Il mondo di Fiorino
di Antonio Sparzani
Era stata un’estate passata a giocare ai pirati di Mompracem intorno alla vasca del bucato, al piano terra della casa di Ernesto, in mezzo a un vasto cortile di cemento, senza erba, che circondava tutta la casa. Erano tre, quell’estate. Con Fiorino ed Ernesto veniva quasi sempre anche un ragazzo dagli occhi un po’ persi, che tutti chiamavano Susa, Fiorino non capì mai perché, se fosse cioè il suo vero nome o qualche appellativo inventato dalla fantasia degli amici. Tanto più che intorno a Susa circolavano delle dicerie bizzarre, a proposito di sue strane e passate malattie, connesse con quel mondo degli organi sessuali, di cui così poco era ancora dato sapere. Fiorino non sapeva neppure dove abitasse e nulla della sua famiglia; era solo un ragazzotto alto e biondo con i capelli a spazzola e la voce già un po’ roca. Faceva parte comunque di quegli amici con cui si poteva “fare a spade”. Sì, a spade, perché Fiorino aveva imparato a tagliare col suo coltellino dei rami di nocciolo del vicino boschetto, a intagliare un manico, che sembrasse cesellato, ad asportare la corteccia del ramo e a farne appunto una spada. Lui ed Ernesto avevano preso qualche lezione di scherma negli ultimi mesi, da un maestro che faceva il vetraio a San Bruno, e mettevano alla prova quell’arte nei vicoli intorno alla casa di Ernesto, vantando naturalmente una grande superiorità nei confronti dei vari ragazzetti che si cimentavano a battersi con loro. Susa era bravo, era dell’età di Ernesto, ed era stato un po’ alla volta aggregato ai due amici.
Si muovevano intorno, e dentro, alla vasca di cemento, vero praho malese, e Ernesto faceva Sandokan e dettava le leggi dell’isola salgariana. Il più delle volte Susa impersonava Yanez, l’ineffabile portoghese, compagno di avventure e di mollezze. Fiorino, che era il più giovane, faceva il “fido” Tremal-Naik. A Fiorino non piaceva del tutto questo ruolo sempre subalterno, ma c’era da considerare che l’accettarlo gli permetteva di giocare sempre con i più grandi. Passavano pomeriggi di arrembaggi e di riposi all’ombra fresca dei maestosi alberi dell’isola dei pirati, di vendetta sul perfido baronetto di Sarawak che perseguitava Sandokan e di navigazione sugli agitati mari della Sonda. Non si andava al mare quell’estate, Fiorino stava volentieri fuori di casa, la sua mamma era morta da non molto e in casa aleggiava una non eludibile tristezza che si trascinava tra visite al cimitero e lettere listate a lutto.
Nel cuore di Fiorino il fiore dell’amicizia fioriva ormai rigogliosamente: egli trovava in quel nuovo tipo di relazione una possibilità di intensità emotiva, bella e piena. Un giorno Ernesto era venuto, come altre volte, a trovarlo a casa ed erano stati tranquilli nella cameretta da letto di Fiorino, lontani dagli sguardi e dalle orecchie indiscrete dei famigliari. Non chiacchieravano tutto il tempo, solo ogni tanto, e questo piaceva molto a Fiorino, prendevano entrambi un libro da leggere e si immergeva ognuno nelle sue pagine e nei suoi pensieri. E quel giorno, mentre Ernesto leggeva quietamente seduto sul tappeto che era steso sul lato del lettuccio di Fiorino, questi gli aveva accarezzato lentamente e lungamente i capelli, lisci e tirati indietro, con una grande tranquilla emozione nel cuore; rendendosi conto che si trattava di un gesto inusuale, e forse dai contorni arditi; Fiorino provò tuttavia una grande gioia in quel gesto, e ancora di più gli piacque che Ernesto non reagisse in alcun modo, se non accettando tranquillamente la carezza e continuando a leggere. L’emozione crebbe e passò poi, depositando nell’animo di Fiorino una qualche nuova consapevolezza e autonomia di pensieri; Ernesto faceva sempre il superiore, ma vi erano dei momenti magici nei quali sembrava si attingesse ad una vera parità di fondo.
Venne l’autunno e Fiorino iniziò la seconda media, a San Bruno, il paesotto adagiato sulla pancia del grande lago. La sua sezione, nella scuola col grande cortile, era per lo più popolata dai “collegiali”; cioè da quei ragazzi, grandi e piccoli, che venivano spediti a San Bruno dalle famiglie di tutta la provincia, e anche da province contigue, a frequentare le scuole di San Bruno e in particolare poi il famoso classico, allora l’unico oltre quello del capoluogo. I collegiali costituivano un campionario di ragazzi di tipo assai vario, già diversi dai sambrunesi, e Fiorino, timido ma ansioso di relazioni, li scrutava con interesse.
Era un’epoca di pensieri in formazione: fermentavano entusiasmi e malinconie.
Fiorino cominciò a costruire una certa familiarità con un gruppo di collegiali, già forti della relazione che veniva loro dalla vita condivisa nel collegio e volle poco alla volta inserirsi in quell’intimità che già un po’ invidiava, cercando di frequentare i ragazzi anche oltre le ore di scuola, andando a trovarli, il che si poteva fare con qualche opportuno permesso, all’interno del convitto. Franco era quello che all’inizio lo attirava di più, forse perché sembrava tener fede al suo nome, aperto, con un sorriso che non ingannava, bruno e con la voce squillante. Amava, come Fiorino, i romanzi di Urania, quelli che uscivano settimanalmente e che Fiorino cominciava allora a frequentare; la fantascienza non conosceva confini di stelle e di tecnologie e Franco inoltre possedeva alcuni dei primi volumi della serie, di quelli che Fiorino, vedendone il titolo elencato nei volumi successivi, avrebbe tanto voluto leggere, mentre mai avrebbe osato ordinare un “arretrato”. Franco abitava in un paesino del mantovano e Fiorino non poteva certo in alcun modo andare a trovarlo d’estate, quando la scuola era chiusa, perciò occorreva approfittare dei giorni di scuola per praticare la relazione.
Tra gli altri vi era però Giancarlo, meno franco e aperto del primo, ma con un modo, uno sguardo e uno stile che lasciavano Fiorino senza fiato. Era avanti, Giancarlo, sapeva molte cose; fu lui che un giorno, chiacchierando un po’ alla corsara nel cortile della scuola durante l’intervallo, fece capire d’un lampo a Fiorino come succede la faccenda del sesso tra uomo e donna, come un’intuizione che proveniva dal mettere insieme tante notizie sparse che stavano già – in quei tempi in cui l’educazione sessuale non era neppure remotamente immaginabile – nella testa di Fiorino, ma che improvvisamente si coagularono alle parole di Giancarlo. Incuteva, come tutte le persone con un qualche spessore, un misto di sentimenti e di reazioni, il timore reverenziale di fronte a chi sa come maneggiare certi argomenti e insieme il desiderio di stargli vicino per assorbire quella sua sicurezza calda. Ecco, era quella la differenza con Ernesto, così se la ragionava Fiorino, la sicurezza di Ernesto era fredda, la sua voce glaciale, con una sfumatura fanfaronesca, quando dettava le sue regole o enunciava le sue convinzioni, mentre Giancarlo aveva fervore nella voce, molta decisione, anche, sì, ma molta più capacità di coinvolgere e attirare.
Nell’attrezzatura mentale di Fiorino c’era una singolare capacità di tenere insieme diverse anime e di disporsi in modo diverso a seconda del suo interlocutore. I giri di discorsi adatti ad Ernesto non erano certamente quelli giusti per le confidenze con Giancarlo, ma questo a Fiorino non dispiaceva, era anzi contento di questa possibilità di differenti registri, sarebbe però stato assai imbarazzato della contemporanea presenza di due così diversi amici.
E amici andava detto, senza dubbio. Era quella parola quasi sacra ormai per Fiorino, che poteva venir proferita relativamente ad alcune persone soltanto, con piena consapevolezza. Durante l’estate appena trascorsa Fiorino e Franco s’erano scritti, e s’erano scambiati appunto qualche libro di fantascienza, ma quelle lettere erano in verità delle vere prove di intensa amicale relazione. Eran corse frasi di gran peso, come “il tuo migliore amico” che richiedevano un investimento emotivo e una convinzione grandi per le forze di un undicenne. E da allora quella parola aveva una risonanza unica nel cuore di Fiorino, e veniva amministrata e gestita con cura e con un qualche tremore.
Si andava al campo sportivo, qualche volta, con i collegiali, a giocare al pallone e a correre belli liberi; era un posto al di fuori del controllo delle autorità del collegio o della famiglia e si poteva parlare e scherzare liberamente anche su temi difficili. Si formavano gruppetti interni al gruppo degli amici di Fiorino, come ritualmente, e ci si scambiavano battute, ammiccamenti e qualche carezza. L’erba del campo era verde e spensierata, le ragazze ancora non c’entravano, se non in qualche prima barzelletta, non era ancora il momento, era una storia di ragazzini.
Venne il compleanno di Fiorino, era primavera e a casa si preparò uno spuntino per tutti gli amici che Fiorino aveva scelto; quella sì che era un’occasione difficile, perché come si poteva mettere insieme Ernesto con il gruppo dei collegiali, e con qualche altro compagno di scuola, senza creare delle dissonanze, delle scabrosità? Alla fine Fiorino risolse di invitare solo Giancarlo, dei collegiali, perché di lui non poteva proprio fare a meno. E così il papà e la zia prepararono il tè con le paste, e con lo strudel, che era il dolce preferito, e con la tovaglia bianca, nella sala con le sedie damascate; usarono anche il servizio di piatti e di tazzine buono, quello che non veniva usato che in rare occasioni, perché era un regalo di nozze dei genitori di Fiorino, e romperne anche un solo pezzo sarebbe sembrato assai grave. Qualche amico arrivò con un libro in regalo, Fiorino si schermiva, cercava di nascondere l’imbarazzo e la contentezza del ruolo di protagonista che per un giorno gli toccava.
Le occasioni in cui molti erano presenti erano le più favorevoli ad esaltare il tono un po’ spaccone di Ernesto, che, forte della sua più antica amicizia con Fiorino, cercava di accreditare un suo superiore potere.
E fu così che accadde.
Giancarlo disse una battuta ardita, con quel suo tono nobile e campagnolo insieme, con la sua bocca larga e sorridente e lo sguardo, appena beffardo, che non si abbassava. Anch’egli forse per testimoniare la sua recente ma forte amicizia. Ernesto non si lasciò sfuggire l’occasione per dirgli: “Stai attento che se fai ancora così, non ti invitiamo più”; e questo eccesso gli fu fatale.
Fiorino non ribatté subito, ma registrò in cuor suo la battuta come un atroce affronto e non perdonò. Il compleanno si concluse senza drammi e ognuno prese la strada di casa, ma Fiorino ripeteva con rabbia dentro di sé quelle parole, domandandosi come Ernesto avesse osato assumersi un’iniziativa del genere, come avesse potuto rivendicare un potere di decidere chi invitare e chi no, quando questo potere spettava evidentemente solo a lui, Fiorino.
L’anno scolastico era alla fine, c’era da lavorare e Fiorino poteva benissimo stare a casa al pomeriggio senza dover giustificare assenze ai richiami degli amici; andava raramente, e un po’ imbronciato, a trovare Ernesto nella sua casa con la vasca di cemento e cominciò a pretendere di impersonare almeno Yanez, ma il gioco ormai stancava.
Il padre di Fiorino, che vedeva da tempo di buon occhio l’amicizia con Ernesto, del cui padre egli pure era amico, si stupì sulle prime delle mutate abitudini del figlio, e un giorno decise di domandare a Fiorino ragione del suo nuovo comportamento; qualche lamentela doveva essergli arrivata dalla casa di Ernesto. Fiorino fu all’inizio reticente, ma alla fine decise di spiegare l’orrore che Ernesto aveva commesso, dato che a lui era chiarissimo che si trattava di un gesto imperdonabile. Riferì la frase, ma come era forse ovvio, il padre minimizzò, desideroso evidentemente di indurre il figlio ad una ragionevole rappacificazione, e così Fiorino cominciò a pensare che talvolta i genitori non si rendono conto dell’importanza delle parole..
Ma il momento cruciale arrivò quando fu Ernesto che si decise ad entrare in argomento. Non fu facile, ma le difficoltà si affrontano ad ogni età. Ernesto dovette farsi forza e lasciar finalmente vedere che l’amicizia di Fiorino contava più di quanto non apparisse dalle battute che talvolta lasciava andare con leggerezza. Una volta che Fiorino era a Ferrara dagli zii, cosa che accadeva quasi regolarmente d’estate, si scrissero qualche lettera, e in una lettera di poco precedente al ritorno di Fiorino a casa, Ernesto scrisse di saperglielo dire, quando sarebbe tornato, che lui avrebbe esposto la bandiera gialla, segno di scarlattina a bordo; all’inizio Fiorino neppure aveva capito una simile battuta, un po’ ricercata, e poi comunque gli era parsa spiacevole. Ora si era creata una di quelle situazioni in cui chi ha sempre dimostrato un atteggiamento superiore, e che ha avuto oggettivamente un ruolo esternamente dominante nella relazione, doveva abbassarsi un poco, doveva metter fuori quella dose di subalternità che comunque ha e si tiene dentro. Ernesto chiese dunque a Fiorino, quasi bruscamente come mai aveva così rallentato le visite alla casa con la vasca di cemento e Fiorino rispose, andando a pescare in quella riserva di energia che è sempre a disposizione quando si è certi di avere un valido supporto emotivo. Ernesto non sospettava che si trattasse di quella frase; dapprima schernì, poi si schermì, minimizzando, molto toccato tuttavia dalla faccenda. Ernesto reagiva rabbiosamente nel vedere la possibilità di essere scalzato da quel parvenu provinciale dallo sguardo alto.
Non era, quella di Fiorino, un’età in cui si perdona facilmente, né, quella di Ernesto un’età in cui si accettano facilmente lezioni da un ragazzetto più giovane di due anni. Non fu una spiegazione risolutiva e costruttiva, fu rugginosa e scabra e lasciò tanto di non detto. L’amicizia si trascinò stancamente per mesi e mesi fino a logorarsi al punto che il vedersi una volta ogni tanto non faceva più male, ma neanche tanto bene.
Durante l’estate Fiorino tanto fece, che riuscì ad ottenere di andare un intero fine settimana a casa di Giancarlo, nella polverosa provincia.
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E’ un racconto sensibile. Parla del delizio del gioco nell’infanzia, sotto cielo marino, con personaggi che fanno di una vasca un’isola, di un amico al nome quasi femminile, un pirata. Bellissimo il teatro creato, con una parola che mescola realtà e illusione, dedicando il gioco alla fede nel racconto.
Uno scrittore non è mai partito dalla sua infanzia e della sua lingua d’esplorazione.
Ho amato il brano che descrive il gesto di accarezzare i capelli, in silenzio
l’emozione si dilata.
Avevo scritto un commento che è partito. Meglio per me, visto gli errori di lingua.
Cerco a rammentare quello che ho scritto.
Mi sembra essere partita del luogo reale e immaginario.
Affascinante: una vasca nasconde un’ isola, con il gioco l’isola diventa cosi grande che invade il cielo, il giardino. Susa dal nome quasi femminile si maschera in pirata, il pirata diventa cosi reale che si perde il volto dell’amico.
Mi è piaciuto la delicatezza del brano sulla carezza dei capelli.
Gesto descritto nel silenzio del fervore, in un silenzio cosi grande che diventa tutto il respiro.
Il scrittore è sempre nella fuga dell’infanzia, si racconta ancora una vasca, un pirata, un’amicizia.
Chapeau Mr Sparz! Racconto di vera infanzia e più in là
effeffe
[…] (la prima puntata è qui.) […]