Prose da “Le birre sonnambule”

di Marco Papa

tra-le-nuvole

I

Il 16 febbraio 1964, giorno del mio nono compleanno, vengono a guardarmi dentro il letto, come se fossi il cinema.
Seguono ingordi il ballo delle pieghe delle lenzuola, l’affiorare il gonfiarsi e lo sparire di onde bianche e brune, di cavalloni. Dal soffitto pendono i miei nemici, come salumi messi a stagionare. Gli ospiti ci sbattono la testa e bestemmiano un po’; mi scuso per le sgarberie di quei brutti merluzzi dei miei nemici che mi odiano e trovano sempre il modo di guastare la festa. Con molta comprensione, gli ospiti ci passano sopra e si accendono un po’ di sigarette. Mi piacciono, perché sono giovani e vestiti bene, vellutati. Dentro il letto, io continuo a rotolarmi, in un goffo tentativo di seduzione.
“Mi avete portato dei regali? Volete suonare qualcosa?”. Hanno le mani vuote, nella testa non c’è musica per le mie orecchie.
Uno di loro, però, non se la sente di lasciarmi così: tira fuori un temperino e si mette a incidere un pomello del mio letto. Io lo seguo con gli occhi, mentre il legno perde la buccia e prende un viso peloso e zannuto. “Lo sai che cosa è questo?”. Non lo so. “È un tricheco. Buona notte!”.

II

Il 25 febbraio 1964 decido di riempire il quaderno di mele. Come nel magazzino di un bravo contadino, faccio le parti: quelle cattive alle bestie, quelle più mature per la marmellata, quelle più belle al mercato, quelle rosse nel vassoio, le altre dentro la torta.
Mi si avvicina un porcellino che vuol fare colazione. Se ne do un paio al porcellino, quante ne restano per me? Mi accorgo adesso che il conto non potrà mai riuscirmi, perché le mele si sono fatte confuse. Vediamo vediamo: faccio l’incantesimo e, con l’aiuto della luna, il mio problema prenderà forma. La luna modella i problemi come se fossero di creta e leva tutti gli errori, li leviga bene: ne vengono fuori belli puliti come gingilli e sono la festa dei maestri. Così piglio il quaderno e lo seppellisco sottoterra, nell’orto. Intanto me ne vado a letto bello bello, con la massima tranquillità. Prima di addormentarmi lego in un mazzo i miei nemici ciondolanti, perché nel buio sbattono l’uno contro l’altro e, se entra poco poco un po’ di vento, qualcuno, magari, cade. Senza dire che, venissero a trovarmi gli amici giovani e ben vestiti, ci incappano un’altra volta di testa e si rompono.

III

L’8 marzo 1964, a casa di Ricky, nella sua bella enciclopedia grande e lunga come un treno, ho letto il nome della cosa da cui esce l’urina delle donne: lavùlva. Ricky dice che sarebbe “il cazzo delle donne”, ma io penso che lui si sbaglia. Lavùlva mi sembra che, da piccolo, l’ho vista volare: si tratta di quei batuffoli bianchi che somigliano alle piume ed escono pure, infatti, dai cuscini. Il cielo è pieno di lavùlva. Il cazzo, invece, io non l’ho mai visto volare. Credo che le donne, per non farsela scappare via, si appiccichino lavùlva addosso con la colla.
Certo, per saperne di più, occorrerebbero delle illustrazioni precise e, sotto questo aspetto, l’enciclopedia di Ricky è cieca. Forse potrei chiedere ai mei giovani vellutati qualche figura, delle fotografie. Posso averne o non averne, ma sapranno, almeno, se ho ragioen o no. Sarò furbo: mi metterò a fare il mare sotto le coperte, come gli piace tanto. E può darsi che, per ricompensa, mi cantino pure qualcuna delle loro belle canzoni skiffle, dove ci sono gli alberi con le ali, i sottomarini, le ragazzuole, le birre sonnambule e mucchi di parole inventate.

XII

Il 13 giugno 1964 mi sveglio con la luminosa idea di scrivere un regolamento per tutti coloro che vengono in camera mia. In realtà ho letto in un libro che si usa, da qualche parte, questo genere di cose. Per esempio, scrivo che ci si deve togliere le scarpe come nel Giappone e sedersi dopo aver compiuto almeno cinque passi a piedi scalzi. A tali due regole aggiungo: ci si deve alzare ogni volta che si affaccia l’uccello del cucù se si è seduti, e ci si deve sedere se si è in piedi. Io penso che si debba seguire il criterio dell’equilibrio e del rispettare i turni, per mantenere l’ordine e la varietà.
Nel mio regolamento ci metterò che si deve sempre far parlare per primo il più vecchio e che non si possono dire più di trentacinque parole in fila. Meno di trentacinque parole si possono dire, ma più lentamente. E voglio che il Regolamento sia fatto come il Codice: Libri, Titoli, Capi, Sezioni e Paragrafi. Così si sta tranquilli perché è tutto nero su bianco e si possono ritrovare le cose, quando uno se le dimentica.
Le Leggi del Regolamento andranno in onda dalle otto della mattina alle otto della sera; il resto della giornata: libertà.

XIV

Il 10 luglio 1964, con Ricky, ci mettiamo alle Vite Parallele, o il Cambiaposto. Il gioco funziona così, ed è divertentissimo. Ci sediamo uno di fronte all’altro e si tira a sorte. Per esempio: esce il 30 ottobre 1961. Io dico dov’ero e che facevo il 30 ottobre 1961. Volendo si può concordare anche di dire l’ora. Poniamo che mi trovavo al cinema, dove si vedevano i Cavalieri della Maffia con la lingua nelle orecchie, ma io stavo sempre a guardare una ragazzina due file più avanti, con i capelli neri e un fiocchetto molto delicato. Ricky, invece, il 30 ottobre 1961 stava alla pista di pattinaggio. Allora si fa il raffronto con domande appropriate. Per esempio: che era il più felice, tra i due? oppure: avrei preferito il cinema chiuso con il film tutto inventato o la pista all’aperto, dove il mondo si sa che c’è, con l’aria e gli alberi? e Ricky che avrebbe fatto al posto mio, se gli fosse piaciuta la bimba bruna? ci si sarebbe messo a parlare? io avrei preferito pattinare sulle rotelle, come Ricky, o sul ghiaccio, tutto holiday on ice?
Queste sono le Vite Parallele, dove uno può scegliere una cosa o l’altra e intrecciare i desideri, come le dita, fra amici.

(da Le birre sonnambule, Aelia Laelia edizioni, 1986)

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3 Commenti

  1. non sta a me dirlo (lo avevo pubblicato con gli altri amici quando facevo, facevamo, Aelia Laelia): ma qusto di Marco era ed è un testo bellissimo, e si merita molte letture e molti commenti…

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