Gitanes sans Filtre

gitanes

Note e correspondances sulla Carmen di Bizet rappresentata alla Scala di Milano
di
Magda Mantecca (con una nota di Carlo Serra)

Il romanticismo dell’Europa del diciannovesimo secolo offre attraverso l’opera lo strumento con cui restituire alla società del tempo il sentire collettivo. Verdi e Rossini in Italia, piuttosto che Wagner in Germania o Bizet in Francia, esprimono in maniera territorialmente diversificata la capacità di rappresentazione di molteplici forme artistiche condensandole in una sola.
Bizet supera il senso tragico della morte wagneriana attraverso l’ironia di una figura emblematica ed eterna racchiudente in se diverse tipologie e caratteri umani quindi molteplicità nell’unità, che si ponge nei confronti della borghesia francese dell’epoca come oltraggio al compatto moralismo di maniera. Come rappresentarlo in modo che sia accettato dal pubblico di riferimento? Bizet trova l’espediente nell’esotismo, nella delocalizzazione di aspetti della natura umana esistenti ma sconvenienti come la sfrontatezza dell’erotismo e l’irriverenza verso il potere, in una figura topograficamente distanziata, che possa evocare tentazione ma al di fuori della comunità dei benpensanti .

L’Andalusia diventa l’immaginario ideale dove proiettare fantasie in cui il carattere della diversità trova accoglienza e terreno fertile. Carmen rappresenta allora la libertà sognata, la voluttà immaginata, la trasgressione , l’eterodossia . Carmen è figura in cui Bizet ripone il concetto di alterità, differenza, molteplicità , nomadismo e imprevedibilità, canoni teoretici ed estetici inseguiti ma temuti dalla cultura ottocentesca.
Leggere i luoghi diventa allora leggere l’arte attraverso i segni in essi lasciati.
Percorrendo il Guadalquivir alla ricerca di Carmen in territorio andaluso si sente il calore della musicalità arabeggiante, la bellezza delle architetture islamiche, l’odore delle spezie e il profumo dell’archetipa gitana che tutt’oggi si aggira tra le vie di Siviglia divinando futuro e ingannando chi lo spera .
Proprio qui appare, inaspettata, la struttura imponente e preziosa della reale fabbrica del tabacco, edificio reso famoso prima dalla novella “Carmen” di Marimee’ e poi da Bizet attraverso l’opera omonima; è proprio qui che per un tempo infinito hanno lavorato migliaia di persone i cui destini ,reali, si sovrappongono in maniera speculare a quello, immaginato, di Carmen .
La severa vastità del luogo permette l’emergere della magmatica singolarità della protagonista. Ritroviamo queste ambientazioni nella rappresentazione meneghina di questi giorni alla Scala attraverso una scenografia parzialmente coerente e aderente. Le assonanze dei luoghi si mutano pero’ in dissonanze nel discostarsi dei canoni stilistici dall’estetica dell’autore spostando lo scenario dall’Andalusia alla Sicilia, da una cultura intrisa di islamismo verso quella della Magna Grecia .
Modi di essere e sentire totalmente diversi, perchè l’estemporaneità andalusa, fatta di eccessi, verbosità e passionalità riversate con fierezza e copiosità in ogni forma espressiva, viene mortificata in un’ ambientazione fortemente tipicizzata dall’insularità sicula. Coppie opposte di canoni comportamentali come omertà – verbosità, estemporaneità – premeditazione, località – globalità, timore-sfrontatezza ci raccontano l’incompatibilità topografica, culturale ed estetica di queste ambientazioni entrambe mediterranee ma profondamente diverse: l’una originale ed autentica, l’altra sovrapposta e mutuata. L’eccesso interpretativo tradisce l’opera originaria, trasfigurando Siviglia in Palermo, Carmen in Cavalleria rusticana. E’ una regia quantitativamente sottrattiva, qualitativamente mistificante, perchè scambia la sensibilità araba d’occidente dell’ambientazione immaginata dall’autore con la tragicità greca rivista in forma contemporanea.
La trasfigurazione che ne emerge esprime un modo di sentire l’opera in chiave teatrale che potrebbe essere applicata a qualsiasi altra rappresentazione perchè ne sottrae i tratti peculiari e distintivi.
il senso di questa operazione potrebbe essere rendere la Carmen di Biset un archetipo delocalizzato e metaforico ma se cosi’ fosse dovrebbe essere sottratto anche alla sicilianità.
Quindi così com’è è deterritorializzato in maniera distorta e non correttamente localizzabile pertanto non possiamo neppure dire che la chiave metaforica sia sufficientemente esaustiva per rispondere ad un altro canone stilistico che potrebbe essere presente nella letteratura andalusa ed è la donna assoluta di Garcia Lorca.

Il verismo verghiano è una chiave di lettura che non riesce ad esprimere la potenza dell’alterità di Carmen, l’eterodossia, la trasognanza, l’incosciente lucidità ma sopratutto non esprime quello per cui l’autore l’ha creata: la possibilità attraverso l’esotismo di un oriente familiare di rappresentare pulsioni legittime ma inconfessabili. Lascio il palco compiaciuta per la sublime performance dei due protagonisti ma dispiaciuta per l’eccesso interpretativo, per il tradimento subito da Carmen e sopratutto da Bizet

Carlo Serra
Apprezzo moltissimo queste osservazioni, ma mi viene un piccolo dubbio:siamo sicuri che Bizet, aldilà di quanto Nietzsche avesse investito su di lui, vedesse nell’Andalusia un carattere così ben determinato? Il rapporto suono – parola in Carmen è infatti pieno di ambiguità, Carmen stessa è mimetica, mentre l’idea della cultura gitana è, di per sè, un valore simbolico spurio, un ‘idea di esotismo, più che una situazione socialmente determinata.
In questi anni abbiamo visto regie imbarazzanti, tetre, che tradivano molto di più il portato di un’opera, senza che nessuno si sia scandalizzato. Pensa a quel Tristano al Gerovital che appiattiva, correttamente dal proprio punto di vista, tutta la tensione mitica wagneriana, in nome di una ritualità poco epica, e autoreferenziale. L’idea di sacrificio desacralizzato è debole. Non voglio dire che questa sia la migior Carmen che si possa vedere oggi, ma credo che una filologia dell’immaginario, rischi di bloccarsi subito, rispetto al tessuto di piccoli e grandi tradimenti che la regia di un’opera può mettere in gioco (Bob Wilson Docet). Certo, alcun soluzioni scenografiche lasciavano perplesso anche me, ma insomma, abbiamo visto di molto peggio, non trovi? Stammi bene, e grazie per avermi fatto parte delle tue idee.

Magda Mantecca
Secondo me l’atto intepretativo deve rispettare l’autore diversamente è atto creativo e non ha bisogno di letture terze. Per questo interpretare necessita un doppio bagaglio di competenze, le une di conoscenza le altre di rappresentazione aderente e contemporaneamente personale, quindi un doppio piano ontologico-estetico, esterno e contemporanemaente interno. L’equilibrio tra le due è la sapienza del regista in questo caso. Infatti io non condivido Zeffirelli, che sostiene sciocchezze come quando dice che Emma Dante sia blasfema, come se l’unica cosa importante fosse quella. in realtà l’aderenza completa filologica consente poi un completamento successivo in base alla propria sensibilità, ma la comprensione originaria a me pare una conditio sine qua non per poter superarla. È un dato che richiede la capacità di accoglimento prima di ogni superamento….la mia è una posizione come dire…..di onestà intellettuale e di rispetto dell’aura originaria, come direbbe Benjamin…..sono sicura che capisci il mio scrupolo.

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4 Commenti

  1. che buone che erano le Gitanes sans filtre, soprattutto quelle papier-maïs, le mie predilette quando fumavo, altri tempi. Ma a parte ciò, trovo molto interessante questo tentativo d’interpretazione dello spirito di Carmen, più difficilmente di altri inquadrabile nelle maglie di una definizione chiara e distinta, come tutte le cose interessanti del mondo, del resto. Grazie Furlen..

  2. Forse non bisognerebbe vedere le opere in televisione. I cantanti lirici lavorano in teatro e hanno una gestualità enfatica, fatta per il pubblico in sala: inquadrati in primo piano diventano ridicoli. Poi, si sa, tenori e baritoni pesano un quintale. Soprani e mezzosoprani sono barili di cellulite. La Carmen che la sera di sant’Ambrogio ha simulato di scoparsi don José per convincerlo a non rientrare in caserma, risultava patetica: davanti a una simile megera, chiunque sarebbe scappato a gambe levate.
    Purtroppo questo è un guaio inevitabile nell’opera lirica. Pavarotti, con la sua stazza, era improbabile nella parte di Nemorino (o di Calaf, o di Radamès). Ma era Pavarotti! Una voce fantastica, una pronuncia perfetta e una fama tale che nessun regista si sarebbe azzardato a metterlo in situazioni grottesche. Ma se i cantanti non sono delle star, i registi si scatenano. L’azione della Carmen si svolge a Siviglia? E io la sposto in una specie di Sicilia, o di Grecia mitica, o di Africa nera un po’ granguignolesca. Carmen è una gitana? Chi se ne frega. Per la regista è la selvaggia che danza al termine di Cuore di tenebra. La liberté énivrante che promette a don José non è quella nomade e stralunata degli zingari, ma quella feroce di chi regredisce all’età della pietra.
    Il risultato non è la Carmen di Bizet e neanche quella di Mérimée. È un’altra cosa, che potrà anche essere geniale (come si affannano a giurare critici e autorità presenti), ma che più probabilmente è una merenda fatta coi cavoli (come ha decretato il loggione). Una volta tanto, Umberto Eco se ne è uscito con un commento azzeccato: “Bella questa Traviata!” ha detto. Aveva ragione. È quantomeno dubbio che si possa ancora parlare di interpretazione se il testo dice una cosa e il regista gliene fa dire un’altra. La domanda che sorge spontanea da queste messe in scena è: se il regista è davvero un genio, perché non scrive un testo suo? Possibile che sappia esprimersi solo violentando l’opera altrui? Ma è una domanda che resta senza risposta.
    Dice il critico: le regie fedeli al testo le fa già Zeffirelli. Dagli altri registi mi aspetto idee nuove e geniali. Del resto, i pittori del Quattrocento non dipingevano santi e Madonne in abiti contemporanei? Gli scrittori latini non praticavano la “contaminatio”?
    Sarà. Ma una cosa è la “contaminatio”, un’altra è mischiare oves et boves. Apocalipse now prende spunto da Conrad, ma non lo trasporta in mezzo alla guerra del Vietnam per puro sfizio: gli aggiunge peso specifico (ricordate? un Martin Sheen poco convinto va a uccidere un Marlon Brando ribelle e si sente dire: “Sei solo un fattorino mandato a riscuotere i sospesi!”). Conrad si era limitato a far intravedere che la distanza fra l’uomo civile e il selvaggio, fra Jekyll e Hyde, non è mai definitivamente acquisita. Inserendo la storia nel quadro di una guerra, constatiamo che la civiltà è più facciata che sostanza e, nel suo pieno significato, è un sogno irraggiungibile. “Contaminare” Cuore di tenebra ha prodotto una cosa nuova, così come Virgilio “contaminando” l’Odissea ha creato l’Eneide.
    Ma l’apertura della Scala 2009 ha toppato. Perché stravolgere la Carmen per darle a tutti i costi una dimensione mitica che non è la sua? Perché trasformare la tragedia del maschio pirla e della femmina scriteriata in un autodafé della Libertà immolata dal Destino? Non è questo il senso del libretto e della musica. Basta leggere, basta ascoltare, per toccare con mano che l’atmosfera è tutt’altra, più leggera, più francese. Anche se ogni giorno succedono fatti di cronaca simili, Carmen non è una storia vissuta dal di dentro: è un apologo controrivoluzionario inventato per ammonire i bravi ragazzi: fatevi furbi, divertitevi senza esagerare.
    Macché. Parole al vento. Ogni anno legioni di registi si impadroniscono dei classici del teatro, trattano i testi come se fossero stampati su carta igienica, e distorcono le opere in modo che dicano di tutto e di più, purché non sia ciò che volevano dire gli autori.
    Torniamo alla prima della Scala. Aggiungiamo a una regia “creativa” una concertazione discutibile, e siamo a cavallo. Sono pronto a riconoscere che, per certi autori, il modo di dirigere di Barenboim e di tanti altri direttori è valido e adeguato. Ma non per tutti. Carmen non è Salomé o Pelléas et Melisande. La musica di Bizet è di grana grossa e scade spesso su effetti bandistici. Se il direttore non tiene saldamente in primo piano il filo della melodia, tutto si affloscia in una pappa. Certo, puntare unicamente sulla melodia significa scadere nel facilone. Certo, trovare il giusto mix tra rigore e teatralità non è semplice. Questa è la difficoltà di un’opera dal libretto risaputo (la solita storia del bravo ragazzo rovinato dalla donna fatale), troppo pieno di folklore andaluso (toreri, gitani e contrabbandieri) e di strappamenti di cuore (l’inguaribilmente melensa Micaela). Ci vuole personalità, nel direttore, nell’orchestra e nella compagnia di canto.
    Ma dirigere la Carmen come se fosse una partitura di Debussy, sottolineare i contrappunti invece di usarli nella loro funzione, far prevalere l’armonia sulla melodia, significa stendere un velo grigio su tutti e quattro gli atti. La musica perde i pieni e i vuoti, le svolte tragiche non hanno più risalto, perfino il toreador diventa una cosa qualunque.
    Quanto alla protagonista dal nome impronunciabile, voglio sperare che l’audio della tv non le abbia reso giustizia: io non ho sentito affatto la “voce stupenda” di cui hanno straparlato i soliti noti. Per dirla tutta, la habanera mi è sembrata lamentosa e niente affatto sexy. La seguidilla è stata un po’ meglio, ma niente di che. (Ah, che nostalgia di Teresa Berganza!).
    Comunque si vede che l’audio faceva scherzi strani perché invece don José mi è sembrato piuttosto in gamba, e meno male che c’era lui! Quanto a Escamillo, la voce non era male; peccato che ogni tanto dava l’impressione di andarsene per conto suo, mentre l’orchestra andava da un’altra parte.
    Nonostante ciò, stampa e telegiornali erano d’accordo fin dal giorno prima: a meno che i cantanti non avessero steccato come cani che abbaiano alla luna, bisognava gridare al miracolo, al sublime livello artistico della Scala, al primato morale e civile dell’Italia, e via farneticando. Per fortuna c’è ancora il loggione.

  3. e melo mane che non ti “intendevi” di opera…
    bravo riccà, una nota discutibile o meno, ma tenuta alta e senza stecche
    effeffe

  4. Forse non siamo sufficientemente consapevoli di essere i depositari della maggiore memoria artistica internazionale. Tutto quanto si riferisce all’arte ha matrici italiane ma questo sembra insufficiente a formare un pubblico e sopratutto una classe dirigente scevra da corporativismi e necessità di appartenenre a dei clan…una forma tribale di gestire tutto cio’ che è pubblico, cultura compresa.
    Difendere la tradizione in maniera personificata con tale Zeffirelli è un atto di subordinazione gregaria, come del resto difendere l’innovazione personificata in Dante( non il letterato) è altrettanto becero. Infatti sul palco abbiamo visto nepotismi come Il marito della regista nella parte del prete, il popolo delle comparse totalmente preso dai conterranei siculi, e via di questo passo. l’insularità è una categoria dello spirtito sia che essa corrisponda ad una reale connotazione geografica, sia che venga costruita arbitrariamente attorno ad una pianura di per se aperta, come la padana…..mentalità arcaiche e tribali da cui emergono solo lati sottrattivi che descrivono ontologie negati.
    E’ ammirevole l’intenzione di elevare e sublimare un’opera d’arte attraverso un processo di astrazione, ma in questo caso non è affatto riuscito per i motivi che abbimo descritto. Rimane dunque questa possibilità del tutto lecita e auspicabile che richiede pero’ una grandissima sensibilità e conoscenza che possa permettere di esprimere in una sintesi simbolica tutto il processo filologico e tutta la capictà di rivisitazione. Prospettiva molto ambiziosa.
    Altra questione è rendere i teatri italiani luoghi dove tutti possano apprezzare le tante forme artistiche…impossibile se il pubblico è in maggioranza di abbonati over 70 annoiati e disinteressati e se alle prime vediamo geni come Valeria Marini anzichè culturi della musica.

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