Autismi 17 – La mia patria fuggitiva
di Giacomo Sartori
Nella mia vita adulta mi sono quasi sempre ritrovato a vivere all’estero. Prendevo un lavoro, e mi ritrovavo all’estero. Conoscevo una ragazza, e mi risvegliavo in un letto estero. Andavo al mare, e i cartelli segnaletici della spiaggia erano scritti in una lingua straniera. Mi sposavo, e manco a dirlo nessuno parlava l’italiano. Una vera persecuzione. Io per carattere, e anche per segno zodiacale, sarei una persona che se ne sta tranquilla in pantofole nella catalettica cittadina natia. Fin dall’infanzia gli spostamenti mi sono apparsi dispendiosi sia fisicamente che psichicamente, e soprattutto molto inutili. Fondamentalmente li detesto, i viaggi. E non sono nemmeno tanto portato per le lingue. No grazie, c’è qualcosa alla televisione che mi interessa, mi sarei volentieri schermito. E invece per un verso o per l’altro mi ritrovavo al centro di un deserto a perdita d’occhio, nell’aria lercia di una cacofonica metropoli, in una pampa disseminata di enigmatiche mucche. Sempre estero era.
La gente ha delle idee molto sbagliate sull’estero. Si immaginano che sia un posto dove tutto è sempre molto bello, dove si sta per definizione benissimo, dove si è sempre in vacanza. Certo che tu sei proprio fortunato!, mi dicono, sottintendendo che dovrei vergognarmi della mia condizione. Ti invidio!, sospirano, dopo che ci siamo dilungati sulla sempre più terminale situazione del nostro paese. Divertiti anche per me!, dicono. Non hanno nessuna idea di cosa voglia dire abitare all’estero.
Campare all’estero è come essere amputati di una parte del proprio passato, la più importante. Come avere un buco nero al posto della tua infanzia, dei luoghi a cui tieni di più, delle facce tra cui sei cresciuto. Una voragine che si è inghiottita i sapori che preferivi, gli odori più evocatori, le emozioni più struggenti. È soprattutto guardando i varietà alla televisione che ti rendi conto del tuo totale straniamento. Attorno a te tutti sorridono, scuotono la testa, canticchiano. E tu te ne stai lì come una statua sotto la pioggia. La maggior parte di quei visi e di tutte quelle parole e canzoni non ti dicono niente, ma proprio niente. Poi finisci per capire: quei mascheroni sono gli equivalenti locali di Raimondo Vianello, Rita Pavone, Gianni Morandi, Mike Bongiorno, Sabina Guzzanti. Tu però non li hai mai sentiti nominare, non hai la minima idea di cosa rappresenti ciascuno, da che cella frigorifera esca. Tabula rasa.
A forza di stare tanto tempo in un dato paese estero uno la lingua la impara, che discorsi. Prima memorizzi come si dice latte, pane, copulazione, tutte gli altri generi di primissima necessità. Poi impari anche i nomi di una miriade di altri orpelli, compresi quelli che nel tuo paese proprio non ci sono, come per esempio le cavallette saltate in padella o le pinzette per chiudere le zanzariere. Da un certo punto cominci a addentrarti nelle finezze dei modi di dire locali, degli insulti, di qualche proverbio: ti esprimi più o meno correntemente. Però è come se indossassi un vestito che ti stringe sotto le ascelle, con i bottoni che si incastrano nelle asole, con la stoffa ruvida. Hai un bel strattonarlo o cercare di riattarlo, resta inconfortevole: è stato fatto su misura per un altro. E prima o poi ti tradisce, puoi starne certo. Si sbrega per esempio sull’inguine. E i tuoi interlocutori giù a ridere.
All’estero si vive in effetti come bambini, bambini che non sanno le cose che sanno tutti e che sono sempre pronti a sparare una bestialità. Dici fuori una cosa che ti sembra a postissimo, e tutti sorridono con sufficienza, come appunto si fa con i bambini. In quel caso però il bambino sei tu. Un bambino grande e grosso, incongruo, mostruoso.
Quando uno risiede all’estero gli autoctoni lo prendono per il tipico rappresentante del paese da cui proviene. Io sono biondastro e con gli occhi azzurri, ho sempre odiato il calcio, non mi piace la pizza, e in casa mia non si mangiavano mai gli spaghetti, perché mia madre era ideologicamente contraria, ma dovunque vada pretendono che faccia l’italiano tipico. Rimangono delusi, se non mi do da fare. Nei loro occhi comincia a apparire il dubbio che non sia un vero italiano, o comunque non un buon esemplare. Come una compera che quando si arriva a casa si rivela un pessimo affare. Come un fungo che a guardarlo bene brulica di vermettini.
Io prima di andare all’estero ero un tipo abbastanza spiritoso. A scuola ero il classico studente che non è tanto bravo, ma che spara fuori le cavolate che fanno scompisciare tutta la classe. E anche in famiglia ero quello che dice le scemenze e gli altri ridono. Fa piacere far divertire la gente, è pur sempre un appiglio al quale la propria autostima può abbarbicarsi. Almeno li faccio ridere, ci si dice. Da quando sono all’estero non faccio più battute. Neanche una. O meglio me le faccio nella mia testa, e rido da solo, con la faccia serissima. Ci ho provato, intendiamoci, ma non rideva mai nessuno.
Quando è all’estero uno per tanti anni mangia le cose che è abituato a mangiare. È italiano, e quindi mangia le orecchiette con il pomodoro, i risotti, la mozzarella, le fettine. Prepara il caffè con la moka, trita il prezzemolo con la mezzaluna. Poi a un certo momento tutto crolla. Da un giorno all’altro comincia a considerare normale abbinare le tagliatelle scotte con una salsiccia di fegato, metterci sopra l’emmenthal grattugiato al posto del grana, condire l’insalata con l’olio di colza e la senape, il tutto sorseggiando un liquido caramellato e dolciastro. Del resto se rimpatria il caffè gli sembra ormai un catrame imbevibile, la pastasciutta un cemento stucchevole, la mozzarella una gomma da masticare insapore, i digestivi delle pozioni avvelenate.
Naturalmente se uno ha messo le radici all’estero vede tutte le cose positive del paese dov’è, e si nasconde quelle negative: è un normale riflesso di sopravvivenza. Certo che qui tutto è a un altro livello, si dice. Finisce insomma per amare un paese che si caratterizza per essere esente dai micidiali difetti del suo, e per riunire tutte le qualità che al suo mancano. Un paese che non esiste sulla carta geografica, ma nel quale si sente relativamente a suo agio. E beninteso se qualcuno gli domanda della sua terra natale ne dice peste e corna. Appena però sbarca in patria si accorge che le persone sono più affabili, l’insalata è più saporita, le città infinitamente più poetiche, l’aria più dolce. Resta attonito. Forse dopotutto si sta meglio qui, si dice, massaggiandosi la gola. Il problema è che non può però evitare di vedere i suoi connazionali con gli occhi del posto dove vive, di trovarli cioè un po’ ridicoli. E per molti versi trova grottesco perfino se stesso. Si accorge insomma che a furia di stare all’estero non sa più tanto bene cosa pensare.
Mio zio vive all’estero da moltissimi anni, e quindi parla l’italiano con un comico accento estero, incappando nei tipici errori degli stranieri che non sanno tanto bene la nostra lingua. Si direbbe che abbia davvero voltato pagina. Quando però la squadra di calcio del paese dove si trova gioca con la nostra lui tiene per quest’ultima. La moglie e la figlia tifano per quella del paese dove si trova, lui invece grida e si agita per quella italiana. Poi però se questa perde telefona ai parenti in Italia, e esprime il suo gaudio per il fatto che abbia trionfato la squadra del paese in cui vive. Vi abbiamo proprio dato una bella batosta!, si pavoneggia. Siete sempre più scarsi!, dice. Non si capisce bene per chi tenga davvero.
In effetti quello del calcio è il test in assoluto più affidabile. Io per esempio mi trovavo ormai da tanti anni in un paese, e mi dicevo che al punto in cui ero avrei fatto meglio a chiedere la nazionalità lì. Come una pianta che ormai non si può più trapiantare, o comunque non ne vale la pena. Poi mi è capitato di assistere alla finalissima dei mondiali di calcio tra la squadra di quel paese e la nostra. È stata la prima e ultima partita a calcio alla quale abbia mai assistito, quindi me la ricordo bene. Mia moglie e gli altri tenevano per la loro squadra, e anch’io davo per scontato che avrei tifato per quella. E invece mi accorgevo con costernazione che i giocatori di quella formazione mi stavano antipatici. Mentre quelli della nostra mi parevano simpaticissimi. Molti avevano tratti somatici africani, esattamente come molti loro avversari, ma mi sembrava che avessero pur sempre un certo qual che, una grazia, che mancava ai contendenti. Più passava il tempo più mi incanaglivo a favore della nostra squadra. Allora ho capito che ero un italiano, lo sarei sempre stato. Ho divorziato quasi subito.
(Immagine: Ricardo Ponce, N/T (478) / 2000, tecnica mista, 35 x 26 inch)
In effetti io domando spesso ai miei connazionali che esaltano il Paese di Bengodi dove vivono: “com’è che quando c’è la possibilità di tornare fate di tutto e di più?” E mi rispondono sempre: “ah, non io, io non tornerei mai.” E l’uso del verbo la dice lunga.
(mi è dispiaciuto di non esser potuta venire alla Bonardi)
Ho molto apprezzato la manera tenera e divertita che ha Giacomo Sartori per analizzare il sentimento di essere o no essere un’italiano all’estero attraverso la voce del narratore. La punta di umorismo per evocare la cucina. Questo nuovo capitolo di Autismi mi parla di manera intima. Il narratore parla del suo segno zodiacale(cancro ?)non ama il cambiamento, lo sradicamento. Ama essere rassicurato.
Ci sono due movimenti: il desiderio di fuggire nel paese d’adozione e la paura di lasciare una terra familiare.
Il narratore non evoca la passione per il paese di fuga. E’ forse si sente il dolore di un paese dietro le spalle, invisibile: si frammenta in ricordi.
L’ultimo brano sul calcio mi ha fatto ben ridere ( è la famosa partita di luglio 2007, credo?)
@ véro
no, toraccio (ma questo io, non la voce narrante, che non me lo ha rivelato; forse però anche lui)
la partita mi sa che è Italia-Francia (98?; io di calcio sono un disastro)
Grazie per la risposta e il mistero che rimane tra narratore e scrittore.
Non so che dire, perché di calcio sono anch’io un disastro.
Il narratore ha qualche somiglianza con mio fratello che va pazzo per il
calcio a punto che dopo la famosa partita Francia-Italia non ha parlato
una giornata con il suo amico Giovanni di origine italiana, e puro Giovanni
faciava il broncio. Mi sembrava comico che due amici non si parlino per
una partita di calcio :-)
Vivendo all’estero, in Germania, non in Francia – che la faccenda della partita di calcio verta sulla finale dei mondiali è chiaro dalla miscela di estero e calcio – ho apprezzato moltissimo il pezzo. Complimenti soprattutto lo stile neutro che rende molto bene lo stoicismo con cui la voce narrante sopporta e vive rinunciando ad interpretare tutto ciò che le capita intorno limitandosi a una registrazione dei fatti. I risultati comici che risultano dalla lettura sono davvero interessanti.
Mi permetto, a puro titolo di curiosità, di segnalarti qualche mia impressione qui, travestita da farsa (al moderatore: se contro la netiquette di NI, togliete il link) http://tempodolce.splinder.com/post/21935582/Notiziario+da+Karlsruhe%2C+03.09. Eliminata la componente macchiettistica, molte situazioni si somigliano. Sullo stile invece: ehm…
Se alcune caratteristiche dell’italiano all’estero che descrivi sono generali, nella mia esperienza alcune dipendono invece dall’attraversamento del confine di mentalità latino-tedesca. So che sei un trentino e che quindi conosci molto bene i problemi di convivenza fra le culture italiana e tedesca: abbi quindi pazienza con me che sono nato lombardo. Eccezionale anche le situazioni sul cibo, ma soprattutto sul ritorno in patria, che condivido.
Avendo vissuto io alcune varianti di stuazioni legate allo specifico tedesco, sarebbe per me interessante confrontare un’esperienza come la tua con quella di un italiano in Spagna per osservarne le corrispondenze e le differenze e trarne uno specifico di italiano all’estero in un paese di lingua romanza.
Una curiosità: a me pare che, fra gli stranieri – europei: spagnoli, italiani, francesi – che nel mio caso decidono di fermarsi in Germania, quelli che paiono avere le possibilità migliori di radicarsi sono quelli con la mentalità più simile a quella del paese d’arrivo, o meglio: sono quelli che soffrono di meno il salto culturale.
Altri, più fragili, non lo sopportano, e fuggono anche abbandonando stipendi che non otterranno più nel paese d’origine. Mi riferisco qui alla nuova ondata di emigrazione di “cervellodopera” degli ultimi anni; l’emigrazione storica (quella del Sud, per intenderci) meriterebbe invece tutta un’altra considerazione. Si ascoltano, da qui, storie davvero toccanti che gli anni e i matrimoni misti non hanno mai davvero risolto.
la pendolarità affettiva rimane. Accade la stessa cosa anche per un’esperienza francese, o la mentalità più simile – latina, in senso lato – lenisce l’effetto?
Concludo facendoti i complimenti per il tuo autismo “Il mio primo editore”. Davvero spassoso. Appena riesco, leggerò il tuo libro.