A un amico: per Boris Mikhailovič Hoffman
di Giovanni Catelli
Ci siamo detti do vstreči e do skorovo, l’ultima volta, ricorda, Monsieur Boris?
Mi ha voluto accompagnare, attraverso la breve serra del cortile, sino alla soglia del Boulevard, per un po’ d’aria fresca, per uscire, da quella navicella colma di libri e di par ole, che riceve il suo silenzio dalle vie quiete del retro, sospese in un’eterna provincia, prima della grande luce di Rue Gay-Lussac.
Parlavamo di Kiev, ne sono certo, e di un suo trascorso viaggio, attraverso la memoria ed il tempo, incontro al presente, passeggero, e all’avvenire che non cessa, nella nostra speranza, di ricongiungersi al passato, e ricreare quasi un cerchio, magico, che spieghi, che giustifichi, a riscuotere ogni breve, lucente moneta del ricordo, a riscattare ogni gesto che rimanga, nel vago limbo dell’attesa, e della sua domanda senza voce; ci siamo attardati qualche breve minuto a scherzare, in russo, per il puro piacere dell’istante, nella pausa sottratta, preziosa, nella luce serena, immobile, delle vetrate spioventi, ci siamo stretti la mano come a rivederci di lì a poco, per nuove notizie, racconti, promesse di libri, annunci di fortuna: sì, ci siamo detti do vstreči e do skorovo, senza precisare il luogo, il giorno, la stagione, così, senza pensare, nella certezza lieta del momento, nell’energia primaverile del futuro che s’apriva.
Sono tornato a Parigi, con l’animo leggero, e dalla Rue Cujas contavo, come sempre, di salire alla fontana, ed alla vasta fuga del giardino, sino a quel portone quieto, e solido, a respingere l’ondata minacciosa della vita.
Ero alla Porte de Versailles quel giorno, già sorpreso dalla folla, e dall’immenso gravitare dei libri, nell’inquieto padiglione che rimescola le voci della fiera, mi sperdevo in un chiaro labirinto di scaffali, provvisorio argine ai rumori, alla furia delle cose, ho raccolto una rivista che annunciava edizioni e novità, senza sapere, neppure da lontano immaginare: solo un titolo, quattro parole, nere sul fondo bianco della pagina: Pour saluer Boris Mikhailovič; ogni cosa intorno è sfumata in un’opaca inconsistenza, lo sguardo ha cercato la fuga in un equivoco, la salvezza in un commiato di lavoro, un’amichevole separazione: no, era l’infinita separazione, il commiato senza riparo, rimedio, eccezione; già l’istante del ricordo, oltre il distacco, una zona immobile, deserta, ove fermarsi, senza poter tornare, ma senza volere allontanarsi, nel vuoto spento del futuro.
Era lì, la suprema irrisione della sorte, il gioco di prestigio del nulla, era tutto, e di nuovo intorno a me s’addensavano i rumori, le voci, gli annunci di vane conferenze, un vasto tuono che avvolgeva i corpi dei viventi, le cose immobili, e il sorriso meccanico della ragazza che diceva, prenda pure con sé la rivista, è per lei. Già, per me, soltanto, negli immensi padiglioni della fiera, la mia mano era scesa, ignara e certa, su quei fogli, aveva subito indagato quelle pagine, con cieca decisione: ora capivo, d’improvviso, quelle lame di freddo, la mattina, sull’immenso boulevard che raccoglieva, i dispersi venti dell’inverno, la mia stanchezza dopo il treno, la pigra decisione di scendere in metrò, e rimandare la visita, quasi un confine di gelo già isolasse quelle stanze, affondasse tutti senza rimedio nella vita, disperdesse l’ultima occasione dell’amicizia e del conforto.
Ho guardato l’orologio, ho sentito la geometria meccanica delle cose, il suo stridore inafferrabile, la pallida morsa invincibile, di minuscoli aghi su di noi, e la stretta del tempo, fluida come il respiro, invisibile dentro di noi, attorno a noi, preparata a soffocarci, a chiuderci la gola nelle sue dita di fiato.
Ho visto le lancette, ho guardato la fotografia: quali ore liete non abbiamo saputo di avere, Boris, quali ore liete avremmo ancora voluto raccontarci: chissà tra noi, ora, chi vede più lontano, chi davvero ricorda: forse avevamo ragione, quel giorno, come sempre eravamo sinceri: do vstreči e do skorovo, Monsieur Boris.
A Parigi con Boris e Sylvie abbiamo passato molte serate di buona cucina e straordinari viaggi in ogni tipo di mondo e di lingua. In genere era lui a scarrozzarci con quel gagliardetto della fiorentina appeso allo specchietto retrovisore. Credo che il mondo dell’editoria lo avesse stancato da un po’ di tempo. Detto da uno dei più importanti agenti letterari in giro faceva un certo effetto. Due parole gli illuminavano gli occhi, Gerusalemme e Antognoni.
Grazie per avercelo ricordato.
effeffe