato dalle analisi storiche di Lenin – ai fini della conquista del potere del proletariato è un pilastro della dottrina marxista e di tutto il pensiero comunista dai tempi della prima Internazionale.
Lo stesso Lenin scrisse:
“La necessità di educare sistematicamente le masse in questa – e solamente in questa – idea della rivoluzione violenta, è alla base di tutta la dottrina di Marx e di Engels”.
Ed ancora (in Stato e Rivoluzione): “La sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta”.
Qui emergono due aspetti basilari del pensiero marxsista- leninista. Il primo è l’educazione brutale delle masse alla violenza.
Il secondo è la intrinseca natura aggressiva del bolscevismo, così come si era andato affermando sin dagli ultimi decenni dell’800.
Ad essa si accompagna, anzi la integra, il culto robespierriano della Virtù. Come non pensare che in un tale terreno di coltura, in questo scientifico laboratorio dell’odio, sia pure di classe e in vista di una società salvifica, e dell’assassinio come strumento legittimo, non emergessero le istanze più rozze, unitamente al culto del Leader come suprema incarnazione di quella Virtù?
E come non capire che l’intento di educare le masse con metodi coercitivi recava in sè la cultura del sospetto e conseguente punizione a morte per chi ritenuto non ortodosso se non proprio avversario?
Da qui all’accusa di virtù insufficiente nei confronti degli avversari di partito il passo è breve. Quando si teorizza la violenza, qualunque ne sia il fine, si giunge presto a un tribale regolamento di conti, in cui prevale il più scaltro, il più infido, il più cinico e bugiardo, e soprattutto colui al quale la natura ha destinato il peggiore istinto criminale.
Credo che nelle contingenze storiche bisogna trovarcisi, viverle, per avere un’idea esperienziale sul che fare. In una Unione Sovietica circondata, a livello mondiale, da paesi capitalistici, suoi mortali nemici, che hanno appoggiato o fomentato controrivoluzioni bianche (ah, questa faccenda delle rivoluzioni colorate…), mi pare non si potesse mettere dei fiori nei cannoni. Se poi l’iniziale autodifesa, che non era un pranzo di gala o un esercizio di ricamo, “degenerò”, e produsse lo sconquasso che ha prodotto, è questione anche dei gravi errori successivi, di una concezione sbagliata del socialismo in un paese solo, della supremazia a tutto campo dell’economicismo, di “tradimenti”, ecc. Del resto, qual è quello Stato che non reprime con la violenza situazioni interne di disordine o di destabilizzazione? Soprattutto oggi, che, con l’accordo della maggior parte degli Stati, non ci si limita più a individuare il pericolo nazionale all’interno del paese, ma lo si va a cercare a migliaia di chilometri di distanza, e si bombardano intere popolazioni in nome degli interessi e della difesa nazionale.
E se si provasse a riparlare di Lenin non a ruota libera o solo a partire dal suo testamento, ma dopo essersi letto il volume di L. Cortesi
Storia del comunismo. Da Utopia al termidoro sovietico, Manifestolibri 2010
appena annunciato in questi giorni?
E’ proprio nell’ultimo anno dell’attività di Lenin che l’asimmetria con la successiva fase staliniana risulta evidente e fondata nella forma e nell’articolato contenuto. Tutto ciò è documentato dall’aureo libretto di Moshe Lewin “L’ultima battaglia di Lenin”, ma anche dallo storico Edward H.Carr nella “La morte di Lenin- L’interregno 1923-1924” ed a completamento il notevole scritto di C.Rakowski su “I pericoli professionali del potere – Lettera a Valentinov”. Questi scritti più attinenti al problema posto, più di quello sicuramente interessante di L.Cortesi, ma che dal titolo rimanda ai gramsciani “brevi cenni sull’universo”, documentano in modo esaustivo che la genesi della degenerazione staliniana è da rintracciarsi nel periodo considerato.
La debilitazione fisica di V.I.L. inizia a negli ultimi mesi del 1921 e si radicalizza dal maggio 1922. Ma il rivoluzionario russo, sentendo l’approssimarsi della morte, interviene su tutto il possibile, con scritti e comunicazioni, attraverso le sue segretarie, sorprendenti per acume realistico e lungimiranza. Interviene sulla questione del monopolio del commercio estero, con energia e contro Stalin e Ordzonikidze sulla questione dell’indipendenza georgiana; attraverso il Testamento ed ancor nel supplemento noto come Lettera al Congresso sulla natura delle singole personalità che rimarranno alla guida del partito. In “Meglio meno ma meglio” la sua riflessione si apre al destino storico della Russia in relazione al risveglio dei popoli dell’Oriente,
si concentra sui problemi dell’arretratezza culturale, e quindi sull’onnipresente problema dell’espandersi della burocrazia. Già in questi anni Lenin definiva la Russia uno stato operaio con evidenti deformazioni burocratiche.
Quindi il successivo consolidarsi della burocrazia staliniana, che non proveniva da un’astronave di Alpha Centauri, ma dai settori demoralizzati e corrotti del partito, ormai decimato e demoralizzato nella sua avanguardia dalla guerra civile, dall’arretramento della rivoluzione in occidente e dalla Nep, si colloca proprioa ridosso dell’esito negativo dell’ultima battaglia di Lenin.