Mussolini, Bellocchio, e l’imbrigliata rappresentazione del male

di Giacomo Sartori

Mussolini_public_speaking_250In questo periodo sto leggendo la voluminosa e ottima biografia di Margherita Sarfatti scritta da Françoise Liffran, uscita da poco (Margherita Sarfatti, L’égérie du Duce, Seuil, pp. 758). Mi piace e mi avvince, ma avrei tanta voglia di prendere in mano, nei preziosi ritagli di tempo che ho per leggere, uno dei romanzi che mi fanno l’occhiolino dalla pila di libri in attesa di essere letti, e invece vado avanti stoicamente, so che andrò avanti fino alla fine (mi manca poco). Per senso civico, perché documentandomi per scrivere un mio romanzo ho capito quanto sia importante la storia del fascismo per capire qualcosa del presente.

Certo nemmeno la Sarfatti è un bel personaggio, certo il suo pervicace arrivismo, la sua sempre interessata intelligenza, i suoi ininterrotti intrighi, mettono un po’ a disagio, finiscono per dare un senso di capogiro. Ma quello che colpisce di più nella sua biografia è pur sempre l’assoluta e costante abiezione di Mussolini, con il quale la donna ha avuto una lunghissima relazione con risvolti fondamentali per la storia nazionale (il determinante sostegno finanziario, umano, ideologico, fornito dalla Sarfatti in alcuni periodi chiave del futuro dittatore, e più tardi il ruolo importante della stessa nelle vicende della cultura nazionale). Mussolini si è servito di lei (che cercava costantemente di trarne dei vantaggi, intendiamoci) per vent’anni, fino alla sua messa in disparte, e fino all’esilio, il giorno stesso dell’emanazione delle leggi razziali (era ebrea).

La turpitudine di Mussolini è presente in tutto il suo operato fin da ragazzo, fin dagli anni di emigrazione in Svizzera, e si manifesta in tutte le sue azioni, in tutte le sue scelte, in tutte le sue mosse politiche, in tutte i suoi rapporti con le persone e con le numerosissime donne (per quelle più importanti: G. Bocchini Padiglione, L’harem del Duce, Mursia). È un male che si allontana dalla visione che tendiamo a avere oggi – sempre più incapaci di vedere il male in noi stessi come siamo – del male cioè come crudeltà gratuita e sadismo, come unghiata di energia distruttiva derivante da un qualche squilibrio psichico (siamo permeati, oltre che di cinema di azione, anche di vaghe cognizioni di psicologia). Mussolini non è né crudele né sadico, né squilibrato, opera il male perché ne ha bisogno per i suoi fini sessuali e di potere. Il suo è un male che non ha niente di luciferino o anche solo di epico, che non ha niente a che fare con l’audacia e la ferocia di Hitler (impareggiabilmente analizzate, soprattutto nei loro risvolti dinamici, da Gombrowicz nel suo diario), ed è invece bassezza quotidiana, meschinità, trivialità, immediato interesse, incontinente lussuria, abbietta perseveranza non priva di buon senso, gretto genio politico privo di remore, codardia, pusillanimità. Il suo male è prima di tutto assenza assoluta di bene, vale a dire di un qualche atomo di empatia per il prossimo, o di un qualche pur rarefatto sentimento, o pietà, o ideale, o principio, o decenza, di una minima briciola di morale, di qualcosa insomma di umano (fa eccezione forse la relazione con il fratello Arnaldo).

Quello di Mussolini è in fondo il male ordinario che si annida in tutti noi, e che tutti noi conosciamo alla perfezione, con la differenza che in lui non trova niente che lo argini o lo controbilanci, e quindi si espande in ogni momento in tanti rivoli paralleli che prendono forza mano a mano che il tempo passa. È un male che non ha niente a che fare con la banalità del male descritta dalla Arendt, che ne rappresenta per così dire l’esatta antitesi, perché è svincolato dalle condizioni esteriori, si autoalimenta, preesiste al male che diventerà storia e tragedia: l’omicidio di Matteotti, dei fratelli Rosselli, i gas tossici in Africa, le migliaia (contabilizzate di recente da G. Mayda) di ebrei italiani trucidati nei campi di concentrazione, le stragi dei repubblichini. È un male sordido, ostinato, intimo, imbronciato, pugnace, truce, cinico, prosaico, sempre vigile, un male che in ogni momento si esercita in intrecci paralleli e spesso contradditori (mancando un qualche ideale, anche negativo, unificante), un male che è presente già, e che anzi è ancora più evidente, negli anni prima della presa del potere, perché appunto ancora svincolato dai pretesti che potrebbero pur sempre, se non giustificarlo, per lo meno spiegarlo.

In Vincere di Bellocchio (in Francia è uscito solo adesso) ho trovato un Mussolini molto diverso da quello che mi aspettavo. Ho trovato un Mussolini che certo non è in grado di esprimere un qualche sentimento, certo è egotista e brusco e collerico, certo è assente perfino nella relazione passionale, e non può dire “ti amo” (se la cava, quando proprio è costretto, con un sibillino e forse ironico “ich liebe dich”), certo quando si tratta di politica è fin dall’inizio un infatuato, un violento, ma è pur sempre un individuo che non ripugna. Ho trovato un Mussolini che nella vita privata sembra anzi sapere quasi ascoltare, che parla sommessamente, che fa l’amore con una concentrata ritenzione certo solipsisticamente proiettata in avanti, ma anche dimentica di sé (e gli occhi rovesciati non possono non fare pensare all’umanissimo Casanova di Fellini). Un Mussolini silenzioso, pensoso, tutto assorto nel suo folle ideale di grandezza, e quindi in fondo tutt’altro che meschino, tutt’altro che schifoso. Un Mussolini che si stupisce quando Ida Dalser, l’amante (e moglie, anche se le prove sono state occultate per sempre dalla macchina fascista) trentina, gli consegna i soldi (ricavati dalla vendita di tutti i suoi averi) mentre sta fondando il guerrafondaio Il Popolo d’Italia, che per qualche istante resta silenzioso (potrebbe essere quasi commosso), e vuole in un primo momento rifiutare.

In Vincere ho trovato un Mussolini che come qualsiasi marito borghese di buon senso tra l’amante e la moglie nella bufera opta per quest’ultima, in un modo che potrebbe far pensare a un qualche attaccamento, o comunque interesse, per la famiglia (inesistenti nel vero Mussolini). Un Mussolini che quando il re lo visita in ospedale, complimentandosi, ci si immagina abbia combattuto valorosamente (aveva invece ucciso cinque suoi commilitoni maneggiando incautamente un mortaio a un corso di istruzione al quale s’era iscritto per sfuggire i pericoli e la durezza del fronte, lui che nei suoi scritti osannava l’eroismo). Un Mussolini che poi sul balcone di Piazza Venezia, quando dall’attore si passa alle immagini vere, del vero Mussolini ripreso da molto vicino, diventa – ai nostri occhi smaliziati ed esperti di oggi – univocamente grottesco e ridicolo (tanto più che alle vere immagini è abbinata la voce dell’attore, priva della ferocità elettrizzante di quella di Mussolini), e quindi ancora meno colonizzato dal male, ancora più lontano dalla mia immagine.

E quindi fin dall’inizio Vincere mi è sembrato melenso. Intendiamoci, Vincere non è affatto un film melenso, perché ha il bel ritmo e l’intelligenza e la ricchezza di riferimenti e la pulizia di tutti i film di Bellocchio, e le immagini di archivio che lo costellano sono montate (con rapide cadenze futuriste) molto bene, ma rispetto alla rappresentazione di Mussolini che preesisteva nella mia testa, il Mussolini del film (il bravo Filippo Timi), restava un buon uomo, un fanatico dal carattere burbero, per certi versi quasi – nella sua antipatia – simpatico, che finisce per diventare un grottesco tiranno. In lui non c’era l’ombra di quella che mi sembra essere l’essenza di Mussolini, c’era piuttosto un’eco di altri grandi burberi visti al cinema (impersonati da Jean Gabin, Lino Ventura …). Tra quel personaggio e le mortifere malefatte del vero Mussolini restava quindi uno iato che l’abile macchina cinematografica, tutta centrata sul rapporto con Ida Dalser, tutta fedele agli inoffensivi canoni del melodramma più classico, non riusciva a colmare, che il massiccio impiego di immagini di archivio rendevano più grande ancora. E quindi non potevo lasciarmi prendere dal film.

Con Ida Dalser le cose non andavano meglio. Certo la bellissima Giovanna Mezzogiorno appare un po’ ammaccata dopo il suo primo (violento) internamento in manicomio, e quindi è un po’ meno bella (o comunque la sua bellezza si incanaglisce, fa pensare a molte acciaccate bellezze femminili viste al cinema, per esempio la protagonista di Million Dollar Baby), ma poi presto le ammaccature passano, e ritorna bella e fresca e intatta come prima. Certo la bellissima Mezzogiorno è molto brava (in particolare nella scena in cui legge la lettera del figlio), non dico questo, e certo sa ricreare in modo molto convincente la sofferenza di Ida Dalser per la separazione dal figliolo Benito Albino, ma la sua giovane e sofferente bellezza resta pur sempre quella virginea e non completamente umana (carnale) di Maria Maddalena, mantenendo lo spettatore in un ambito che gli è familiare, e che nulla ha che fare con le tragiche malefatte di Mussolini e del fascismo. L’infernale manicomio di Pergine Valsugana è rappresentato come un luogo pulito e quieto, quello di San Clemente come un attraente giardino dove si svolge un tran-tran per certi versi bucolico, che fa pensare a tratti a un pacato garden party. Nella mia testa mi aspettavo l’apocalisse psichiatrica (nella realtà sia Ida Dalser che il figlio ci sono morti, nei terribili manicomi dell’epoca), e invece trovavo una sofferenza senza eccessi insopportabili, senza umiliazioni del corpo, senza destrutturazione della mente, una sofferenza tutta moderna, pulita, accettabile. Bella (come è e resta bella la protagonista). La sofferenza del melodramma.

Il fascismo e i fascisti non entrano nei manicomi del film. In quei manicomi nessuno è fascista, nessuno sembra essere corresponsabile del fascismo: il fascismo, la violenza, il Male, restano all’esterno. Con la bellissima Ida sono (quasi) tutti buoni, umani, comprensivi. Che Ida Dalser (nella realtà molto meno bella) e Benito Albino finiscano per morire (lei nel ’37, lui nel ‘42), lo spettatore lo viene a sapere solo dalle didascalie in chiusura del film. Il film finisce prima. Non potrebbe seguirli nel loro calvario, diventerebbe qualcosa d’altro.

Io stimo Bellocchio, e mi sembra coraggioso affrontare di petto questa vicenda marginale ma molto rivelatrice della nostra storia. E forse Vincere resta pur sempre un bel film (la critica francese lo ha unanimemente osannato). Però ecco, io mi aspettavo un pugno nello stomaco, e invece è come se avessi bevuto un bicchiere d’acqua fresca. Ma probabilmente l’abiezione che ho in mente io non si potrebbe rappresentare, probabilmente sarebbe insostenibile, probabilmente apparirebbe l’opera di un pazzo (Pasolini, dove sei?). E allora torno alla biografia di Margherita Sarfatti, e al vero male di Mussolini, che è pedissequo imbricamento e giustapposizione di piccoli e grandi mali. Perché non crediamo, mentre trama le sue altre numerosissime malefatte, il dittatore fa tenere d’occhio anche questi due prigionieri (di Benito Albino se ne occupa direttamente, finché è vivo, Arnaldo), non è solo preso, come sembra suggerire il film, dagli affari di stato, dai mali della storia (e segue personalmente anche le sorti di molti altri prigionieri, esuli, confinati). E mentre leggo la biografia della Sarfatti mi domando, come mai anche il grande Bellocchio ci dia una versione tanto edulcorata, se non dipenda sempre dal solito problema, che a tanti anni di distanza non abbiamo ancora fatto i conti col fascismo, e quindi esitiamo eternamente tra indulgenza (vale a dire mancata consapevolezza dei devastanti effetti dell’interiorizzazione dei valori fascisti in milioni di italiani, durante il ventennio come anche nei decenni successivi), dando per scontato che gli italiani il fascismo lo abbiano solo subito (come suggerisce la scena del film con i ciechi che camminano nella nebbia mentre il futuro dittatore enuncia la sua sete di potere), e retorica visione esteriore, quasi il fascismo non avesse nulla a che fare con noi e con le nostre famiglie (i manipoli di fascisti “cattivi”, il pazzo che si sgola dei filmati dell’epoca ripresi nel film).

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9 Commenti

  1. bellissimo pezzo, Giacomo, grande lucidità, non ho visto il film ma condivido pienamente le tue valutazioni, tipo le molte largamente indipendenti dal film contenute nell’ultimo capoverso.

  2. Caro Giacomo, concordo in pieno. C’è un’ambiguità nel film di Bellocchio, che rimane comunque un ottimo film e una prova di coraggio da parte del regista. In fondo il primo Mussolini può sembrare anche un coraggioso ribelle e non quella canaglia opportunista e abietta che fu. Ultimamente mi è capitato di leggere alcune cose che aveva dichiarato Mussolini poco prima di morire. Non cito a memoria, ma diceva che lui il fascismo non l’aveva inventato, lo aveva tratto dall’anima del popolo italiano e, francamente, mi è sembrata una cosa profondamente vera. Sono nato nel 1968 e ricordo che negli anni della mia infanzia, negli anni ’70, “fascista” era considerato solo e semplicemente un insulto e tutti si dichiaravano quantomento antifascisti. Per questo mi era incomprensibile concepire un consenso così largo come quello di cui godette il fascismo per parecchi anni. Com’era possibile? Da dove veniva quel consenso se adesso tutti si dichiarano antifascisti? Allora chi erano i fascisti? In tutta la cultura di allora il fascismo era considerato un “male assoluto”. Ma poi, come sappiamo, le cose sono cambiate. L’operazione di Bellocchio è ambigua perché sembra volere “recuperare” una radice positiva di un Mussolini, e quindi anche del fascismo, che non esiste. Ma non è un problema di Bellocchio, è un problema tutto italiano. A quanto pare gli italiani non hanno fatto veramente in conti col fascismo. Nel corpo politico della democrazia italiana, evidentemente, non si sono formati gli anticorpi in grado di contrastare un fenomeno come il fascismo. Ed è singolare che la dimostrazione di ciò che la offra un regista da sempre impegnato e da sempre schierato a sinistra. Come a dimostrare e dire che le responsabilità non sono sempre tutte a destra.

  3. Sicuramente bel pezzo. Scritto bene, ampia e ben composta varietà di lemmi, enfasi q.b. Ma che c’entra Mussolini?
    E’ che io, vecchio oltre il desiderato, non sopporto come mai sopportai le definizioni totalizzanti. Reputo il concetto di “male assoluto” una serena stupidaggine, estraneo agli uomini ed alla storia, e che tra l’altro abbisognerebbe di un contrario, il “bene assoluto” che di pari mi fa sorridere e sconfortare.
    Per quanto mi fu dato e potetti fui contro quella canaglia sino al ’45 e per i decenni seguenti contro gli epigoni variamente abbigliati, ma senza mai dimenticare che la storia è cosa seria (non complessa, please) e seri per dunque i suoi protagonisti e mai riducibili, uomini e storia, a comodità comiziali. Il male non esiste e né il suo contrario e men che meno in politica. Solo interessi rappresentati come l’evolversi della storia permette, cioè a dire per una strada soltanto.
    Quando la condanna politica diviene concione etica si perde la bussola e gli uomini, queli veri, appaiono cosa strana. Ed appare il consenso (amplissimo) al fascismo come una sorta di mattana popolare, mentre fu cosa seria cui si deve il rispetto (e l’etica non c’entra) dovuto a tutto ciò che segna il mondo. Io non andai a pisciare su Mussolini appeso, pur ritenendo politicamente corretta l’operazione. Già allora, ed ero alquanto giovane, la retorica del male mi infastiva. Si sta dalla parte che si ritiene giustae si fa quello che spetta fare. Ma sempre con un dubbio anche quando si fa scattare il grilletto. Quel dubbio è l’unica etica che conosco.
    Con un saluto
    Mario Ardenti

  4. @ iltrenoavapore

    Mussolini c’entra perchè Vincere è un film di Mussolini;
    e di “male assoluto” io non ho parlato (lo ha fatto Lorenzo Pompeo); però in qualche modo bisogna pur chiamarli i misfatti e gli omicidi, non pensa? (anche qui: il film in questione parla di due vittime, la moglie e il figlio, uno dei tanti figli, di Mussolini); lei dice “canaglia”, che è la stessa cosa, perchè una canaglia è una persona che compie del male;
    ma ha ragione, sono terreni molto scivolosi e delicati;

    in realtà io cercavo solo di capire perchè il film mi aveva lasciato insoddisfatto, perchè anzi in qualche modo mi avesse dato noia; e mi sembrava utile cercare di confrontare il Mussolini del film con l’idea di lui che mi sono fatta – non avendo come lei vissuto di persona quel periodo – documentandomi, vale a dire spazzando via dalla mia testa le immagini di lui che avevo prima, le quali non prendevano le distanze dalla retorica creata dallo stesso fascismo; immagini che mi sembrano purtroppo ancora ben diffuse, proprio perchè non si sono fatti i conti con il fascismo;

    ma se qualcuno avesse delle idee diverse sul film, sarei lietissimo di leggerle;

  5. Il pezzo è bello per quel che dice su Mussolini e su come l’arte, la letteratura, la cultura italiana dal 1945 a oggi (non) riescano a interpretarlo (con pochissime eccezioni). Ma per me non è molto centrato per quanto riguarda invece specificamente Bellocchio, dal momento che (come viene detto esplicitamente dall’autore in sede di commento) parte dal presupposto che il suo film sia un film “su Mussolini” (a parte il lapsus, abbastanza impressionante, che a Mussolini addirittura lo attribuisce). Mussolini è pressoché assente dalla seconda parte del film, ma anche in precedenza è solo il deuteragonista della Dalser. Come la maggior parte dei film del suo autore, il film è bensì sul contrasto fra quello che soggettivamente crediamo vero (il matrimonio fra Dalser e Mussolini, dal punto di vista di Dalser; è proprio il suo punto di vista, naturalmente, che “edulcora” la personalità di Mussolini: ne è infatti innamorata) e quello che credono vero gli altri: la società, lo Stato, la storia. E dunque sul confine tra un soggettivismo esasperato, come per esempio quello dell’artista, e la pura e semplice follia. Così il precedente, e certo meglio riuscito, “Buongiorno, notte” non era un film sulle BR e su Moro, ma sui convincimenti psicotici di un gruppo istericamente chiuso su se stesso e su quel che credeva “reale” il paese istericamente avvolto attorno ad esso (che, concentricamente, a sua volta teneva rinchiuso in una cella il prigioniero). A me “Vincere” non è parso fra i film migliori di Bellocchio, proprio per la patina di “bella confezione” cinematografica rilevata da Sartori, e che mal si addice alla poetica visionaria del suo autore (in ciò comprenderei pure la prova istrionica, ma anche gigionesca, di un attore altrove convincente come Timi); in questo senso ha ragione Sartori, un clic è rappresentato dai manicomi (il vero nucleo psicotopografico della narrazione) che sono troppo lindi e pinti, e questo stupisce in un autore della sensibilità che Bellocchio ha sempre avuto per il tema del disagio psichico. Merita che ci si interroghi, peraltro, sul perché Bellocchio abbia deciso nell’ultimo periodo (con l’eccezione del bellissimo “Regista di matrimoni”) di intrecciare i suoi temi e le sue ossessioni squisitamente individuali ai temi che ossessionano la storia collettiva del nostro paese. E’ un esperimento interessante, che sposta in misura significativa il fuoco della sua ricerca. Ma che, come si vede, presta anche il fianco a equivoci.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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