Articolo precedente
Articolo successivo

Ad alcuni poeti & affini nell’Italia dei malori

di Andrea Inglese

.

In tempi di profanazione delle coscienze

Voi disquisite sul Sacro

.

In tempi di umiliazione e abbruttimento dei corpi

Voi parlate della bellezza e delle anime

.

In tempi di ottenebramento organizzato

Voi parlate del fascino della nebbia

.

In tempi di razzia e linciaggio

Voi parlate d’altro

.

In tempi di morti dirigenti

Voi parlate di risorti

.

Mentre i veri preti si confondono con la gente

Voi vi confondete con i preti

E sapete tenere un discorso

Solo laddove non vi può far male

Print Friendly, PDF & Email

228 Commenti

  1. Quel verso è stato ispirato precisamente da quell’articolo, ma il suo senso va ben al di là di quell’articolo.

  2. ma inglese – premesso che sono sicuro che esistono decine di poeti e affini che si meritano proprio questa tua poesia, che quindi può pure avere una sua utilità – e senza voler fare lo gnorri – ma per la mia (non s-)fiducia nella coerenza, ti direi: che parlare della “profanazione delle coscienze” sarebbe lo stesso parlare (se non disquisire) “del Sacro” (magari con la minuscola). perché come fa ad esserci “profanazione” in assenza di un concetto di sacro? che parlare della (odierna?) “umiliazione e dell’abbruttimento dei corpi” sarebbe lo stesso parlare “della bellezza”. perché come fa ad esserci “abbruttimento” in assenza di un concetto di bellezza? magari non necessariamente “delle anime” ma della mente forse sì. e poi: “In tempi di razzia e linciaggio//Voi parlate d’altro”. “d’altro”, sì. beh, magari di cose che possano essere utili a frenare le pulsioni di razzia e linciaggio, o di cose che possano essere utili a eliminare le cause delle razzie e dei linciaggi. come escluderlo?

    lorenzo

  3. a carlucci
    un’invettiva in versi non spiega, condensa; o si capisce di cosa parla (pur dissentendo o no), o non si capisce. Nel qual caso, l’occasione è persa.

  4. “In tempi di razzia e linciaggio//Voi parlate d’altro”. “d’altro”, sì. beh, magari di cose che possano essere utili a frenare le pulsioni di razzia e linciaggio, o di cose che possano essere utili a eliminare le cause delle razzie e dei linciaggi. come escluderlo? –

    non si può escludere nulla, ma certo è che i poeti parlano, in tempi normali, sempre d’altro… In tempi anomali, vorrei che i poeti sapessero trovare le occasioni per parlare di ciò che accade.

  5. inglese, se è così mirata la tua invettiva tanto valeva fare i nomi, al fine di non incorrere in un errore di eccessiva generalizzazione, che può diventare approssimazione, vaghezza, a scapito dell’efficacia del pezzo, della sua capacità di andare “ben al di là” delle contingenze che lo hanno occasionato.

    poi, tu dici: “In tempi anomali, vorrei che i poeti sappiano trovare le occasioni per parlare di ciò che accade.” dico due cose: (i) forse alcuni di loro parlano di ciò che accade, in modi che a te non sono chiari o che tu non condividi, anche parlando del sacro e della bellezza, o – almeno – credono di farlo (e quindi sono almeno in buona coscienza, mentre sicuramente ve ne sono altri che fanno lo stesso – e il contrario – con cattiva coscienza), (ii) molte religioni, molte idee sul sacro, sulla bellezza, sulle anime, sulla salvezza etc. sono nate in periodi ben più “anormali” del nostro, e in mezzo a ben più gravi violenze, profanazioni, linciaggi. quindi forse non sono tanto OT. certo, si potrebbe ribattere che l’uomo è progredito. ma allora perché i tempi sono ancora così brutti?

    lorenzo

  6. L’arte dell’invettiva secondo me sta in equilibrio tra concreta singolarità del caso e generalizzazione dell’attitudine. Il caso singolo interessa se non perché manifesta un’attitudine più generale, che è il vero obiettivo polemico.

    Quanto ai nomi, fai almeno lo sforzo di Angelini di indovinarne qualcheduno.

  7. m pare che le osservazioni di Carlucci siano fondate. A me sembra che l’essere contemporanei non coincida con l’aderenza al presente. la qualità dello scarto fra i due tempi, differenzia la poesia che resta da quella che semplicemente ripete il già detto.

  8. E’ evidente che non si dà profanazione senza sacro. Ma in questo tempo agli intellettuali (sempre che sia una aprola sensata, questa) è chiesto di prendere posizione. Non solo, ma anche. Perché evitare di farlo, significa, comunque, nei fatti, prendere implicitamente, magari senza neppure volerlo, un’altra posizione. E scrivere del fascino della nebbia e basta, significa alimentare la nebbia del presente.

  9. Sono in tanti che si ostinano a parlare di “bianchi gabbiani” quando la guerra del golfo nel 91 li ha mostrati al mondo anneriti dal petrolio. Ma i poeti che più mi infastidiscono sono quelli che giocano a remare “contro” solo per avere quella visibilità “berlusconiana” così tanto contestata. certe misere caste poetiche giocano a fare i forti come le debolezze della nostra opposizione politica. patetici.

  10. a gugl

    penso che una poesia anti-berlusconiana, se è feroce e satirica, ha una sua dignità letteraria assoluta; ma non è di questo che parlo. Parlo di cornici, di temi per degli incontri, convegni, dibattiti tra poeti. Non chiedo ai poeti di trasformare i loro testi in volantini da manifestazione. Chiedo che oggi, proprio perché molto inattuale, parlino di ciò di cui parlavano a iosa, anche a torto, in certi anni: il rapporto del linguaggio con l’ideologia; il rapporto tra intelletuali e potere; il rapporto tra la parola e l’orrore; invece, di colpo, un trasversale far incontri su bellezza e sacro, mentre con i denti si cerca di tenere in piedi lo stato di diritto, la laicità dello stato, la possibilità di aggirare propaganda e censura, ecc.

    Penso che i poeti, in quanto poeti, e gli scrittori in quanto scrittori, abbiano la possibilità di trasformare il nostro rapporto all’attualità, ma non eludendolo semplicemente. Fortini, Pasolini, Volponi, Porta, persino Zanzotto non hanno mai rifiutato un confronto con l’attualità.

    Certo, possiamo stare zitti, e continuare a lavorare sui nostri testi, che parleranno per noi, anche in senso etico e politico. Ma se prendiamo la parola in pubblico, oggi, facciamolo assumendoci tutte le responsabilità del caso. Oggi PARLARE IN PUBBLICO è un PRIVILEGIO. C’è una popolazione di invisibili, che non hanno occasioni per palare e raccontare la loro storia assurda e spesso disperata. Chi parla, oggi, non può non tenerne conto.

  11. “Cos’è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità. Già, la normalità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come “normale”, privo della eccitazione e dell’emozione degli anni di emergenza. L’uomo tende ad addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è. È allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti.

    I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica.”

    Pier Paolo Pasolini

  12. certo Gugl, che si parla del qui e ora. ma non si parla, mi sembra di capire, di un invito all’aderenza, con virgolette. Brecht “aderiva” al suo tempo? lo faceva Fortini? non credo. né credo si possa parlare per loro di poesia che non rimane, di piccola e povera. poi è naturale che non si debba per forza, tutti, mirare a quegli esiti. ci sono vari gradi di intervento e di intenzione. quello che conta è l’attitudine, o la tecnica-tendenza, giusta Benjamin. che l’attitudine possa prevedere poi nebbie e varie tiptologie da teurgo, nessuno lo vieta. ma in questo caso bisogna quantomeno essere pronti a ricevere critiche. oppure la Primavera hitleriana continuiamo a scriverla in quel modo, sicuramente grandioso ma con una fuga “eliotropica” ormai impresentabile e con un ritardo imperdonabile di sette anni.

    Un saluto,

    F.T.

  13. salire su una gru o su un tetto è una necessità che non abbisogna di privilegi. dunque una popolazione invisibile si rende improvvisamente visibile mentre altri, appunto, tengono discorsi “Solo laddove non vi può far male”.

  14. Bon, l’intervento di Inglese, che non avevo letto scrivendo, spiega assai meglio quanto intendevo dire. Varrà ancora di più ora, per riprendere Natalia, che “lo stato di emergenza” è talmente lapalissiano da non abbisognare neppure più la sua sollecitazione artificiale.

  15. aggiungo che comprendo quanto dice Carlucci e mi pare ovvio che non si possa escludere nulla, chi “pratica”, vive, si esprime in “poesia” (prose poem, creative writing, … ) non può non percorrere diverse strade, quella della rabbia, quella dello sdegno, quella dell’impegno civile, ma – essendo uomo – non potrà nemmeno rinnegare il proprio intimo, la propria personale visione delle cose, il proprio piccolo orticello, a meno che non si faccia della poesia una materia “specialistica” e settoriale (civile, intimistica, lirica … etc) e non si conferisca al poeta una laurea per settore di specializzazione, creando un tecnico “ignorante” in più.

  16. sono perfettamente d’accordo con te, Andrea. Parlino i poeti, usino la parola e il pensiero per fare chiarezza sul presente. Quello che intendo dire è che non possiamo nasconderci dietro le poesie, per quanto dissacranti siano. Esporsi senza ripari, senza schermi, scrivere con la lucidità che siamo capaci e con completezza, tenendo conto che se abbiamo il privilegio di parlare in pubblico, dobbiamo essere prudenti nel parlare in nome degli altri, dei non privilegiati. La questione è secolare: quando un borghese parla a nome di un non borghese, quali interessi difende (consapevolmente o meno)?

  17. bene, sono contento di non essere un borghese secondo l’accezione marxista in quanto non ho il controllo dei mezzi di produzione e di distribuzione. ;-)

  18. “La questione è secolare: quando un borghese parla a nome di un non borghese, quali interessi difende (consapevolmente o meno)?”

    ho sempre pensato che, in primo luogo, esistono diversi tipi di “borghese” che parlano a nome di altri non borghesi: un tipo radical-modaiolo che lo fa per moda, quindi per tornaconto più o meno conscio oppure per rientrare in determinate cricche; e un tipo, più sincero, più complesso, spesso con difficoltà di autoidentificazione o di appartenenza che provoca scandalo, come Pasolini, ma mi viene in mente anche Céline

  19. ecco. parlino i poeti! ma già dire che esistono i poeti è un azzardo… esiste la poesia e se qualcuno di loro che parla di sé come il nuovo profeta ( e sono in molti a farlo di loro stessi: alcuni si recensiscono da soli per delle intere pagine) ESISTE, è perché ESISTE a discapito della poesia che vuole far esistere: le ruba la scena… direi:) mentre dovrebbe esistere la poesia a “discapito” (qui ci metto le virgolette) dei poeti che dovrebbero inesistersi ad essa e in essa senza anestesia, conversi ai loro resti ai vivi se sono vivi e all’ altrove di sé.
    un saluto
    paola
    un saluto.

  20. inglese, l’ 11 Dicembre 2009 alle 15:07 rispondi al mio messaggio dell’11 Dicembre 2009 alle 14:43 così:

    “L’arte dell’invettiva secondo me sta in equilibrio tra concreta singolarità del caso e generalizzazione dell’attitudine. […]”

    – infatti io ti criticavo un eccesso di generalizzazione, ossia il mancato equilibrio in cui consiste l’arte… etc.

    poi concludi:

    “Quanto ai nomi, fai almeno lo sforzo di Angelini di indovinarne qualcheduno.”

    – io posso anche fare lo sforzo di indovinarne qualcuno (Rondoni?) ma tu fai lo sforzo di rispondere (o anche solo di considerare con calma – certo non si può rispondere a tutti su tutto) la seconda parte del mio messaggio, che era un po’ meno superficiale e letteraria di quella cui hai deciso di rispondere (almeno spero).

    saluti,
    lorenzo

    p.s. teti, che scrivi: ““lo stato di emergenza” è talmente lapalissiano da non abbisognare neppure più la sua sollecitazione artificiale.” dunque? abbisogna o non abbisogna? è lapalissiano o non è lapalissiano?

  21. bravo carlucci, hai indovinato – dunque non era difficile

    quanto alla seconda parte, vi leggo una sola domanda: perché i tempi sono ancora così brutti?

    Cosa devo rispondere a cotal domanda? Beh, se ti leggi i miei due interventi apparsi qui sul “fascismo estetico”, qualche ipotesi in proposito la formulo. Per il resto, spero che tu te la sia data qualche risposta in proposito, e che sopratutto non pretendi qui da me una risposta né in forma di saggione né in qualche riga.

  22. caro Marco, lo sai bene quanto sia dfficile non esserlo culturalmente: libertà, tecnica, uguaglianza, identità riusciamo a pensarli slegati dalla loro storia moderna? la poesia? e l’impegno? (anche Marx è moderno, anzi è positivista che, del moderno, declina l’ottimismo, l’idea di progresso, la convinzione che la storia abbia una teleologia. Io credo che, in quanto intellettuali della tarda modernità, dovremmo rendere alla comunità questa consapevolezza. “Rendere” significa: far risaltare, restituire, ma anche aprire un da-pensare che renda al presente la sua via d’uscita.

  23. fermo il mio apprezzamento e ammirazione (ad-mirazione) per il lavoro di inglese, io credo però al contrario che l’abbrut(t)imento dei tempi derivi proprio dalla perdita del sacro e della bellezza, o dal malintenderli o dal non farli circolare realmente nel sociale. la differenza reale fra destra e sinistra, inutile raccontarsi altre storie, è eslcusivamente estetica: i politici e le idee della destra sono brutte, questo è tutto – il mondo da loro immaginato può funzionare quanto gli altri, ma è svilito, svuotato, sfinito, impiastricciato di brutto cerone e maleodorante di chiuso, un mondo senza aria, senza luce, senza orizzonte. quello che è da riformare è la percezione, è il senso del valore ultimo e sacrale delle cose esistenti.

  24. Qualcuno scriveva “Un cavallo a dondolo continua a muoversi ma non fa nessun progresso.” forse gli intelletuuali dovrebbero iniziare a scendere dalla giostra.

  25. Caro Andrea,

    si è generalmente portati a considerare la poesia e di riflesso, chi la fa, come dietro l’angolo in ombra della strada. Nel grande boulevard mediatico, ma pure culturale, non mi pare che i riflettori siano puntati su di lei o su chi per lei. Eppure si è sempre pronti a chiamarla in causa, a colpevolizzarla comunque per qualsiasi cosa accada nel mondo: dopo Aushwitz, Hiroschima, la guerra del Golfo, le torri gemelle, Mister B.

    La mia non vuole essere una difesa di nessuno, semplicemente prendo atto che i versi che tu destini ai tuoi ‘colleghi’, penso che più valore avrebbero se venissero indirizzati ai campioni della letteratura di consumo, a quanti appaiono quotidianamente su totocalchi patinati, in salotti televisivi, nelle pagine culturali di Repubblica e del Corriere della sera, in prestigiosi premi o festival o manifestazioni, a critici che hanno appeso la penna al chiodo e fanno i soldi in tivvù, a comici che vendono libri, a cantautori che scrivono racconti e romanzi: qualcuno si preoccupa di farli sentire in colpa? qualcuno chiede loro una qualche assunzione di responsabilità? Qualcuno ricorda loro chi è l’editore che li pubblica?

    Eppure, la tua invettiva, che riprende una annosissima questione, colpisce profondamente, nonostante tu non faccia nomi (come invece li faceva Pasolini nelle sua molto tranchant, e Fortini)
    il tuo richiamo a una responsabilità che vada oltre il proprio orticello protetto. Quello che tu non accetti, e che è nella realtà delle persone, è il fatto che ci sono nature votate a una dimensione estroflessa, altre per le quali sarebbe una forzatura ‘uscire ‘fuori di sé’. Comunque sia, penso anch’io che sarebbe assurda una rivincita delle ‘grazie in una quotidianità orrenda, come lo fu negli anni Novanta la marcia fiorentina per la ‘Bellezza’, mentre nella piazza adiacente alcuni lavoratori manifestavano contro il governo, come è sempre accaduto che mentre piovevano bombe qualcuno abbia continuato imperturbabilmente a prendere il proprio tè delle cinque.

    Ma quello che tu forse volevi dire, e in fondo dici fino a un certo punto, è forse che bisogna proprio perdere la faccia, ad esempio, a chiamare Bondi: ‘Grande poeta’… ammesso che sia pubblicabile, ma si pubblica di tutto, pure gli elenchi telefonici.

    Quanto alle ‘cornici’, cioè alle occasioni e alle ‘vetrine:: hai, con NI, la possibilità di far parlare quanti ci stanno provando, quanti tra i facitori di versi (che incontrino o meno i propri gusti personali o di ‘area’)non si limitano all’araldica: Buffoni, Franzin, Alborghetti,Agustoni, De Signoribus, D’Elia, e altri, affrontano questioni del presente ineludibile: diritti civili, realtà lavorativa degradata, principi morali di cui il consesso è deprivato, il presente politico e sociale del paese. Dare spazio a queste voci, come a quei narratori che recentemente hanno affrontato questioni sociali e morali :ancora Buffoni con ‘Zamel’, Lamberti Bocconi con ‘Rumeni’, e altri, è forse il segnale preciso, oltre ogni autoreferenzialità in atto.

    p.s. quanto al tuo testo: pur condividendone i motivi e la materia, non posso non accogliere i rilievi sulla congruità fatti da Carlucci e da Guglielmin: è che quando si fa poesia in qualche modo ‘civile’, facilmente si commettono errori: allusività analogica, vaghezza ‘dico ma non faccio nomi’,’ il dastinatario sa già a chi mi riferisco’: ma una scrittura cifrata è l’opposto di quello che occorre quando si affrontano questioni politicosociali. Molto spesso ‘l’occasione è persa’ non tanto per un presunto deficit del lettore, quanto, piuttosto per certi atteggiamenti un po’ cagoni di chi scrive, o di chi risponde stizzito alle obiezioni. Senza nulla di personale, Un caro saluto.

  26. Manuel Cohen,

    poi mi dispiace ma sparisco dalla rete per un bel po’

    1) non sono un sostenitore sfegatato della poesia civile, il discorso riguarda su che cosa vogliono parlare – non scrivere – i poeti, oppure su che cosa vogliono scrivere, quando decidono di passare a una riflessione critica sullo scrivere.

    2) sui nomi ho già risposto e mi sembra chiaramente: che mi si venga a fare la scenetta fuori i nomi è sciocco: io ve ne faccio alcuni (Scarpa, Eco, Rondoni, Mussapi-Conte-Zecchi, ecc.), ma di esempi ne potete trovare intorno a voi

    La tendenza mi sembra chiara – e gli esempi concreti non mancano. Che vuoi ti dica di più Manuel?

  27. Andrea Inglese, siamo abbastanza d’accordo. E’ quasi esornativo farti notare che se le cose stanno così, a molti può pure andare bene, e che da qualche parte quei voti debano pur venire. E’ sempre stato così, chi parla di guerra, chi di margherite.ciao.

  28. inglese, del mio messaggio neppure la parte a cui hai scelto di rispondere conteneva domande. comunque ti invitavo soltanto a considerarla, offline. non devi scrivere un saggione. in genere su un blog una risposta breve e intelligente può anche bastare. ma forse tu non hai voglia di affrontare la questione di fondo che proponevo: è possibile prendere posizione anche parlando del sacro, del bello e delle anime (della nebbia non so… ma delle pelouses invece?). non si può far finta di non sapere che le riflessioni religiose e filosofiche sul sacro sul bello e sull’anima costituiscono storicamente una delle strategie più diffuse – e probabilmente di maggior successo – tra quelle che l’uomo ha elaborato per far fronte al male (profanazioni, abbrutimenti, persecuzioni, linciaggi etc).

    saluti,
    lorenzo

  29. e che dire di tanta vetusta retorica che trasuda nelle 30 poesie contenute nell’antologica calpestare l’oblio, a parte qualche eccezione?, potremmo disquisirne per intere settimane…, la cosa più divertente è che non sono presenti i veri autori civili (tranne le solite eccezioni), insomma la solita mafiosata. quello che ho scritto naturalmente riflette una larga condivisione avuta con altri autori/autrici.

  30. Il libro più letto, venduto ed esaltato degli ultimi anni in Italia, GOMORRA, è un libro di impegno e denuncia civile. Il genere tanto in voga dell’autofiction trae spunto sovente da scandali “civili” (vedi l’ultimo libro di Scurati secondo classificato allo Strega, ma anche molto prima Balestrini e poi tanti altri ancora). Le trasmissioni tv, da Striscia a Santoro, da Ballarò alla Gabanelli alle Iene a Exit a Omnibus eccetera, non fanno altro che denunciare e analizzare in modi diversi gl’innumerevoli scandali “civili” da cui siamo afflitti; è cambiato qualcosa? Questi scandali diminuiscono? Queste denunche sortiscono effetti? E se è vero che sarebbe auspicabile sentir parlare un poeta di problemi civili, da chi questo poeta potrebbe oggi essere realmente ascoltato? Da quanti? Quanti lo capirebbero? Quanti realmente se ne interesserebbero? Nel Paese dei Capezzone che spazio spetta (spetterebbe) al pensiero e alla parola dei poeti “civili”? Il problema, cui non vedo per ora soluzioni, è dunque più vasto e complesso: non soltanto i cosiddetti intellettuali si espongono poco, ma qualora lo facciano trovano il terreno più intellettualmente arido di tutti i tempi. Sento spesso riferimenti a Pasolini: non voglio fare il pessimista a oltranza, ma credo che oggi anche un Pasolini sarebbe riassorbito con facilità da un sistema che fagocita tutto e il contrario di tutto; è dunque il sistema che va cambiato, l’albero è infetto alla radice e chi canta in cima ai rami non dà nemmeno più fastidio.

  31. I rif. a Pasolini sono costanti. questa sua non lascia speranza: “Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione) non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre. (dal Corriere della sera, 9 dicembre 1973)”

    L’anima “bruttata per sempre”, questo passaggio è significativo, anticipato 36 anni fa.

  32. mi trovo totalmente d’accordo con l’ultimo commento di macioci, mi pare di aver detto più o meno le stesse parole da qualche parte. messi come siamo l’unico che fa resistenza qui è fabrizio corona, un gangster dei giorni nostri, che ruba ai ricchi per arricchire se stesso, fa il bandito, usa questa mostruosa società che abbiamo creato per sopravvivere, si presenta in tribunale, è veramente contro lo stato. pensa te come siamo ridotti.

  33. a Lorenzo, con ritardo:

    mi spiego meglio su: “abbisogna o non abbisogna? è lapalissiano o non è lapalissiano?”

    riprendevo il passo pasoliniano postato da Natalia, dove si afferma che in un contesto di normalità apparente, normalità magari da morfina e schermo e sonno fondo, sono proprio questi “campioni” dei poeti a dover sfondare il velo mostrando/creando, artificialmente, lo stato d’emergenza. ora io questo stato d’emergenza lo vedo nella sua nettezza, è tangibilissimo e sfacciato, non si nasconde (non può più) dietro nessun velo. ma è come sempre sottovalutato, se non ignorato. per questo ritengo necessaria una precisa attitudine, da parte di chi scrive, e specie da chi gode il privilegio di una visibilità discreta o meglio che discreta. la situazione, non parlo solo dell’Italia, dicevo è chiara: per cui, rispetto a quanto lasciava intendere Pasolini, non è neppure richiesto chissà che sforzo prometeico e rivelatore da parte di chi scrive. allora diventa difficilmente digeribile certo pilatismo culturale. cerchiamo almeno di non ridistendere un velo che non c’è più e non deve esserci.

    io ho interpretato in questo modo l’intervento di Inglese, e a prescindere dal fatto che lo stimi come autore. bisogna mantenere l’attenzione, e sì, si può/bisogna provare rabbia verso le numerose ‘messe in nebbia’, i vocalizzi a soprassedere o ad ignorare. insistere, come scriveva (e gli sarà costato) Sereni, che “conta più della speranza l’ira e più dell’ira la chiarezza”. a volte, e la confermo come mia opinione personale, in polemica con nessuno e meno che mai con te, bisogna evitare che la strada della poesia passi da “un’altra parte” (così fumigava il Luzi di Presso il Bisenzio). che la poesia passi da un’altra parte, in generale, io non lo riesco più a credere.

    poi tu hai ragione su quanto dici del sacro, del bello, dell’anima. lo dico nonostante il mio ateismo. ma sai sicuramente meglio di me come strategie simili, in certi momenti, al “male” hanno spesso collaborato, lastricato la strada.

    Hail,

    F.T.

  34. Ciao Andrea, non ci si vede da anni, ti saluto qui.
    Mi sembra ingiusto e fazioso cio’ che hai scritto.
    “Il primo amore” n.6, da cui quel mio intervento e’
    tratto, e’ dedicato alla religione e all’attuale ingerenza della
    Chiesa sul controllo delle menti e dei corpi (concepimento,
    aborto, staminali, aids e preservativi, testamento biologico, ecc.).
    Prima ci sono stati numeri dedicati ad altri temi,
    i prossimi saranno dedicati ad altri temi ancora.
    (E tu? Hai dato vita in questi anni a una rivista di
    analogo impegno?)
    Giudica la mia/nostra attivita’ nel suo complesso,
    se proprio ti senti cosi’ a tuo agio sul pulpito dei giudicanti.
    Comunque, entrando nel particolare, mi sembra
    che fare delle considerazioni sui simboli cristiani,
    visto l’uso politico che se ne fa, non sia una questione frivola.
    Ma tutta la tua invettiva mi ricorda quel che scriveva Manganelli,
    riguardo alla mossa retorica di trattare
    gli scrittori “a bambini morti in faccia”.
    E’ facilissimo: si prende un articolo, una poesia, un libro, li si
    mette a confronto con la gravita’ etica di una guerra in corso,
    ci si straccia le vesti. Ma e’ cosi’. Non esistono soltanto
    i tromboni culturalisti, ci sono anche i tromboni politicisti.
    (Fra gli scrittori di tutti i tempi il mio eroe e’ Catullo.
    Leggi una poesia d’amore, giri pagina
    e trovi un attacco a Cesare, giri pagina e trovi un
    canto nuziale, giri pagina e trovi un aneddoto personale, giri pagina
    e trovi un poemetto su un dio. L’esperienza umana integrale.)

  35. I “tromboni politicisti” sono moltitudine, la caricatura grottesca di Saviano; dei moderni farisei che si dedicano alle pratiche esteriori del culto dell’impegno, ma in realtà poi tutto si riduce a delle invettive ridicole e ipocrite. In questo senso è perfettamente logico che un brillante saggio sulla resurrezione non piaccia a un sepolcro imbiancato.

  36. Anche quando parla degli uccelletti del bosco, una poesia parla d’altro, lo si voglia o no, ha scritto pressapoco (e forse ottimisticamente) Fortini. Ma, appunto, è la poesia che “parla” (quando è “vera”). Quanto al poeta, quando parla fuori dal suo “officio”, è come un qualsiasi altro uomo, con tutte le sue miopie e i suoi difetti. E le sue acquiescenze, e le sue incapacità.

  37. Tiziano, ti ringrazio di essere intervenuto. Anche se può sembrare paradossale, il mio intento non è di alimentare divisioni tra persone che possono trovarsi assieme, a combattere autonomamente battaglie simili su obiettivi simili. Credo che questo sia successo per un certo tempo, come tu mi fai notare. Tu hai fatto delle battaglie civili e politiche sul PA, e io pure su NI e altrove, e anche gli amici che stanno intorno a noi, e che persino hanno lavorato assieme proprio su NI in passato.

    Se non voglio dividere, però voglio giudicare, sì. Voglio criticarti su questa cosa specifica perché, inserito in quello che io vedo come contesto, quel tu pezzo su libero è per me un errore. Un errore di tempi, di tema e di luogo. Un errore politico, se la parola non ti fa orrore. E per uno che fa battaglie politiche, come tu anche le hai fatte, una tale critica spero ti faccia riflettere.

    Leggendo giornali, frequentando piazze e manifestazioni, sentendo parlare politici, e riflettendoci con la mia testa, io parto da un assunto che è questo: siamo in una situazione di pericolo, questo pericolo tocca non solo un conflitto tra dominanti e dominati, che dovrebbe riguardare storicamente la sinistra, ma tocca il rapporto tra cittadini e istituzioni, che dovrebbe riguardare coloro che tengono alla democrazia, di destra o di sinistra che siano.

    Se questa diagnosi non è completamente errata, allora, per chi decide di intervenire anche in un dibattito culturale, oggi, la dimensione politica non può essere semplicemente ignorata. Se poi uno decide di parlare su giornali che, di proprietà di Berlusconi, sostengono la sua linea politica, allora di COSA va a parlare diventa decisivo. Se non decide di essere scomodo adesso, non lo sarà mai più. Ed è necessario che sia scomodo, proprio a casa di chi del controllo dell’informazione, della censura e dell’intimidazione ha fatto uno degli strumenti di “normale” scontro politico.

    Inoltre, il tuo articolo arriva dopo che l’Italia ha dimostrato, almeno su un punto, di ritrovare maggioranze d’opinioni bulgare, ossia nella condanna della Corte Europea dei diritti umani all’indomani della sentenza sul crocefisso.

    Certo, il tuo pezzo sarebbe stato gradito tanto a Bersani che alla Mussolini. Faceva vedere le cose da un punto di vista diverso (vero), senza minimamente mettere realmente in discussione l’opinione dominante (altrettanto vero). Ma su Libero non poteva essere certo scomodo. Ma allora perché pubblicare su Libero? Per mettere la tua intelligenza al servizio di chi si nobilita sulla pagina culturale, mentre manganella istituzioni e principi democratici sugli editoriali?

    Poi non lo so. Perché uno come te, che ha tra i suoi migliori talenti l’irriverenza, deve cominciare a citare i teologi, a parlare di risorti, in una paese la cui classe dirigente è morta, e dove il probelma non è far risuscitare i morti, quali che siano, ma lasciare spazio ai vivi, che invece esistono? Anche come metafora la trovo sbagliata.

    Quelli di CL hanno messo in giro nella scuola dove insegno dei volantini dove fondamentalmente dicono quanto dici tu: Gesù è vivo, è tra di noi, anche se togliete il crocifisso lui è qui. A me questa posizione va benissimo, perché uno è libero di credere anche a queste cose. Ma loro pretendono comunque che sia sbagliato toglierlo, comunque, il crocefisso. E’ superfluo, ma necessario.

    Sono stato ingiusto a dimenticare il resto (il tuo passto anche recente) e a utilizzare questa tua scelta, nel mio discorso. Vero. Lo ammetto. E’ una posizione scomoda, antipatica, in più fatta da uno che non può avvalersi di nessun aurea di successo editoriale per andare a rompere le balle a uno che appena vinto il premio strega. Ma tu mi hai risposto, e questo mi pare un fatto positivo. Come ultima cosa considera questo. Mi sono preso questo ruolo antipatico (il trombone politico), ma almeno la critica ti è stata fatta. La cosa è stata detta pubblicamente. In tanti questa critica te la fanno in privato, sottovoce, senza dirlo. Spero mi sarai grato almeno per questo.

    Ora vo a nanna che sono stanchissimo. Domani e dopo sarò in viaggio e non potrò partecipare alla discussione. Spero che qualche indiano faccia le mie veci.

    Poi il vero discorso è ben più ampio e generale. Ed è sul contesto attuale. E sulla nostra responsabilità di autori (di cento o centomila lettori). Ed è poi davvero di questo che dovremmo parlare assieme, in tanti, ma senza troppa indulgenza e trasformando la rabbia (quella che qui ha prodotto l’invettiva) in ragionamenti e analisi.

  38. “Quanto al poeta, quando parla fuori dal suo “officio”, è come un qualsiasi altro uomo, con tutte le sue miopie e i suoi difetti.”

    Già, ed è proprio per questo che un qualsiasi uomo, quando smette di usare la penna – qui il discorso è generale – dovrebbe esprimere le preoccupazioni, le frustrazioni e la rabbia che come cittadino, oggi, dovrebbe sentire. E magari il suo essere anche poeta, oltre che cittadini, potrebbe dare a quelle frustrazione una distanza e una possibilità di riscatto.

  39. Caro Andrea, grazie della risposta.
    Se il problema e’ Libero, forse non hai letto la nota in
    fondo al pezzo. L’articolo e’ vanamente giaciuto in
    altra redazione per 3 settimane, poi da Libero si sono
    fatti vivi perche’ volevano un pezzo dal Primo Amore,
    gliel’ho ceduto con un po’ di polemica delusione nei confronti
    dell’altro giornale.

  40. (Continuo il commento postandolo a pezzi per difficolta’ informatiche; per lo stesso
    motivo vado a capo un po’ bizzarramente).
    L’intervento esce ora su “Il miracolo, il mistero, l’autorita’”, numero 6 del
    Primo Amore, ma l’ho scritto in aprile (sono i tempi tecnici di pubblicazione
    della nostra rivista), ben prima della sentenza di Strasburgo e dei dibattiti
    su crocefissi ecc.

  41. Per il resto, non sono d’accordo con te sulla non opportunita’ politica di
    un tema come questo. Il mio intervento si chiede se la cristianita’ ha il
    coraggio di ammettere il suo vero centro, che e’ un luogo vuoto, una reticenza testuale
    (Cfr. i vangeli che non descrivono la resurrezione, vero fondamento
    della religione egemonica nel nostro Paese – argomento non politico,
    Andrea?) una tomba disabitata, o preferisce continuare a sedare
    il suo horror vacui con l’horror della croce.

  42. In generale, ognuno dia il suo contributo su cio’ che lo tocca davvero,
    e’ l’unica premessa alla scrittura di pagine necessarie, intense e (forse)
    utili, e ad evitare temini magari politicamente ortodossi ma inerti.
    A me questo tema toccava una corda vera, e guardacaso l’ho scritto
    prima dei dibattiti sul crocefisso, anche se per motivi editoriali e’ uscito
    dopo.

  43. Chiudo (scusandomi ancora per essere stato costretto dal collegamento
    precario a scrivere questo commento a singhiozzo) con una notizia:
    proprio oggi il Corriere del Veneto (pagine locali del Corriere della Sera)
    dava molto risalto alla polemica per l’innalzamento di un crocifisso di 3
    metri nel cortile di palazzo Rinaldi, sede dell’amministrazione comunale
    di Treviso, crocifisso voluto dalla giunta leghista. Con dure critiche di
    sacerdoti impegnati nel sociale, a cui non sfugge la strumentalizzazione
    di pura faccciata. Per esempio: “E’ un attentato al cuore del cristianesimo.
    Non si puo’ esibire un crocifisso nel giardino del Comune e poi sbatterlo
    sulla testa degli immigrati” ha dichiarato don Giuliano Vallotto, della
    Caritas trevigiana. Eccetera. Grazie Andrea, buonanotte.

  44. Non entro nel merito della polemica sul luogo (Libero) e sull’opportunita’ del momento (i crocifissi in classe, l’ho scritto prima l’ho scritto dopo).

    Il testo di Scarpa e’ semplicemente sciocco.

    ‘La croce è uno dei segni più potenti che ci siano. Anche perché definisce uno spazio, crea la superficie circostante. L’incrocio fra una riga verticale e una orizzontale basta a costituire un piano, rappresenta la più efficace sintesi della bidimensionalità. Due assi cartesiani ortogonali: un segmento alto-basso e un altro destra-sinistra, ed ecco che questo incontro elementare rivela la presenza di una facciata, di un piano. ‘

    Questa frase, forse letterariamente ben scritta (ma anche su questo ci sarebbe da dire…), e’ grossolana e vacua quanto mai. Non argomenta nulla e non ha alcuna base storica; se ne potrebbero fare a bizzeffe decantando la spazialita’ generativa del cerchio, la potenza del rettangolo o l’avvitamento instabile e barocco del maccherone.

    I riferimenti artistici sono tutti strampalati, goffi, quasi ridicoli vista la pretenziosita’ dell’autore
    ‘ Piero della Francesca, Andrea Mantenga, Giovanni Bellini, Pinturicchio, Raffaello, Matthias Grünewald, Giovan Battista Tiepolo: sono tutti piuttosto enfatici, trionfalistici, con quello stendardo in mano a Gesù, così retorico. E poi sono immagini frontali: il risorto si mette di faccia a noi che guardiamo, teatralmente, come in un boccascena, o davanti a una macchina fotografica’.
    Il finale con Yves Klein e’ la ciliegina sulla torta, ma Scarpa probabilmente teme di essere smentito e quindi piazza li’ la cosa in modo che cerca di essere suggestivo, senza il becco di un chiarimento.

    Non entro nel merito di questioni storiche riguardanti i Vangeli, i Vangeli apocrifi e la levitazione assistita. La mancanza di problematicta’ e di storicita’ del testo di Scarpa sono lampanti.

    Ma non e’ che questo articolo, ‘il cortocircuito è vertiginoso’, era stato ‘parcheggiato’ per tre settimane perche’ non vale niente?

  45. Raccolgo l’invito di Andrea (abbiamo discusso, del resto, e ci troviamo d’accordo sulla questione). Nessuno mette in discussione il fatto che si possa parlare di ogni argomento che riguardi l’umano: anzi, si deve. E aggiungo, pure l’Inattualità è un valore. Detto questo, però, all’intellettuale si chiede di prendere posizione (ciò che significa: etica; l’etica, per me, è un fatto di posizione e di ad-finitas). Ogni gesto che un uomo fa è inscritto in uno spazio, ed è inscritto in un flusso di relazioni: per questo ogni gesto è politico, volenti o nolenti. Fatta questa premessa (mi si perdoni, ma credo sia necessario partire da una chiarificazione del proprio dizionario per non incappare in fraintendimenti): io credo che tu, Tiziano, eluda troppo facilmente la questione della pubblicazione su Libero. Che è il giornale più feroce e ferocemente violento (violenza verbale, manipolatoria) nonché più berlusconianamente schierato della nostra epoca. E la motivazione che dai non cambia nulla (anzi: a prenderla per buona, a mio parere peggiora le cose: nel senso che non si compie un gesto senza aderirvi intimamente, ma solo perché offesi nel proprio orgoglio per essere stati parcheggiati – anche a me è capitato di essere parcheggiato, ma non ho pubblicato su Libero, se mai su NI, certo non ho vinto lo Strega ma credo che questo sia irrilevante no?). Dunque si tratta di valutare un gesto politico. (Ciò che non è, mai, giudizio su una persona, la quale consiste nell’insieme delle sue azioni).
    Vogliamo fare un discorso sui contesti? Vogliamo dire che cosa diventa un testo – al di là del suo contenuto – inscritto nel discorso “culturale” (in senso antropologico) e “politico” di marca più bassa e feroce dai tempi del Popolo d’Italia? Vogliamo parlare di che cosa significa – collaborando a quelle pagine – legittimare quel discorso, accettandone l’impostazione? Quel testo rimane lo stesso ovunque o viene “marcato” dal contesto specifico? I fruitori di un testo non contano nulla nella qualificazione del testo stesso? Ecco, io credo che si tratti di questo, ed è su questo che dovremmo confrontarci.

  46. Francamente, ‘sto discorso su Libero mi pare parziale, un modo di lavarsi la coscienza, almeno se si evita di dire le stesse cose per la pubblicazione con Mondadori, Einaudi, etc.. A meno che non si creda che i “contesti”, in questo secondo caso, siano neutri. Ammettiamolo: chi vive in un regime capitalistico non può che “collaborare”; per necessità, per scelta, per ricatto indiretto, per incapacità di fare altro … Per di più, se vogliamo essere almeno logici, anche collaborare alla versione attuale dell’Unità è contribuire all’affermazione di un pensiero perfettamente integrato con questi tempi, per non parlare poi di chi collabora a La Stampa, giornale, mi sia permesso, padronale (si leggano gli editoriali di sostegno alla Fiat e contro i sindacati, ad esempio, o il modo con cui è stato esaltato il discorso di Obama sulla “guerra giusta”) … Insomma, un po’ di coerenza nell’affrontare questo discorso sarebbe opportuna. Si vuole stare fuori motivando politicamente la propria estraneità? Bene, ci sono; ma il discorso abbracci l’interezza della questione, non la propria convenienza.

    saverio

  47. L’ho già detto in privato, e ripeto pubblicamente: vi sono alcuni “fondamentali” che forniscono un frame di condivisione, e all’interno di questi si può discutere, dibattere, anche aspramente, ma comunque con un riferimento comune ad alcuni principi intangibili. In questo contesto io ci sto. In contesti che invece violano costantemente quei “fondamentali”, ecco, lì viene meno quel “comune” che mi consente di venire sul tuo terreno, di entrare nel tuo spazio. (Insomma, per fare il soliito esempio limite: nella Germania nazista con Goebbels ci avresti discusso? Avresti scritto sul suo foglio? No, credo. Ecco, allora, quali sono i criteri che non mi consentono di farlo? Appunto, io credo, un contesto che parta da una serie di principi minimi e fondamentali che consentano ad alcune posizione differenti di articolarsi e dispiegarsi).

  48. a Tiziano, anch’io al volo…

    gli elementi che mi hai dato sono importanti: 1) articolo scritto prima delle sentenza; 2) intento politico del mettere in secondo piano il simbolo della crocefissione;

    ok. Come mai, però, la mia impressione – leggendolo su PA e constatando che era apparso su Libero in questi giorni – è stata di delusione e irritazione? Va bene, sarò io esagerato, troppo intransigente… Ma impressioni simili le ho raccolte anche tra persone più “moderate”. Allora secondo me, fatte salve le tue intenzioni, qualche elemento di contesto che ha interferito su di esse si è effettivamente verificato.

    Ora se io avessi letto il tuo pezzo su PA, rivista o blog, in quello che è quel contesto, ti assicuro che non avrei avuto la stessa impressione. Magari il pezzo non mi sarebbe piaciuto, ma non ne avrei colto la sua inopportunità politica. Stessa cosa, probabilmente, se lo avessi letto su un giornale di sinistra. E sopratutto se lo avessi letto prima dell’uscita della sentenza e di ciò che ha scatenato. Invece, sapendolo su Libero, mi ha fatto tutto un altro effetto. Si è imposta una visione tipo “gestaltica”, dove il tuo pezzo rientrava in un insieme più vasto, gli incontri di poeti come Rondoni a Roma e Mussapi-Kemeny a Milano sulla bellezza, ecc.

    E qui riprendo la mia prima critica, ma la riformulo dopo quanto mi hai detto. Ora il problema non è pubblicare su Libero, ma pubblicare lì qualcosa che sia davvero scomodo per loro. Il contenuto del tuo pezzo è in qualche modo scomodo, ma bisognava renderlo tale anche sul piano dell’espressione, a costo di semplificare, di tagliare un po’ di riferimenti pittorici, di rendere la tesi più graffiante, e sopratutto di esplicitarne le conclusioni in termini apertamente politici. Con questa destra, nessun implicito politico.

    Non è che ti voglio dire cosa avresti dovuto scrivere. Ma ti dico che cosa non avrebbe innescato la mia impressione di docilità culturale.

    E in definitiva era così necessario, per uno come te, pubblicare quel pezzo proprio su Libero e proprio adesso?

    Tiziano non è una questione di restrizione di libertà. “Dei tromboni politici vogliono limitare la libertà dello scrittore.” E’ una questione di dignità e importanza di quanto tu scrivi, di quanto noi scriviamo. La responsabilità è anche questo. Evitare che qualcosa di preziosa possa essere strumentalizzato o apparire in un contesto confuso, e suscitare reazioni opposte alle proprie intenzioni.

    In definitiva, io credo che di questa discussione si potrebbe tenere salva la figura del malinteso: la tua intenzione a fronte dell’intenzione che io ti ho prestato. Posto che entrambi siamo in buona fede, allora c’è da riflettere su quello che in questo contesto, culturale e politico, può suscitare tali malintesi.

    Un saluto, e stavolta sparisco per due giorni. Ma cercherò di leggere.

  49. a saverio,

    il discorso non è semplicemente come stare fuori, come se si potesse stare completamente fuori, il discorso è come stare quando si sta dentro qualcosa, e vale per l’Unita la stampa come e ancor di più, oggi, per Libero. E poi, qui il discorso è stato appena aperto. Ed è di tante cose che si vuole discutere.

  50. Il mio libro recente è stato edito da Feltrinelli. E spero di poterlo fare ancora. Detto questo, però: vi è una grossa differenza tra quotidiano – che ha una linea politica precisa, che determina il contesto, il frame di ogni pezzo inscritto al suo interno – e casa editrice – dove la linea politica coincide con il catalogo, e la pluralità delle singolarità dei libri. Dopodiché è evidente che se tutti quanti boicottassimo Mondadori e Einaudi e tutte le aziende di Berlusconi gli infliggerremmo un bel colpo (ho lavorato per due anni alla Guida al consumo critico, e ci ho creduto molto nell’efficacia politica del boicottaggio; poi mi sono reso conto che se non si danno le condizioni sociali adatte risulta un’arma spuntata: testimoniale, certo, e dunque profondamente etica, ma spuntata; e dunque credo che sia legittimo in questo campo calcolare costi e benefici, e intendo dire benefici in termini di diffusione e visibilità del testo). Arma profondamente etica e politica, dunque, ma si tratta di un piano differente (e di uno “step” successivo, per dirla in una lingua aborrita).
    Scusa ma adesso devo tornare in classe, torno nel pomeriggio.

  51. @ Inglese
    mi pare un po’ ingenuo quello che scrive. Lei crede davvero che se l’articolo di Scarpa fosse stato esplicitamente “differente” rispetto alle posizioni lì espresse lo avrebbero pubblicato? Oppure che, lavorando per La Stampa, le permetterebbero di pubblicare un’analisi dei guasti prodotti dalla Fiat (tipo i milioni ricevuti dalla CEE per Termini che ora chiudono)? Stare dentro vuol dire accettarne i condizionamenti; mi pare banale …

    @ Rovelli
    Ma allora perché Einaudi non ha pubblicato Belpoliti o Saramago? Avrebbero sfigurato nel catalogo?

    saverio

  52. Può esistere il sacro senza controcanto del profano? La poesia civile di-svela l’inganno della storia. Ma la storia è altro. La storia siamo noi hanno cantato. Ma è anche oltre il noi. Di-svelare la storia può essere un operazione vicina al compiere il peccato originale: che nessuno sveli il mistero del bene e del male. E chi tocca può morire. Può scoprire cose che gli umani non potrebbero accettare: che l’Italia è stata liberata dai nazisti anche grazie alla mafia. Che Lenin fece la rivoluzione con i soldi dei tedeschi. Che la bomba di Hiroscima era assolutamente inutile. Che Togliatti odiava Gramsci. Che i funerali di Berlinguer furono celebrati su Rete 4 e Belusconi prima che fosse Berlusconi piaceva al Manifesto.
    In questo suo dis-velare la storia (le storie), come hanno insegnato persone come Pasolini e Sciascia, scoprendo il velo del bene e del male, la poesia civile è religiosa, allo stesso tempo sacra e profana.
    E la poesia di Andrea Inglese è civile.
    PS: Andrea, sarebbe un discorso da riprendere e continuare…
    PVita

  53. In effetti Inglese fa benissimo a ricordare che, anche se scritto solo da lui, questo pezzo prende le mosse da una discussione collettiva che procede da un po’ di tempo all’interno di Nazione Indiana. Discussione incentrata non sul pezzo di Scarpa in particolare – anche perché iniziata un bel po’ prima – ma più o meno sui temi richiamati da Rovelli.

    Spero che questa discussione avrà presto degli esiti pubblici, in forme che stiamo ancora stabilendo.

    Nel frattempo. Per parte mia pensavo anni fa che, in Italia, oggi, dovrebbe essere fondamentale per uno scrittore interrogarsi sui contesti in cui cadono le sue parole. Soprattutto se sono parole di arte, di poesia, di “bellezza”, e quindi troppo facilmente manipolabili o disinnescabili dall’inculturame imperante.

    Lo pensavo ai tempi di una polemica mia e di Inglese con Berardinelli che qualche anno fa ebbe una certa risonanza – all’interno del pezzo firmato da noi due le frasi più dure in questo senso erano state scritte da me:

    https://www.nazioneindiana.com/2006/02/01/lettera-aperta-ad-alfonso-berardinellli/

    Nella società e nella politica italiane di oggi non vedo nulla – sarei felicissimo di sbagliarmi – che possa farmi cambiare idea.

    *

    A questo aggiungerei che reputo oggi più che mai indispensabile un allargamento dal basso dei mezzi di diffusione della cultura (credo che i blog non bastino più), perché la situazione attuale mi sembra di sostanziale stallo, e crea tensioni e contorcimenti – questa discussione ne è possibile testimonianza – che non avrebbero luogo di essere in un paese di autentica democrazia culturale. Nazione Indiana lancerà presto un’iniziativa in questo senso – e il Primo amore cartaceo, Scarpa fa benissimo a ricordarlo, è del resto un ottimo esempio di questa stessa esigenza.

    *

    Per finire, penso a volte che sarebbe bellissimo riuscire a dare visibilità, importanza e pregnanza reali, a scritture e scrittori a cui “Libero” (o “Il riformista”, o “Il foglio”, o “Repubblica”) mai e poi mai si sognerebbero di chiedere collaborazioni. Far saltare il banchetto dei piccoli equilibri fra scritture a livello formale – il livello cioè a cui tutto davvero si gioca in temini cruciali – sostanzialmente omogenee.

  54. Oh che bello, il processo politicistico a Scarpa!
    Dai che ci divertiamo a fargli la lezioncina da tromboni maestrini elementari
    sui contesti e le cornici e le risignificazioni situazionali (ohibo’ ohibo’ tutte
    cose che non sapevo e imparo grazie al prezioso apporto di Marco
    Rovelli). Magari agitandogli anche il Popolo d’Italia sotto il naso, cosi’ la sentenza del tribunale
    politicista e’ piu’ solenne e melodrammaticamente effettistica…

    E il fatto che si puo’ anche decidere di andare a predicare in partibus infidelium?
    Mai sentito, Marco Rovelli?
    Visto che siamo in argomento religioso, Gesu’ parlava con
    tutti, e benche’ io sia indegnissimo di cotanto confronto, qualche
    esempio bisogna pur prenderlo dai migliori.
    Ripeto: Andrea e Marco Rovelli, l’avete letta bene, la nota in fondo al post?
    Ho concesso a Libero la facolta’ di pubblicare il pezzo per delusione
    polemica nei confronti di altri giornali che si dichiarano interessati ma solo a parole, perche’ dell’apporto alle questioni pubbliche da parte di scrittori, intellettuali,
    “poeti & affini” non gli interessa nulla. E la questione
    non e’ affatto di orgoglio personale (?! Marco Rovelli, ti fondi su pregiudizi antropopsicologici negativissimi,
    dando per scontate motivazioni di ‘orgoglio personale’ e non valutazioni
    sociopolitiche) caro Marco Rovelli, e’ una questione generalissima,
    di politica culturale dei giornali e dei media in generale (ti dice nulla il fatto
    che ne stiamo discutendo in rete?…).
    Ma permettimi di non affrontare qui l’argomento, ci tornero’ in maniera articolata
    fra qualche settimana.

    Tu non hai mai pubblicato in certi postacci, caro Marco Rovelli?
    Bravo, mi complimento con te. Sei senza peccato, puoi scagliarmi
    la seconda pietra, dopo quella di Andrea Inglese.
    Ma, scusate, visto l’uso strumentale e ipocrita dei simboli
    cristiani, dove andare a fare certi discorsi, se non a casa di chi fa quell’uso,
    rivolgendosi ai loro lettori?
    Quindi, sebbene non posso prendermene tutto il merito (e’ andata cosi’ anche un
    po’ per caso: e’ arrivata una richiesta, ci ho pensato bene e ho detto si’),
    che il pezzo sia uscito su Libero e’ forse la cosa migliore che
    poteva capitare a QUEL mio singolo discorso. Diciamo che la considero una
    fortunata incursione in casa di un avversario politico. Non mi importa
    di mantenermi casto e puro, mi sporco volentieri. Si decide caso per caso.

    Che poi il testo sia sembrato sciocco a qualcuno, mi va benissimo.
    E’ da vent’anni che pubblico, e’ da vent’anni che a molti risulto produttore di
    sciocchezze, e’ normale. Mi permetto comunque di far notare che e’ un estratto,
    una riduzione da un testo lungo almeno il triplo. Nel pezzo originale (sulla rivista
    cartacea) per dire, si parla pure di rettangoli ;-)

  55. Caro Andrea (Raos), nel mio commento precedente mi riferivo a Andrea
    Inglese, non a te: mentre lo scrivevo, anch’io lentissimamente (sul telefonino!)
    Sono stati postati altri commenti, fra cui quello molto pacato di Andrea Inglese
    (grazie). Sono d’accordissimo con te su quel che dici riguardo al dare
    “visibilita’, importanza e pregnanza reali” su media e giornali
    a tanti scrittori, intellettuali, poeti e affini del tutto occultati ( l’ho gia’ scritto
    su Repubblica quest’estate)

  56. Credo sia poco proficuo pretendere che gli altri si comportino come ci comporteremo noi. Se Scarpa ha ritenuto opportuno pubblicare il suo articolo su Libero avrà avuto le sue ragioni, così come le ha chi scrive su L’Unità o su La Stampa. Mi fermo a quello che scrivono e su ciò li giudico.

    Certo, ha la sua importanza discutere dei “contesti”. Però …

    … Dire, come fa Inglese, che oggi siamo in “situazione di pericolo”, è esagerato: intanto perché lo si poteva dire anche 30, 20 o 10 anni fa (direi: sempre siamo in pericolo), e poi perché il pericolo vero è la riaffermazione dell’egemonia USA a firma di Obama, che aprirà fronti di crisi e di guerre ben peggiori delle precedenti a firma Bush. Il problema è: quale formazione politica, o quale politico, garantirà a Obama la partecipazione dell’Italia alle sue mire egemoniche? Se davvero si vuole discutere dei “pericoli” del contesto e delle ricadute dei propri comportamenti, allora sarebbe opportuno definire il contesto uscendo dalle immagini mediatiche à-là-Repubblica, che non sono la realtà …

    saverio

  57. Testo provocatorio e da condividere in toto, nello spirito.
    Nel merito, non biasimerei però chi parla d’altro rispetto alle infinite vergogne nefandezze di questo regime, ma a chi parla, appunto, solo d’altro, comodamente, vigliaccamente, per proprio interesse personale. Penso con tristezza e rabbia, a volte, a chi abbia deciso di campare da giornalista o scrittore al soldo del padrone, mentendo e omettendo verità evidenti a tutti; sono tanti, tantissimi, nella rai, nelle reti private, nei giornali; professionisti della menzogna spesso cattivi, spietati e diabolici nel difendere l’indifendibile.

  58. Anzitutto prendo atto, caro “Tiziano Scarpa”, che lei non accetta critiche. A partire dalla sua retorica nei miei confronti, reiterando quel “Marco Rovelli” che mi ricorda tanto la retorica che i berlusconoidi mettono in atto nelle trasmissioni televisive. (Guardi la prevengo, è inutile che dica “ma è il suo nome”, sappiamo benissimo che la sua intenzione da bravo retore è quella di svalutare l’interlocutore). Io mi sono rivolto a lei civilmente. Lei no. Su queste basi non c’è discussione, si tenga saldo alle sue cose, la saluto.

  59. Il pubblico della poesia e della critica, in Italia, è scomparso. Poeti e critici vagano nel nostro Paese come sonnambuli che la gente scansa, incredula. A che serve la poesia? Come potrebbe sopravvivere nel mondo dell’informazione? Le stesse domande che Montale poneva urbi et orbi nel discorso del Nobel (1975) trovano oggi una risposta chiara nei «niente» e «in nessun modo» che echeggiano da un ministero a un’aula di scuola a un programma tv.

    http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200912articoli/50244girata.asp

  60. Se processo politicistico deve da esse’, a me piacerebbe che si facesse alle testate di sinistra piene di figli di boiardi e che poi rifiutano scrittori come Scarpa e pezzi come quello, perché di politica culturale si tratta.

  61. Caro Marco Rovelli,
    c’e’ un equivoco, credimi.
    Sto scrivendo sul telefonino, faccio una fatica boia, e’ peggio di
    un collegamento a 56k e sempre con il rischio che quando do
    il clic di invio non mi prenda il testo e debba riscrivere tutto.
    Percio’, scrivendo rocambolescamente in questo modo, ho reiterato
    i vocativi solo come indicatori di chi erano gli autori degli argomenti a cui,
    di volta in volta, riga dopo riga, rispondevo: ne e’ venuta fuori
    una “reiterazione d’appello” forse retoricamente infelice, ma,credimi,
    senza alcuna intenzione irrispettosa (e comunque non mi sembra
    affatto grave, ma lasciamo perdere; noto che hai un’accusa facile di
    berlusconoidismo, fascistismo, collaborazionismo; e’ per l’appunto
    l’attitudine politicistica – e non veramente politica, nota bene – che ti
    contesto, a te e a Andrea Inglese). Ti ripeto: ti chiedo un po’ di
    comprensione per le condizioni tecniche in cui mi trovo a
    intervenire. Ma se ti e’ sembrata un’irrisione del tuo nome e della
    tua persona, ti chiedo scusa.
    Quanto al non accettare critiche, non capisco questa tua osservazione.
    Se uno risponde e difende le sue ragioni, vuol dire che non accetta
    critiche? Io sono intervenuto nella discussione e ho risposto alle vostre
    critiche (Andrea Inglese mi ha pure ringraziato di essere intervenuto).
    Davvero non capisco.

  62. Ottimo Andrea R, giusta la precisazione. Stiamo preparando un intervento articolato che raccolga non solo analisi e impressioni dei redattori ma anche di quegli interlocutori che potrebbero aiutarci a ridisegnare una Carte degli intellettuali. Un processo sì, necessario e severissimo, ma non in senso giuridico, quanto dinamico di trasformazione del cinismo dominante – bieco e non certo rilevante filosoficamente, alla Sloterdijk, http://www.filosofico.net/sloterdijk.htm , per capirci – in un qualcosa d’altro, che si avvicini a un’idea come a una visione del mondo differente. Nessuno di noi qui (di molti di noi) ritiene che starà al cavaliere senza macchia di decidere cosa sia giusto o sbagliato fare per un intellettuale, con quale canone sparare nella folla delle nuove lettere, ma pretendere che il proprio percorso abbia un senso politico, e che dunque richieda atti di coerenza, quello sì che lo pensa. Non si tratta qui di un conflitto delle verità poetiche o stilistiche, e infatti Andrea Inglese non attacca i poeti che adoperano grammatiche differenti dalle sue, ma di un livello di consapevolezza che sia disponibile a tradursi in un rifiuto. Dirsi, ecco, a prescindere dagli spazi che mi vengono offerti la mia scelta cadrà sulle persone con cui condividerò quegli spazi. Quello che invece succede oggi, tiziano, è che ci si sente tutti, in minore o maggior misura, legittimati a tutto, e questo a prescindere proprio dai percorsi che come tu lo hai ricordato, sono costati e costano, fatica, isolamento, messa da parte. Non si tratta qui di decidere chi sia un figlio di puttana, e chi no, quali siano i giornali di sinistra o quelli di destra. Qualche tempo fa a Parma ebbi una discussione pubblica con Cortellessa che rivendicava, argomentando, la propria “simpatia” verso quei poeti la cui parola si accompagnava alla coerenza della vita, politica e morale. Ineccepibile, come discorso, e più che condivisibile. Bene, ma allora come spiegare l’amore che molti di noi hanno per le scritture di Cèline, Pound, Drieu La Rochelle? Non è facile tagliare in due il mondo tra collabò e non collabò, se non alla condizione di lasciare eluse molte domande. Perché Sartre che fa rappresentare Les Mouches in un teatro interdetto agli ebrei, durante l’occupazione nazista sarebbe meno colpevole di Cèline?
    Oggi è importante non tanto pubblicare per feltrinelli – vogliamo parlare della strage di piccole e medie librerie compiuta dai megastore feltrinelli?-piuttosto che con Einaudi,o Mondadori ovvero partecipare agli utili di un gruppo economico rispetto a un altro quanto dare alla propria parola il peso che merita e non rimangiarsela e poi con un ruttino tirarsi fuori dalla mischia. C’è una battaglia che è cominciata con “lettere dal fronte occidentale,” e che è tuttora in corso. Alcuni di voi la chiamavano, forse ingenuamente Restaurazione, alcuni di noi altrettanto ingenuamente preferiscono il termine Reazione. Libero è un giornale della Reazione. A te ti andrebbe di passare per una voce della Reazione?
    Termino poi con un’osservazione ovvero che l’unico processo politico a mezzo stampa lo stanno facendo a NI proprio quei giornali in cui tu, malgrè toi ti sei trovato a pubblicare. Dove un tizio scrive un illuminante pezzo che si conclude così:

    “Nazione Indiana non è il nemico, e non sono inferiori. Sono probabilmente degli imbecilli. È diverso.”

    Ecco io a quel tale ho voglia di replicare che è un pirla, e se scrive su Libero, ho tutto il dovere di dire che chi scrive su Libero è un pirla, non un collabò.
    Collabos (collaborazionisti) erano infatti coloro che nella Francia occupata dai Nazisti prestarono la propria collaborazione a quel regime. Pirla sono coloro che credono che un paese allo sfascio , nelle sue più elementari strutture, sia un paese che possa rendere felici i suoi abitanti.
    effeffe

  63. C’è del patetismo e una comicità involontaria nelle torsioni moralistiche che Inglese e Rovelli infliggono a Scarpa. Il loro errore di prospettiva sta nel considerare Scarpa un interlocutore, quando il nostro non fa altro che portare a casa il suo “sporco” lavoro, come lui stesso dice sopra.

    I due si beccano l’accusa di politicismo. Beh, certo, come dire: Inglese e Rovelli vedete draghi ovunque, considerate piuttosto il versante possibilistico e generalistico; che male c’è a giocare nel campo avversario, siamo tutti un pugno di amici, il gotha borghese, esiziale e noioso.
    La coerenza è roba da idioti.
    Se fossimo delle persone serie non cercheremmo interlocutori fra mondadoriani o einaudiani. L’indugio nasce quando il ruolo assume sembianza d’inclusività e inscatola disinnescando.

    Non possiamo passare gli anni a raccogliere firme contro il padrone e ingrassare il padrone. Capiamo bene che, come minimo, siamo nella schizomorfia.
    Volete dirmi a che punto siamo arrivati?
    Dimettetevi, abbandonate il clamore o date fuoco al fiacco lezzo della secolarizzazione!

  64. Non si tratta di fare un Albo dei Buoni e una Lavagna dei Cattivi. Si tratta di operare una critica, materialisticamente condotta, del sistema di produzione dell’industria culturale nella quale, bene o male e tra mille gradi diversi di incoerenza, tutti quanti ci troviamo ad operare.
    Per esempio “Alias”, una testata sulla quale ho scritto per nove anni, solo un paio di settimane fa ha deciso di dedicare (per iniziativa di Marco Bascetta) uno spazio organico al problema delle concentrazioni editoriali. Bene, benissimo: meglio tardi – tardissimo – che mai (e pazienza se a suo tempo la medesima testata non ritenne opportuno spendere una parola sul numero monografico che “il verri” dedicò, nel 2007, alla “Bibliodiversità”; o che Bascetta, che era presente a uno dei soli due dibattiti che l’iniziativa suscitò, al centro sociale ESC di Roma, oggi non ricordi quel precedente).
    Per esempio, scrivevo poco fa a un redattore di Nazione Indiana commentando la questione-Scarpa, bisognerebbe ripensare il concetto di “egemonia culturale” (che, come si vede, è tutt’altro che un ferro vecchio) alla luce di tali condizioni, evidentemente mutate dai tempi di Gramsci.
    Ho l’impressione che il percorso che ha portato ad acconsentire che propri scritti apparissero su “Libero” due scrittori e intellettuali più o meno coetanei come Tiziano Scarpa e Paolo Nori (che, per inciso, hanno scarsissima simpatia reciproca) sia stato profondamente diverso, e vorrei che Scarpa illustrasse nel dettaglio il suo: affinché la discussione possa essere meno viziata da sottintesi & pregiudizi. (Paolo ha avuto diverse settimane per spiegarsi, ma non l’ha fatto se non con due interventi – http://www.paolonori.it/su-libero/ e http://www.paolonori.it/il-mestiere/ che hanno lasciato insoddisfatto non solo me.)
    Resta il fatto che, così come è stato prontamente fatto con Nori, “Libero” potrà da ora in poi vantare di avere “fra i propri collaboratori” (il che, sostiene Scarpa, non è esatto; ma che ivi non alligni il massimo della correttezza non dovrebbe appunto stupirlo) appunto due fra i migliori autori della mia generazione.
    E questa è, complessivamente parlando, una sconfitta. Una sconfitta per una generazione, la mia, che era forse l’ultima a vedere questo problema (quelle dopo la mia temo che non se lo pongano neppure). Una generazione che, senza mai accampare pretese di purezza essendo consapevole di dover accettare un’infinità di compromessi, aveva posto a se stessa dei paletti (come ha scritto qui Alcor) e, a prezzo anche di sacrifici, quei paletti aveva deciso di non oltrepassare. Questi paletti, si constata ora con tristezza, per un motivo o per l’altro oggi sembrano non avere più valore. E’ questa la nostra sconfitta. Dobbiamo prenderne atto: e dunque lavorare – da subito e senza sconti – per ridiscutere le nostre categorie, i nostri limiti, il nostro vivere comune. Se oggi viene ideologicamente oltraggiata e disinvestita della propria nobiltà e criticità una delle categorie che una vita fa provvedevano a unirci e a confederarci – cioè il lavoro – è proprio dai vincoli e dalle aporie che ci impone il nostro lavoro che possiamo, dobbiamo, ripartire.

  65. Caro Francesco, fai bene a ricordare che e’ un percorso
    che e’ iniziato da “Scrivere sul fronte
    occidentale”, vale a dire che (lo dico a Rendo) che le condizioni
    per l’interlocuzione qui dentro le ho fondate
    (anche) io. Basta leggere proprio le pagine di quel libro
    per vedere da dove vengono i semi di
    Nazione Indiana, dove anche Rendo puo’ venire qui a dire la sua…

    In generale, constato che e’ divertente essere contestati
    proprio nel posto che, se non ci fossi stato (anche) io,
    non esisterebbe nemmeno.

    Poi, caro Francesco, le ragioni della mia (singola e tematicamente motivata)
    incursione in terra avversaria le ho gia’ ampiamente spiegate.
    Chi ha avuto voglia di leggere ha letto.

  66. concordo sostanzialmente con cortellessa, non si può buttare la croce addosso – mo’ ci vuole il fatto si dice a napoli – a scarpa, nè con ciò buttarsi alle spalle il rigore e la coerenza…altro non si può che tendere verso questo rigore, ridurre i compromessi, tenere alta la guardia per non assuefarsi (personalmente credo di aver salvato la purezza nel campo intellettuale, accettando tuttavia dei compromessi nell’attività “alimentaire” di cui vivo… per cui pietre a volte ne scaglio, ma sono appunto pietre d’avvertimento, pietre non micidiali…)

  67. Noto che Rendo se la prende pure con Saviano, mondadoriano
    e promotore di appello contro il padrone che Saviano ingrassa (secondo Rendo).
    Bene, la posizione di Rendo si commenta da se’, sono onorato
    di stare dalla parte di Roberto Saviano e di avere firmato il suo
    appello in rete, pochi minuti dopo che e’ comparso.

    Caro Andrea, ho spiegato ampiamente le ragioni per cui ho acconsentito
    alla pubblicazione di quell’estratto dal n. 6 del Primo Amore cartaceo.
    Non vedo perche’ devo entrare in dettagli che sarebbero puro gossip.
    Se poi quelli di Libero d’ora in poi mi considereranno loro collaboratore
    perche’ una tantum ho concesso loro la pubblicazione di un estratto… Mi sembra
    uno stracciarsi le vesti melodrammatico. E che
    tu da questo ne tragga come conclusione la sconfitta di un’intera generazione…
    Be’… Andrea… Che dirti? Addirittura? Potrei montarmi la testa :-D

  68. Tiziano, abbiamo discusso a lungo. Ci sono alcuni aspetti, in quello che mi hai detto, che mi trovano molto d’accordo. E c’è una conseguenza, di tutto il tuo ragionamento, che mi fa disperare (se vuoi montarti la testa montatela; se non vuoi montartela considerati alla stregua di un sintomo – le cose nella sostanza non cambiano). Io dico che tu dovresti spiegarti meglio, senza per questo cadere nel gossip. Io dico che tutti noi dovremmo fare più nomi, mettere più piedi nel piatto, sostanziare le nostre analisi di più materialistica concretezza. Non sei tu, appunto, al fianco di Saviano che ha avuto e ha il coraggio di “fare i nomi”? (Gli insulti di Castelli, l’altro giorno, valgono più di qualsiasi premio letterario.)
    Senza fare gossip, diciamo le cose come stanno. E poi, se i nostri dissidi permangono, permangano pure. Ma smettiamo di menare fendenti alla cieca.

  69. Scusa Tiziano,
    quel posto, questo posto nazione Indiana, se fosse stato solo per voi non ci sarebbe più stato e invece esiste tuttora, e in modo molto diverso da com’era, e dunque anche da voi, come primo amore, grazie “soltanto” a noi.
    Detto questo, il tentativo che si sta facendo in termini di progetto critico dovrebbe essere in condizione di accogliere proprio sensibilità e percorsi diversi in una dimensione paritaria. Primo amore, wu-ming, Fuori formato, GAMM, NI, solo per citare alcune realtà laboratorio, per quanto attestate su posizioni molto diverse non possono prescindere da alcune realtà contingenti con cui chiunque faccia cultura è confrontato. Ci fu un tempo in cui quando si faceva radio la parola chiave era “commerciale” o meno, e sul fatto che si dovesse inserire o meno della pubblicità si consumarono le migliori menti della nostra generazione. Oggi la questione è: un autore lo è a prescindere dal progetto editoriale espresso dalla casa editrice? Da quello politico del giornale su cui scrive? Un autore deve e può identificarsi in una impresa anziché in un’altra? La concentrazione editoriale in atto di cui parla giustamente Cortellessa è un ostacolo alla vita di altri progetti editoriali. Se così non fosse perché allora tu, moresco e la benedetti non pubblicate soltanto con effigie? Allora bisogna dire che ogni autore deve rispondere al diktat del mercato nella maniera in cui il mercato ti chiede di rispondere, e quindi, visto che un autore può considerarsi importante solo nel momento in cui la tiratura delle sue copie supera le ventimila, e le vendite almeno la prima tiratura, deve per forza interloquire con “quelli lì”. O forse la letteratura può darsi altre leggi dal mercato? E poi, occorrono veramente delle leggi? insomma, io credo che alla nostra età, si possa anche smettere di fare gli enfants prodi-Je e tentare di ricostruire una rete che molti di noi, dall’alto o dal basso del filo su cui si dondolano, sanno perfettamente non esserci più.

    effeffe

  70. Caro Andrea,
    non posso fare adesso ne’ qui (scrivendo col telefonino, poi!) quel che mi
    chiedi. Ho ancora qualche settimana di impegni intensissimi, poi cerchero’
    di scrivere delle considerazioni, sia dettagliate che generali.
    Caro Francesco,non facciamo polemiche su NI. Capisco il tuo moto d’orgoglio,
    ma la realta’ e’ quella. Comunque la mia era una battuta. Metteva in evidenza
    il paradosso di chi si trova (non tu, Francesco) a contestare X su coerenza e
    presentabilita’ politica delle cornici, e lo fa da dentro la cornice che, se non ci fosse
    stato (anche) X, non esisterebbe e non avrebbe avuto l’avvio e la visibilita’ di cui
    chi e’ venuto dopo si e’ indubbiamente avvalso (mi pare che la testata non abbia
    cambiato nome, a parte il ritocchino del 2.0…).

  71. orgasmo e pregiudizio
    diceva il titolo di una commedia che davano ieri a Torino
    :-)
    effeffe
    ps,
    comunque con la calma e il tempo dovuto bisognerebbe ripensare pure a sta cosa della “visibilità” soprattutto in tempi di nebbia come questi. insomma a quei tic autoriali, da saranno fumosi – ancora la nebbia- che al di là della dimensione narcisistica, peraltro la più innocente, spesso diventa sintomo proprio della catastrofe generale in cui versano cultura e uomini e donne di cultura.

  72. Comunque, scusatemi ma e’ veramente sfibrante postare commenti con il telefonino,
    e con l’ansia che si inghiotta il testo.
    Mi sembra di avere avuto modo di esporre a sufficienza le mie ragioni, vi ringrazio della pazienza.
    Terro’ conto davvero delle vostre critiche. A parte la combattivita’
    dialettica, non sono mica sicuro che quel che faccio vada sempre e per forza bene,
    E’ chiaro.. In questo caso,
    mi sembra che le ragioni pro siano superiori a quelle contro, ma nel pensarla cosi’ potrei
    essere autoindulgente. C’e’ sempre un costo da pagare, e’ ovvio (chiedetevi
    anche solo questo: ma pensate che non lo sapessi, che ne scaturivano questo
    tipo di critiche, quando ho acconsentito a lasciar mettere quell’estratto su Libero?
    Che me ne viene, a me, a farmi pubblicare li’ dentro, se non ovvie, scontatissime reprimende
    dalla mia parte politica? Ebbene, per il tema specifico e proprio per la possibilita’
    di collocarlo in una cornice politica di una parte politica che i simboli cristiani tende a strumentalizzati, ho
    pensato che valesse la pena di pagare il prezzo delle reprimende. Ho sbagliato?
    Secondo alcuni di voi, si’. Terro’ conto del vostro punto di vista.
    Grazie della discussione

  73. Caro Forlani, dal tono adottato da Scarpa si evince sia la rete che il materasso sotto, in caso di improvvisa smagliatura.
    Scarpa e compagnia hanno fatto un’opera meritoria (“le condizioni
    per l’interlocuzione qui dentro le ho fondate (anche) io.”), sospetto vogliano un fragoroso applauso.
    Tuttavia, gli anni passano, e per alcuni passano male.

    Nazione Indiana nasce nel marzo 2003, Nabanassar nell’ottobre 2002. Da tempo dicevamo la nostra. Per dire che gli anni passano male, e, spesso, si aggrovigliano…

    Quanto alla moda “firma”: firma, firma, Scarpa, sei stato il primo? Ti hanno dato la tanto agognata medaglia??
    Rimane la coerenza. Non è possibile interloquire con chiunque. Troppe cose silenziate o date per scontate.

  74. Pur condividendo buona parte del discorso politico di Inglese, come sul fatto di invitare gli intellettuali non di regime a essere più incisivi e partecipi nella lotta quotidiana in corso, sono molto perplesso sulla “demonizzazione” di “libero” o di un qualsiasi altro quotidiano di destra, compreso “il giornale”, e malgrado le loro malefatte (oggettive) e il loro gioco “sporco” (gli esempi si sprecano). Perché se si considerano gli attori, non solo politici (che quelli, oggi come oggi, hanno un’autonomia pressoché zero dal mondo variegato dei blocchi di poteri forti, o occulti), ma soprattutto quelli economici, imprenditoriali e finanziari (il vero cuore del sistema), allora personalmente non mi va bene un eventuale ribaltone istituzionale che al posto di Berlusconi instauri il team di Draghi, Montezemolo, De Benedetti, Ciampi, Amato (vecchi o nuovi). Perché di “arrivano i nostri” sulla piazza non ce ne sono altri. Dunque scrivere su “Repubblica” o sull'”Unità” sarebbe meglio (politicamente, non già moralmente) che farlo su “Libero”? La differenza, a parte il bon ton e la noblesse dei primi due, riguarda solo i blocchi economico-finanziari-imprenditoriali che arbitrano la partita. E per dirla tutta, vedo il trasversale “partito americano” insediato nei gangli del potere economico-politico italiano, più dal lato degli “arrivano i nostri” che degli “assediati”. Almeno a livello di politica estera (a far data dal “misterioso” 2003), di Southstream, di geostrategie nella fase di passaggio, com’è quella attuale, complicata, certo, dal monopolarismo mondiale al multipolarismo prossimo venturo. Per cui, senza farla lunga, anche le foglioline massmediatiche italiane sono mosse dal vento geostrategico mondiale.

  75. @ robugliani
    La questione non è affatto lo schieramento politico, diciamo meglio partitico, di “Libero”. Fra l’altro, come ha fatto notare Borgonovo, “Libero” non appartiene affatto a Berlusconi. E’ lo “stile” linguistico e culturale, di “Libero”, a essere devastantemente diseducativo: è stata la cura Feltri che ne ha fatto il (devastante) successo popolare. Il che fra l’altro ha fatto sì che questo “stile” si vada diffondendo – come tutto ciò che, a torto o a ragione, ottiene successo – anche “dall’altra parte” (“altra”, appunto, partiticamente parlando). Non vedere questo significa essere ciechi.

  76. Scrivere (vale per tutti) per testate dove si afferma, tanto per fare uno dei 1000 esempi, che chi ha partecipato alla manifestazione del 5 Dicembre a Roma, è amico di Spatuzza, significa avere un gran bel pelo sullo stomaco oltre che, appunto, uniformarsi a una generale caduta di stile (definiamola così). Qualcuno nel 25′ aveva scritto un manifesto degli intellettuali del fascismo. Ora siamo in pieno regime, non ci sono manifesti, ma c’è un pensiero unico che convalida un manifesto virtuale/reale.

  77. Caro Andrea, scrivo di corsa ma ci tenevo a dire una cosa. Giorni fa ci siamo visti a Roma assieme a una mia amica che lavora nell’associazione dei produttori televisivi. Lei è rimasta sconcertata dalle tristi condizioni economiche in cui diverse persone che stimo e che gli ho presentato, nell’ambiente della scrittura, tipo te e Raimo, versano. Faceva istintivamente il parallelo con gli sceneggiatori, che conosce bene e che guadagnano cifre spropositate, e non si capacitava di come fosse possibile campare a quel modo. Ora, io ammiro la vostra coerenza di comportamento, ma mi chiedo dove ci sta portando. Ad aprire il proprio blog, a scrivere solo su riviste autoprodotte che parlano a un centinaio di persone? Non è solo una questione economica, ma di minima visibilità. A furia di imbarazzi si esce perfino dal Riformista perché è diventato proprietà di Angelucci. Io vorrei poter leggere i tuoi saggi non solo sul Verri o su riviste accademiche, e lo stesso di Tiziano, cioè non solo su Il Primo amore. Che questo ostracismo riguardi sia la destra che la sinistra è stato ben esemplificato dal caso di questo articolo di Scarpa, con l’aggravante che in teoria lui ora dovrebbe godere di una notorietà (per lo Strega) tale da farlo desiderare, più che costringerlo a proporsi come un free lance qualsiasi. Riflettiamo su questo, su quanto noi indiani letterari ci stiamo autorecludendo nelle riserve della rete, e sul dovere dei migliori di noi di parlare al più vasto pubblico possibile senza fare i Don Chisciotte, perché ognuno di noi dovrebbe essere un Don Chisciotte col suo Sancho Panza al seguito (l’ideale e il pratico).

  78. Caro Sergio, è proprio questo il discorso che vorrei leggere da Tiziano Scarpa, e che lui ora ci promette. Io, senza alcuna ironia, davvero non vedo l’ora di leggerlo. Come mi ha detto in privato (qui non faccio gossip, mi pare) ora, col ben noto premio del quale è stato rocambolescamente insignito, lui è in grado per un po’ di tempo di stare tranquillo senza dover rincorrere ogni settimana la marchetta di turno. E io sono sinceramente felice per lui, perché è uno scrittore di grande talento al quale però manca (l’ho anche scritto, di recente) un’opera “centrale”. Ma tale “inoperosità” (che è il triste rovescio del concetto liberatorio elaborato dai Blanchot, dai Nancy, dagli Agamben) resta invece la condizione di tutti noi, ancora asserviti alla macchina a ruota degli scoiattoli. Io sono poi un privilegiato, in quanto da tre anni percipiente uno stipendio statale come docente universitario (ciò malgrado, stante la mole a tutti nota di tali stipendi, corro nella ruota dello scoiattolo appena meno di quanto dovessi fare sino ad appunto tre anni fa). La discussione sulle condizioni materiali in cui “operiamo”, come vedi, è quanto mai urgente. Il che non toglie che ciascuno di noi debba capire in quale punto ci si debba fermare.
    Ma, torno a ripetere, né Nori (per quanto ho capito) né Scarpa (a quanto lui stesso ci dice, e non vedo perché dubitarne) hanno fatto la scelta che sappiamo in nome del tengofamiglia. Dunque il punto è un altro: e sta in quella metafora, secondo me poco centrata, del predicare “in partibus infidelium”. E’ su questo che tocca riflettere (ricordando sempre quel che diceva, al riguardo e da parte interessata, Franco Fortini).

  79. Torno adesso dalla manifestazione in piazza Fontana (ve lo dico perché è stato bello, un sacco di gente, di compagni, e la piazza chiusa, serrata con i poliziotti con sgudi e manganelli che hanno pur fatto volare, fino a che Formigoni e Moratti hanno lasciato campo libero, e solo allora siamo andati a suonare sull’aiuola dov’è la targa a Pinelli). Vedo comunque la dichiarazione di Tiziano, mi fa molto piacere: Tiziano e basta, allora:-).
    Nel frattempo, nella discussione mi pare si sia chiarito che non si tratta di processo politico, ma di voler portare avanti una riflessione comune,ovvero come ha detto Cortellessa la necessità di articolare una riflessione di”materialistica concretezza” (che come ha detto Francesco NI ha in animo di fare), per verificare quellache anch’io credo sia un’impossibilità di predicare in partibus infidelium, ché per predicare occorre pur parlare la stessa lingua, e credo che manchi, come dicevo più sopra, un minimo di vocabolario comune per farlo. Be’, buona serata a tutti.

  80. Torno a leggere dopo qualche giorno e vedo che su questo problema si torna a discutere.
    A parte il fatto che in partibus infidelium resta il luogo dal quale si è stati cacciati e nel quale non si può più predicare, senza gettare la croce addosso a nessuno, e senza ripetere cose già dette, mi chiedo, cosa si pensa che possa dare come risultato pubblicare su Libero o Il giornale?
    Si pensa davvero che possa aprire le mentidi quei lettori? Che abbia una valenza politica positiva? Che possa spostare le opinioni dei lettori di quei quotidiani? Si pensa di avere una tale forza da modificare il linguaggio, l’immaginario, di ampliare gli orizzonti di riflessione o addirittura di cambiarli?
    Se fosse così sarebbe una grandissima ingenuità.
    Perché allora?
    Forse perché, come dice robugliani tutto è uguale?
    Certo, se tutto è uguale si può avere la tentazione di praticare un esilio interiore. Ma siamo sicuri che tutto sia uguale, lo stesso dello stesso?
    Forse quello che ci vorrebbe sarebbe a questo punto una riflessione su cosa è la sinistra, perché a me pare evidente (a me) che la disillusione sulla sinistra porti a un singolare nichilismo. La sinistra non c’è più, perciò ci sono io solo, e quel che conta è solo ciò che scrivo, solo di questo sono responsabile. I confini? dissolti. Le differenze? risibili. I contesti? irrilevanti. I tempi? già marci e perduti.
    C’è una forma di estremismo astratto, a mio parere, dietro questa decisione di essere totalmente liberi di muoversi senza tener conto dei contesti, del momento, degli usi che del mio nome farà un giornale.
    Libero mi strumentalizza? affari suoi, non è grave. Io sono io.
    Ma io non credo che sia così semplice, penso al contrario che la presenza di autorevoli firme “di sinistra” su giornali peggio che di destra, diseducativi, (sono d’accordo con Cortellessa, diseducativi alla civiltà, per lo stile e il linguaggio) contribuisca a confonderli, quei confini, e a dare il via libera a molti incerti, meno saldi, meno esperti, più giovani, o anche solo più distratti.

    E anche per quella parte che non riguarda Scarpa e Nori, quella della pagnotta, ma davvero avete dimenticato come vivevano menti eccelse in passato? Joyce dando lezioni private, il primo che mi viene in mente, molti facendo lavori oscuri, inventando rivistine che non davano da mangiare a nessuno, ma che ancora studiamo. E che non venivano lette dalle masse, se si vuole essere letti dalle masse bisogna scrivere per le masse.

  81. @ cortellessa,
    sono d’accordo sullo stile, infatti quando nel commento riconoscevo più bon ton e noblesse a “repubblica” o all'”unità” che a “libero” istituivo questa differenza. Ma di superficie, a mio avviso, Va be’ che buffon e poi lacan sostenevano che lo stile è l’uomo, ma a me interessa andare oltre o più a fondo dello stile e del singolo uomo. Mi interessa, cioè, capire un po’ di più delle effettive forze economico-imprenditoriali-dinanziarie (scusa per la rozzezza terminologica, ma le cose hanno un nome) in campo, e qual è il loro gioco in termini complessivi, ossia geostrategici, in questa fase di passaggio (monopolarismo vs multipolarismo), in cui molto (se non tutto) se tient, stili a parte. Anche perché di “arrivano i nostri” da marte non ne vedo. Politicamente ho sempre sostenuto la posizione di “né X né Y”, di cui pro o contro si può dire tutto, utopia compresa, ma non che sia pragmatica. Né attualmente credo nelle c.d. “rivoluzioni colorate” che, come diceva recentemente un qualche analista (nordamericano) su un blog, assomigliano alle rivoluzioni tout court come il canada dry assomiglia alla birra. Ma prima di andare definitivamente OT, finisco con un PS: quanto alle devastazioni culturali, credo che più devastante-diseducativo sia un’ora di televisione (consociativa, pubblica o privata non è importante) che una settimana intera di lettura di “libero”. Ma ovviamente non si tratta di discettare di classifiche di agenti devstanti.

  82. “….E che non venivano lette dalle masse, se si vuole essere letti dalle masse bisogna scrivere per le masse”

    Uno dei più efferati dittatori della storia scriveva: «Tutti i grandi movimenti devono la loro origine a grandi oratori, non a grandi scrittori.» rispecchia un pò la nostra situazione, provate ad andare a parlare alle masse leghiste della Val Trompia…

  83. “credo che più devastante-diseducativo sia un’ora di televisione (consociativa, pubblica o privata non è importante) che una settimana intera di lettura di “libero”.

    Un’ora di Report, ad esempio, è molto più educativa di 10 anni di letture belpietriste…

  84. @ robugliani
    Ti sfugge, mi pare, che quando dico “stile” aggiungo “culturale” a “linguistico”. Non è questione di bon ton, ma di vero e proprio bombardamento al napalm di tutto il tessuto culturale nel quale, bene o male e tra il bene e il male, questo paese dopo la Liberazione (ironia dei titoli) si è formato. Un bombardamento al quale non partecipano, fra tutte le contraddizioni e con tutti i condizionamenti, né “l’Unità”, né “la Repubblica” (e nemmeno “Il Riformista” e nemmeno, a parte certi interludi sconcertanti, “Il Foglio”). Certo che è più diseducativa la televisione, non stiamo a ripeterci analisi annose; è un fatto che l’attuale situazione politica sia stata preparata da decenni di egemonia culturale che fondamentalmente è passata per la televisione. Ma un giornale come “Libero” compie uno step ulteriore, e inquietante: che fra l’altro segue e insieme alimenta l’imbarbarimento sempre più estremo del linguaggio televisivo. Accettare di collocarsi nella sua cornice significa né più né meno che trasmettere il messaggio del “liberi tutti” (ancora una volta, ironia dei titoli): dando cioè “il via libera a molti incerti, meno saldi, meno esperti, più giovani, o anche solo più distratti”, come dice qui sopra Alcor. Capisco e condivido, ripeto, alcuni degli argomenti di Scarpa; ma mi sgomenta come gli sfugga questo fondamentale passaggio. Mi spiace che si monti la testa, per questo, ma lui è nelle condizioni – ora e al di là delle sue intenzioni, gli piaccia o meno – di educare, oppure diseducare, i suoi più giovani ammiratori.
    A proposito. Anche non volendo ci si sente ingenui e insieme protervi, a parlare di potenziale “diseducativo”. Ma se c’è una cosa in cui la sinistra italiana ha davvero abdicato, e disastrosamente, è proprio il concetto di “educazione”. Decenni di veltronismo, non meno pernicioso che il berlusconismo, ci hanno inculcato quanto fosse cosa sana e giusta praticare sempre e comunque “la cultura del sì” che qualche tempo fa rivendicava (contro l'”ideologica” “cultura del no”) una giovane scrittrice a queste mie orecchie incredule. Mentre educare significa proprio, in fondo e alla radice, insegnare a dire no (e, prima, a “pensare no”). Ecco un compito che dobbiamo avere il coraggio di riassumerci.
    Mi si perdoni l’autobiografismo, ma l’esempio personale ha sempre un che di icastico. Qualche settimana fa ho cominciato all’Università dove insegno un corso sulle “Immagini della Shoah”. In una pausa della lezione, uno dei miei men che ventenni studenti ha pensato spiritoso farmi trovare sulla cattedra un mannello di fotocopie di “Mein Kampf”. Io non penso certo che fosse un giovane nazista; certo però era un giovane profondamente diseducato: da una scuola che, appunto, da tempo ha abdicato ai suoi compiti.

  85. @andrea
    forse quello di repubblica e del corriere non è un bombardamento al napalm, ma riempire le pagine culturali di recensioni dei libri sui vampiri, o appaltare l’inattualità a baricco e le analisi sociologiche al linguaggio da oroscopo di alberoni per me significa seminare diserbante a piene mani. queste discussioni sulla coerenza mi fanno l’effetto di un apparato di note relativo a un testo inesistente: è sui grandi quotidiani che dovreste esprimervi te e tiziano, non solo sul verri e sul primo amore. per questo ponevo l’accento sulla questione della visibilità, di cui quella economica è solo una conseguenza. e le maggiori responsabilità di tutto questo le hanno i giornali di sinistra. quando mi capitò di parlarne con un “senatore” ottuagenario di repubblica, uno di quelli che spesso lamentava nei suoi articoli il mancato rinnovamento della classe dirigente del PD (!), mi rispose con la nota battuta di mitterand, “ogni tanto una generazione salta”, come a dire che fra i miei coetanei non ce n’era nessuno che meritasse il posto. il post scriptum di tiziano io l’ho letto anche come una denuncia di questo stato di cose. ad autoconfinarsi orgogliosamente nelle riserve indiane ci si estingue.

  86. il concetto che cerco di far passare sempre nei miei interventi, e a cui l’uditorio si mostra sempre totalmente impermeabile, anche qui dove sembrava strettamente pertinente, è, stringendo, che nulla è più politico, oggi, che parlare del sacro, che non si riforma o ritrova nessuna vera alternativa senza fondarla in una redifinizione dei valori, senza accedere all’impensato, senza anticipare il punto d’attacco della critica, senza riformare la nostra percezione preliminare del mondo, senza fondarla in sostanza – come dovrebbe essere compito della letteratura – in uno spazio pre-antropologico, in quella ricezione patetica, onirica, liminare, metafisica del mondo di cui le analisi sociologiche e politicologiche sono solo una modalità – essendo il pensare null’altro che una modalità del sentire e del percepire. senza di ciò o si cade nel deprecato veltronismo – un sistema di valori che inverte semplicemente quelli della destra – o si finisce a discutere di stile o barbarie senza poterne giustificare il senso, o non si esce comunque dalle logiche parassitarie, o difensive, o miglioriste che portano infine alle contaminazioni coi sistemi di potere sopra discusse (peraltro anche nel microsistema di questo thread potrei agevolmente individuare una serie di logiche gerarchiche imitative di quelle dominanti…la differenza è solo che qui il potere è detenuto dallo scrittore, e non dall’imprenditore più famoso)… insomma si rinuncia alla radicalità.

  87. La cultura lavora sulla lunga distanza. Per questo, secondo me, sono più responsabili (dello sfascio attuale) L’Unità o Repubblica: perché hanno condotto, in questi anni, una battaglia culturale tesa a annullare ogni ipotesi alternativa al capitalismo. Hanno ucciso l’utopia concreta. Libero è ugualmente pericoloso, ma su un altro piano, che riguarda l’affermazione di un modo di vedere la vita che è comunque esterno a quanti vogliono modificarla in senso libertario. Insomma, Libero fa il suo (sporco) lavoro; sono gli altri che hanno abdicato (e perciò li ritengo peggiori). Politicamente riterrei screditare me stesso sia collaborando col “nemico” (Libero, Il Giornale, etc.), ma anche con chi mi è “nemico” in maniera più subdola (L’Unità, Repubblica, etc.). Non credo, l’ho già scritto, che uno possa aprire contraddizioni in spazi che sono strutturalmente chiusi. Libero accoglie scritti di Nori o di Scarpa; forse li accoglie perché non mettono in crisi alcunché (e la lettura degli articoli in questione me lo conferma). Questo è il problema: è possibile invadere uno spazio altro? No, non lo è. O meglio: lo puoi fare se non metti in crisi il tipo di pensiero che lì si propone. Diciamo che questi contesti-significanti neutralizzano i significati. Dopodiché, che Scarpa o Nori scrivano su Libero o su altre piazze a me avverse, sinceramente non mi frega un granché; è una loro contraddizione, e come tale risolvibile solo da loro stessi. Per me è più significante l’accettazione, da parte di Scarpa, del premio Strega, atto che anche simbolicamente, se così posso esprimermi, smerda quanto di buono ha fatto fin qui lo stesso Scarpa: è accettare il meccanismo della grande editoria che stritola ciò che non è consono. Di questo sarebbe stato più opportuno discutere, e non su un articoletto ospitato da Libero …

    saverio

  88. Di Scarpa non so come si muove perché il ruolo è diverso, ma mi pare che Cortellessa non si autoconfini, ma faccia invece una battaglia quotidiana per portare alla luce (ai lettori) scrittori diversi da quelli che di solito occupano le pagine dei quotidiani.
    Penso tuttavia che né Scarpa, né Cortellessa né Nori, né Moresco siano in grado di cambiare lo spirito del tempo.
    Spirito del tempo che ha spinto la letteratura a margine, accanto ad altri media.
    Parlo di letteratura, ovviamente, non di quella fiction anche ben fatta ma sostanzialmente effimera e commerciale che arricchisce i grandi gruppi editoriali o di quella pseudo letteratura che talenti rinunciatari eppur dotati di talento sfornano forse anche per mancanza di fiducia e di energia spirituale (vorrei il fazzoletto dell’impunità, per l’aggettivo “spirituale”).
    E per un orrore del fallimento, che ha cominciato a prender piede negli orrendi (per me) anni ’80, in cui se non si arrivava in qualche modo al successo si cadeva in depressione, malattia che ha toccato in pari modo tutti, a destra e a sinistra.
    Per fare letteratura oggi ci vuole tempra, ci è sempre voluta, ma oggi di più, perché il rischio di marginalità è più forte.
    Non è scrivendo su Libero che si arriverà al Corriere o a Repubblica, non è quella la strada per raggiungere i lettori. Le strade a mio avviso sono due, o il talento per essere al tempo stesso complessi e popolari, ed è di pochissimi, o la tenacia e il lavoro quotidiano per riuscire a convincere i lettori a leggere, senza illudersi però che le cose stiano come trent’anni fa, perciò con strategie adeguate.
    Ma quali lettori?
    Visto che sono una dei più vecchi, qui, anche se mi scoccia ricordarlo sempre, quando ero fanciullina, lessi l’Ulisse perché era in casa, ed era in casa perché capitava che in una famiglia borghese qualsiasi, in assenza di altri stimoli, lo spazio per mettere almeno il naso in un libro del quale si era molto parlato ci fosse. E perché se ne era molto parlato? perché, forse per uno strascico ottocentesco, la letteratura faceva parte dell’educazione classica, come lo studio del pianoforte.
    Tutto questo è cambiato, non facciamo finta di non vederlo, e non basta la volontà per rimettere un eventuale nuovo Joyce sul tavolo del salotto dei nostri vicini di casa.
    Che l’eventuale strategia per rimettercelo sia passare per qualche giornalaccio, è perlomeno ingenua.
    Le nuove classi dirigenti non leggono letteratura, per molte ragioni, una delle quali è che non hanno materialmente il tempo di farlo, e se scelgono di leggere leggono quello che a parer loro è utile, per esempio il libro di Tremonti, o li rilassa dopo una giornataccia, per esempio Camilleri, se va bene, o il libro che ha vinto lo Strega, o il libro che ha già toccato il milione di copie ed è arrivato sui giornali accompagnato dal rullo dei tamburi, perché bisogna pur parlare di qualcosa, la sera a cena, e anche se si è sfatti, magari un paio di parole su questo si scambiano, tra una portata e l’altra.

  89. Non vorrei naturalmente deprimere nessuno, con le mie parole, odio l’autoflagellazione, ma spingere a riflessioni un poco più articolate e a strategie più complesse, più quotidiane, anche più faticose e capillari.

  90. a liviobo che qui sopra scrive: “il concetto che cerco di far passare sempre nei miei interventi, e a cui l’uditorio si mostra sempre totalmente impermeabile, è […] che nulla è più politico, oggi, che parlare del sacro” vorrei far notare che più di un membro dell’uditorio (Guglielmin, Carlucci), verso l’inizio della discussione, ha provato a far passare lo stesso concetto (e altri correlati), scontrandosi con l’impermeabilità di gran parte dell’uditorio. in particolare dell’autore del post il quale, defilatosi e avendo annunciato di doversi assentare dalla discussione “per un bel po’” (11 Dicembre), è tornato subito dopo (12 Dicembre) come uno young dog non appena è intervenuto il grande Tiziano Scarpa in persona. portandosi dietro uno sciame di mosconi ronzanti. oh liviobo! qui sono in gioco i giornali, la politica culturale, la funzione politica dei premi letterari! lascia perdere i tuoi insulsi consigli sul concetto di sacro. e accèrtati prima di far veramente parte dell’Uditorio.

    nub

    p.s. prof. Cortellessa, ma anche il Mein Kampf non è forse una “immagine della Shoah”?

  91. @ Liviobo
    Caro Livio, hai pronunciato una parola che non sentivo da anni, e sulla quale è il caso di riflettere: “migliorismo”. Quando esisteva un grande partito di sinistra, in questo paese, sappiamo cosa volesse dire (il suo più accomodante, aproblematico esponente siede ora sul più alto scranno istituzionale). Ora tu intendi qualcosa di diverso, mi pare, e cioè qualcosa che – sempre ai tempi – si definiva “entrismo”. Se seguo la tua logica, essendo il pezzo di Scarpa particolarmente “politico” e problematico perché, ti cito, “nulla è più politico, oggi, che parlare del sacro” (sul che si può discutere, ma è tesi quanto meno verosimile), egli avrebbe fatto bene a inocularne i germi politicamente attivi e potenzialmente dirompenti in un mezzo di comunicazione che raggiunge in grande maggioranza cattolici tradizionalisti, se non fondamentalisti (di qui l’apparato propagandistico francamente ed esibitamente razzista e sciovinista di cui detto mezzo sostanzia la propria comunicazione). E’ esattamente quanto pensa Scarpa quando parla di dover predicare “in partibus infidelium”.
    Ma la logica entrista presuppone che si ritenga (più o meno in buona fede) che l’organismo nel quale si accetta di venire cooptati sia suscettibile – mercè il lavoro diuturno proprio e di altri benintenzionati few – di spostamenti di equilibrio, mutamenti graduali di paradigma. Sia suscettibile di “miglioramenti”, insomma (per questo, mi pare, hai parlato di “migliorismo”). Perché, come dice “saverio” qui sopra, “la cultura lavora sulla lunga distanza”.
    Ecco, tutta questa logica nel caso di “Libero” a me pare illusoria: in quanto presuppone – ciò che è più grave, in un intellettuale come Scarpa ovviamente consapevole dello strutturale degrado che la sua funzione ha conosciuto nel tempo del postmoderno – una potenza devastante della propria parola. E dunque denota, come ha detto Alcor, nel migliore dei casi “una grandissima ingenuità”.
    La logica migliorista, o entrista, ha senso nei contesti dove un potenziale di miglioramento, appunto, lo si intraveda effettivamente. Con tutti i suoi persistenti difetti, per esempio, “la Repubblica” (la cui politica culturale, da quando – sempre più saltuariamente – la leggo, cioè dagli anni Ottanta, ha una parte grave di responsabilità, è vero, nel degrado che abbiamo subito; ma su un piano completamente diverso su quello sul quale opera “Libero” ovviamente) nell’ultima stagione ha dato consistenti segni di voler cambiare passo. Gli articoli “di poetica” che sono stati commissionati a un certo numero di narratori “giovani” (al di là delle scelte fatte e della scelta a monte di interrogare solo narratori), per esempio, hanno consentito ai suoi lettori di conoscere il nome, e ciò che più conta il pensiero, di scrittori come Vitaliano Trevisan e Giorgio Falco. Con questi nomi, per esempio, perseguendo una logica che non è più evidentemente quella veltroniana della popolarità al ribasso, della comunicazione più corriva e vellicante (certo, poi, sullo stesso giornale m’è pure toccato di leggere un articolo di Giancarlo De Cataldo sul “Processo” di Kafka come romanzo noir…). Un lampeggiamento come questo potrebbe preludere a un’inversione di tendenza potenzialmente importante. Un’inversione di tendenza che non può interessare a coloro che seguono la logica, ai tempi, inversa e simmetrica a quella “migliorista”, quella del tanto peggio tanto meglio. Qualcuno lo definiva “sfascismo”. Ora, per carità tutto è lecito, ma non si può essere “miglioristi” e “sfascisti” allo stesso tempo: per la contraddizion che nol consente.

  92. “ad autoconfinarsi orgogliosamente nelle riserve indiane ci si estingue.”

    ecco, se una discussione come questa può produrre qualcosa di buono mi sembra che sia proprio la constatazione del fatto che siamo già estinti, che gli scrittori non hanno più quell’identità forte, quel ruolo di sintesi della comunità che ancora trent’anni fa potevano pensare di avere (non sono apocalittico, sia chiaro, la letteratura è ancora una delle forze basilari di costruzione della comunità ma i termini di questa forza sono cambiati, stanno cambiando).

    perché l’indifferenza, si noti, non è solo dalla parte di scarpa o nori che pubblicano su libero ma anche (e soprattutto! – almeno per quel che riguarda le dinamiche della produzione culturale) di libero che accetta di pubblicarli (per fare un controesempio: il secolo dell’msi più bieco non avrebbe mai accettato un articolo di un autore in odore di sinistra).
    e perché libero si sente così libero a riguardo? perché neppure per loro scarpa e nori sono un problema, perché gli scrittori non sono più un problema, perché sanno che quel ruolo di punto di sintesi è passato ad altri (per esempio a figure come quella di saviano – ma saviano come figura pubblica è talmente complessa che meriterebbe un discorso a parte).

    per quel che mi riguarda, questo cambiamento non è un “liberi tutti” e, per dire, mi sembra molto interessante quello che gli indiani argomentano, da inglese a raos a forlani a rovelli, sull’assunzione di responsabilità nei confronti della propria comunità. questo anche perché, davvero, l’argomento delle “tre settimane” aveva un implicito sconfortante (scarpa: ti metto in mezzo anch’io come se fosse una questione personale ma, ovviamente, il punto è tutto fuorché personale) e cioè che la priorità per lo scrittore è pubblicare. e questo non è vero. e con questo non implico, a mia volta, che la priorità è il rifiuto ascetico del mondo e l’accumulo di romanzi da ultimo cassetto della scrivania ma che, per citare appunto forlani più sopra, “a prescindere dagli spazi che mi vengono offerti la mia scelta cadrà sulle persone con cui condividerò quegli spazi”.

  93. @ nubar

    che soffre anche lui della malattia dell’escluso, io ho letto sia liviobo sia carlucci, forse del sacro, nei termini in cui lo pongono qui e rispetto a come si è sviluppata la discussione, non importa effettivamente a nessuno, a me certo no, lo ammetto senza alcun imbarazzo.

  94. @ nubar
    Se la tua domanda non è una mera provocazione la risposta è sì, certo, “Mein Kampf” è un’immagine della Shoah. Prolettica, programmatica, politica. Col che aderisco a una tesi storiografica classica (che come sai, temo, è stata messa in discussione da diversi storici “revisionisti”), secondo la quale la “Soluzione finale” risponde, a distanza di quasi vent’anni, a un progetto politico preciso e circostanziato; e secondo la quale, dunque, organicamente e strutturalmente il totalitarismo fascista, in Europa, era finalizzato al genocidio (tesi dalla quale discende, per esempio, il pensiero secondo il quale la Shoah non è commisurabile agli altri genocidi politici che ha conosciuto il Novecento: pensiero espresso da Primo Levi in uno dei suoi ultimi articoli, in polemica con Ernst Nolte e i suoi apologeti nostrani come – allora – Mieli e Galli della Loggia; sarebbe interessante conoscere il pensiero di “Libero”, al riguardo). Per questo “Mein Kampf”, come gli altri testi della teoria razzista, va letto e studiato, con opportuni apparati di commento storiografici e teorici. Ma quello in questione non era un contributo bibliografico, diciamo. (Quell’edizione non era infatti dotata di apparati; il titolo, per dire, era stampato in caratteri gotici.) Si trattava invece di un gesto di protesta, di un confusamente contrapporre una “voce contro” a quella che, in termini evidentemente poco graditi, parlava dalla cattedra. Ora, che si pensi che sulla Shoah la voce e il pensiero dei carnefici debbano essere ammessi sul medesimo piano critico e storiografico (sul piano della cattedra, infatti) di chi quell’evento commemora e analizza, è precisamente il prodotto di una diseducazione storica e culturale molto grave. Quod erat demonstrandum.

  95. Correzione: non “il pensiero secondo il quale la Shoah non è commisurabile agli altri genocidi politici che ha conosciuto il Novecento” ma “il pensiero secondo il quale la Shoah non è commisurabile agli altri eccidi politici che ha conosciuto il Novecento”. Sempre Levi ha illustrato in termini inequivoci questa differenza (cfr. “Buco nero di Auschwitz”, in “La Stampa”, 22 gennaio 1987; ora in Id., “L’asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987”, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2002, pp. 132-5).

  96. D’accordo con Alcor: vanno ripensate le categorie culturali; quelle di adesso sono muri di gomma contro cui pure un Moresco rimbalza allegramente. E un Saviano per me resta più innocuo di quanto si pensi. E però ha ragione pure Garufi: le categorie culturali non le ripensi autoisolandoti. Forse, dura da mandar giù, occorre un lavoro (quasi antropologico oserei dire) capillare che richiederà tempo, molto tempo, forse più tempo di quanto noi oggi siamo disposti ad ammettere. L’attuale barbarie culturale e sociale è radicatissima: o arriva un tifone, oppure servirà una lenta corrosione delle basi.

  97. speriamo in un “largo tifone condiviso” (non quella pioggerella degli anni 80), non vi è altra scelta o preferite l’altro tifone del quadriumvirato “Casini-Fini-Bersani-DiPietro” che si sta addensando per le probabili prossime elezioni anticipate?

  98. Se qualcuno pensa che l’Italia sia un caso a parte, si legga il post “Letteratura e editoria (il caso Germania)” postato da Pinto il 7 dicembre.

  99. ho letto un po’ i commenti e ho provato come un senso di fastidio … non verso i singoli commentatori naturalmente, ma verso l’argomento. All’epoca della polemica con berardinelli ho scritto qui e altrove cose che oggi non direi più. Da allora leggo berardinelli sul foglio e tutte le volte, mio malgrado, ringrazio quel terribile fogliaccio che gli da voce (visto che da altre parti non lo trovo a parte saltuariamente sull’Avvenire). Gli scrittori, e in generale chi ancora crede nella scrittura, NON deve essere silenziato, e se spesso molta stampa (cosiddetta di sinistra) è così spocchiosa da silenziarli beh … benvengano i contenitori di destra se danno loro voce. In tempi bui gli scrittori scrivono ovunque … e oggi non possiamo negare che siamo in tempi abbastanza bui. Uno scrittore “di sinistra” (sempre che tale definizione esista in tempo reale per uno scrittore autentico) cosa dovrebbe fare? farsi un suo giornale, una sua casa editrice, un suo premio personale? No, al massimo può farsi un blog (e io nori e scarpa li posso leggere anche in rete), ma la scrittura su carta è diventata ormai anche una forma resistenziale … quindi quando uno scrittore appare in contenitori di destra (rimanendo però LUI/LEI, nel senso che NON si piega agli altri contenuti del contenitore) non mi appare più come uno scandalo … lo scandalo semmai è quando scrittori cosidetti di sinistra portano contenuti di destra, diventando più orgogliose corporazioni che intellettuali militanti, su giornali o luoghi di sinistra, è lì che nasce il vero scandalo. La polemica, calata dall’alto, abbastanza sgradevole nata sulla critica in rete ne è riprova.
    Mi è piaciuto molto il commento di bortolotti che condivido, però non ho capito la frase di forlani: “a prescindere dagli spazi che mi vengono offerti la mia scelta cadrà sulle persone con cui condividerò quegli spazi”, si è una cosa bella e necessaria scegliersi le persone con cui condividere, ed è cosa che accade in rete, ma è possibile oggi farlo in giornali nazionali? Esiste un giornale, anche di sinistra, dove io possa condividere (sempre che mi accettino) tutto quello che scrivono le singole persone? Io direi di no, non basta definirsi di sinistra e scrivere su giornali “di sinistra” perchè io possa condividere contenuti che magari sono di sinistra solo per decisione (che può essere di ogni tipo) dello stesso scrivano.
    Ad esempio alcune opinioni spocchiose che cadono dall’alto su giornali “di sinistra” sono sinistra?. La spocchia e l’orgoglio di appartenere ad una corporazione di sinistra, depositaria di una verità di scrittura presente che esclude, è davvero sinistra? Non lo so … ma forse escludere è più di destra che includere in contenitori non proprio ortodossi. Scrivere e pensare è certo una azione molto importante, forse la più importante oggi (come ieri), ma se lo si fa con regole ferree e conformiste, legate al solo presente, condizionati da contenitori legati (per loro natura) al solo presente immediato, allora tale scrittura potrebbe anche diventare una azione inutile se non addirittura dannosa e conservatrice se non reazionaria. Parlare (e scrivere) in pubblico, nel mondo, è una grande responsabilità che richiede un pensiero totalmente libero e non condizionato dall’epoca presente. Siamo sicuri che il solo contenitore ci possa condannare o assolvere? Se fosse vero, nessuno dovrebbe più mettere piede in televisione … visto che tale contenitore NON può, per sua natura, essere definito di sinistra.
    geo

  100. Quale ruolo può esercitare in una società degradata da un governo padronale con vocazioni populiste ed anticostituzionali se non quello di mettersi alla testa di un’opposizione netta e riconoscibile in cui possano trovare cittadinanza gli italiani che credono alla democrazia? Il Pd sembra invece avvitato sugli schemi frusti della politique politicienne del dopo crollo del Comunismo, sembra preda del ricatto di una destra avventurista e cortigiana che li intimidisce con il vecchio trucco dell’anticomunismo senza comunisti, sembra afflitto da una morbosità endemica che gli fa temere la propria ombra ombra che, Dio ci scampi, potrebbe ancora rivelare qualche traccia rossa. È ora di risvegliarsi da questa sorta di maleficio, ora di liberarsi dagli insensati complessi di colpa e dall’equivoco dei falsi sinonimi: lotta non è sinonimo di violenza, ma di passione, decisione non è sinonimo di aggressività, ma di chiarezza, fermezza non è sinonomo di intolleranza ma di responsabilità, coraggio non è sinonimo di mancanza di pragmatismo, ma di visione del futuro e senza futuro non c’è vita, c’è solo una malinconica sopravvivenza da zombie. (Moni Ovadia)

    L’Italia non è un caso a parte, è una corrotta anomalia a parte. :-)

  101. @ georgia
    Ecco. Sostenere che il “contenitore” televisione, o il “contenitore” quotidiano, NON POSSANO, per LORO NATURA, essere definiti di sinistra, significa aver abdicato. Essersi arresi. Significa che l’egemonia culturale è definitivamente passata nelle mani di quegli altri. A tutti i livelli, non solo quelli massmediatici. Dunque io posso fare il mio discorso di sinistra, “ontologicamente di sinistra” come ossimoricamente si espresse Berardinelli nella polemica che ricordi, anche in un giornale che dichiara come con i profughi in mare bisogna imparare a essere “più cattivi”. Il panorama che disegni tu non prevede azioni “resistenziali”, l’ho già detto in un’altra discussione. Prevede che si facciano armi e bagagli e si cambi paese. Collaborare a un quotidiano (ma anche a una rivista, ma anche a un blog) ovviamente non comporta “condividere […] tutto quello che scrivono le singole persone”. Non c’è alcun quotidiano, neppure “il manifesto” quando vi collaboravo, con le idee del quale (e neppure della maggioranza dei collaboratori del quale) io possa concordare al cento per cento. Per fortuna. Ognuno di noi pensa con la sua testa, ha le sue idiosincrasie e le sue predilezioni. Si tratta però di valutare, e ciò va fatto evidentemente caso per caso e anzitutto nel proprio foro interiore, se la cornice entro la quale accetto che passi la mia parola, sia o meno vincolante per la comprensione e l’effetto della medesima.

  102. Hai ragione Saya, qui c’è anche il massimo degrado civile, rispetto agli altri paesi europei, ma questa è questa una storia vecchia, la nostra, mentre lo stato della letteratura non è molto diverso.

  103. E il fatto che lo stato della letteratura non sia molto diverso dovrebbe farci pensare in un orizzonte più ampio. Qui c’è, da un lato, una valutazione politica sull’opportunità di pubblicare su un giornale della destra, in questo momento e in questo paese, e dall’altro, se non prima ancora, almeno in parallelo, una riflessione che non è valida solo per il nostro paese.

  104. Penso che pubblicare, ad esempio, sul Frankfurter Allgemeine o sul Die Welt sia molto più gratificante e meno avvilente che pubblicare su Libero o sul Giornale. Parliamo di governi di centro destra normali. a me pare così ovvio…

  105. AC.
    Ecco. Sostenere che il “contenitore” televisione, o il “contenitore” quotidiano, NON POSSANO, per LORO NATURA, essere definiti di sinistra, significa aver abdicato. Essersi arresi. Significa che l’egemonia culturale è definitivamente passata nelle mani di quegli altri.

    GEO
    Il contenitore televisione NON può essere definito di sinistra, anzi direi che per sua natura, calando dall’alto, sia di destra (in italia al momento lo è totalmente, indipendentemente da chi parli attraverso tale mezzo), questo non vuol dire che uno non possa andarci, anzi … lo affermavo solo come paradosso in base alle vostre regole ferree ;-) …
    Quella della televisone è una realtà ampiamente esaminata e denunciata da persone come Pasolini, McLuhan e Popper e mille altri …. poi naturalmente possiamo aver sviluppato, nel tempo, tali anticorpi da essere ben difesi … ma non è cosa da tutti, soprattutto dopo quasi 20 anni di martellamento costante delle televisioni berlusconiane e di incursioni violente di una pessima pubblicità che non è certo neutra.
    Non vale lo stesso discorso per quello che invece si sceglie e si legge come un quotidiano … nel caso semmai avanzavo il dubbio che i collaboratori di giornali di sinistra possano essere definiti veramente di sinistra … sempre in base ai vostri parametri :-).
    Ma veniamo al problema “egemonia culturale” … che in fondo non è termine che io ami molto e che andrebbe usato con cautela e parsimonia … io e te possiamo anche raccontarci delle favole se vuoi, ma la realtà fattuale è altra cosa … l’egemonia culturale non è più in mano alla sinistra anche se ancora non è passata alla destra (a cui manca la materia prima) crederlo con forza è una non-azione … dire questo non vuol dire arrendersi, anzi vuol dire guardare la realtà con occhi spietati. Io leggo il manifesto e repubblica (giornalmente) ma non è che ne sia del tutto entusiasta (non parliamo poi di alias che dovrebbe essere l’organo di tale egemonia, in base a quello che dici), diciamo che io “finanzio” quei due giornali comprandoli, ma poi faccio incursioni aggratis (in mille modi) in altri giornali, e sul piano culturale (intendo pagina dedicata alla cultura) spesso non ci vedo poi queste grandi differenze, se addirittura devo sfogliare giornali come il foglio e l’avvenire per trovarci un critico come berardinelli :-).

    No, non significa andarsene (andarsene poi è un lusso e non sempre una scelta) semmai significa cercare di impegnarsi maggiormente e con pensiero totalmente libero senza balaustre e pre-giudizi, pensare in alto mare (cosa che nelle università, dove vige un forte conformismo, ad esempio non accade da tempo)… perchè costruirsi intorno gabbie che ci garantiscono e ci gratifichino non fa bene alla cultura, questo è certo. Del resto siamo così abituati alle gabbie della guerra fredda (soprattutto in campo culturale) che facciamo una grande fatica a capire cosa voglia dire pensare (anche “sporco”) senza pregiudizi.
    Dobbiamo secondo me prendere atto che la cultura codificata (e quindi il pensare in modo tradizionale) oggi non ci garantisce e non ci difende da alcun pericolo, anzi credere che i pericoli siano solo i vecchi pericoli, può essere molto pericoloso. Capisco che dover pensare così per un intellettuale sia la cosa più dolorosa e faticosa che esista. ma in tempi bui siamo tutti in alto mare. Naturalmente con questo non voglio dire che si debba fare tabula rasa della memoria, anzi, la tabula rasa è sempre una azione violenta e di destra. Per instaurare una egemonia devi distruggere totalitariamente ogni presenza dissidente e critica … e questo culturalmente è sempre un disastro. Capisco quindi che chi sia silenziato a sinistra pubblichi altrove … ma il problema oggi non può essere scaricato solo sui singoli scrittori (responsabili solo di ciò che scrivono) ma semmai dei contenitori “gabbia” che li escludono in base a decisioni non sempre condivisibili.
    geo

  106. @ Saya, pare ovvio anche a me

    @ Cortellessa

    è da ieri che ripenso a quel numero del verri sulla biliodiversità. Per non dire stupidaggini ho cercato di ritrovarlo, ma si deve essere infilato da qualche parte, perciò vado a memoria, in quel numero la parte che mi aveva interessato di più era quella dedicata alle voci degli editori, mentre nel dibattito avevo trovato ininteressanti perché sostanzialmente scandalizzati o lamentosi gli interventi delle persone con le quali ho invece maggiori affinità.
    Possibile, pensavo, che l’unico strumento per rispondere ai detentori del principio di realtà sia il sentimento?
    Perché nei miei ricordi di questo si trattava, di un sentimento di indignazione, depressione, sconforto, decorato da citazioni di Shiffrin (ricordo male?)
    Certo, da parte di persone che “facevano” (Frasca, Graffi e non ricordo chi altri, forse anche tu) e che mi sembravano alla fine – sentimento di indignazione a parte – votate a una specie di esilio nella nicchia.
    Contro la nicchia in sé io non ho nulla, in condizioni sane del mondo editoriale, ma la nicchia in condizioni insane come queste mi lascia insoddisfatta. E ribadisco che non si esce dalla nicchia con saltuarie presenze in luoghi come i giornali di cui si è parlato.
    Io credo che non tutto sia perduto. Non solo perché non voglio crederlo, non si tratta di questo, ma vorrei ricordare che la stessa predominanza industriale, con tutto quello che comporta, ha toccato in modo devastante anche il cibo. Arriva però sempre il momento in cui il sistema implode per raggiunta saturazione e cerca altre strade, in quel momento, che va preparato, difendendone i semi, bisogna essere pronti.
    Sul come quei semi vadano non solo difesi, ma nutriti, bisognerebbe secondo me piantare una bandiera e unire le forze.
    Ed è la ragione per la quale ho trovato più che utile il progetto di Pordenone legge. Ma non basta. Le alleanze mi sembrano ancora da fare, anche alleanze apparentemente depotenziate, al momento. Ma un’attenzione, per non dire un’invasione di alcuni spazi come possono essere, dove ci sono, i presidi del libro o altro del genere, ci dovrebbe essere, perché quella che mi sembra sfilacciata è la filiera. Tra il commerciale puro e la letteratura di ricerca (vado un po’ per le grosse, ma spero che il discorso sia chiaro) si è aperto uno spazio vuoto. Possibile che non si possa riempirlo, che non si possano approntare scalini? senza dover spingere a forza su per il pendio gente con una muscolatura inadeguata che alla fine dirà, no grazie, troppo difficile salire così?

  107. per Cortellessa (circa il “Mein Kampf”). ovviamente il gesto del suo studente denota una maleducazione. ma la mia osservazione non era meramente provocatoria. le chiedo: esiste un’edizione critica italiana del “Mein Kampf” senza caratteri gotici e che possa figurare nella bibliografia del suo corso? non si tratta di mettere “sullo stesso piano critico e storiografico” la voce di vittime e carnefici. lei insegna Letteratura all’Università, non morale ai bambini delle scuole elementari. la cultura europea dovrebbe avere abbastanza strumenti razionali per affrontare il problema a livello critico e storiografico senza incorrere nel giustificazionismo. la tesi dell’incommensurabilità del genocidio ebraico è delicata. perché da una parte è una trasposizione in termini razionali e storici di concetti teologici tipici dell’ebraismo e riguardanti l’inspiegabile e l’ineffabile. e in questo senso appartiene alla cultura ebraica e trova in essa il suo senso pieno. da un’altra parte è una tesi storiografica e in quanto tale può essere seriamente argomentata e difesa. ma qui i piani non devono confondersi: anche se ne restasse dimostrata l’unicità storica e l’eccezionalità, ciò non implicherebbe la possibilità di una analisi storica e di una spiegazione del genocidio (e meno che mai di una analisi critica della letteratura sulla Shoah, da entrambe le parti). sono due piani – quello teologico e filosofico e quello storiografico e critico – che andrebbero tenuti distinti, per quanto possibile. il negazionismo va combattuto sul piano storiografico. perché se è falso, è anche indimostrabile. già che siamo in tema: come mai secondo lei Einaudi pubblica tranquillamente – e direi senza precauzioni – nella collana di Storia un libro sulle stragi in Armenia scritto da un molto discusso storico americano (Guenther Lewy) che sostiene una tesi piuttosto negazionista?

    nubar

  108. Dopo aver letto l’intera discussione sono riuscito ad estrapolare: l’importanza di un impegno, che vada oltre la categoria “civile” ma manifesti lo sdegno del degrado politico (morale) di un paese (il nostro) e di una società (quella occidentale?), traspare dalle righe di Andrea Inglese ed appare condivisibile e giusto, dall’infimo silenzio dei versi possa avvenire un primo sommovimento; condivido anche il fatto che un poeta vada riconosciuto a prescindere dalle tematiche (ho letto un riferimento a Catullo). E’ vera, a mio avviso, l’affermazione di Cortellessa: occorre saper dire “no”, ma occorre tempo e riflessione per saperlo fare. Attualmente, invettive vengano a risvegliare l’attenzione dei pochi interlocutori (siamo sempre, come poeti, in un infimo inizio – ed è compito il tentativo di rendere manifesto lo sdegno al degrado). Alcuni commenti (vedi Carlucci che in altri passaggi ho apprezzato) non colgono la questione sollevata da Inglese, si perdono in un’acida poetologia.
    @ Angelo Rendo: è sterile il tentativo di smascherare scheletri dove vige l’arcinoto, è più complesso ri-trovare una coerenza morale, non basta flagellare una fantasmatica incoerenza editoriale.

    Gianluca

  109. correzione: “ciò non implicherebbe la possibilità di una analisi storica e di una spiegazione del genocidio” doveva essere “ciò non implicherebbe l’impossibilità di una analisi storica e di una spiegazione del genocidio”

  110. @ nubar
    siamo abbondantemente OT, ma dici alcune cose che mi interessano molto, e dunque non disturberemo troppo, forse, nel proseguire questo sub-topic. Non conosco il caso di Guenther Lewy e ti ringrazio della segnalazione.
    Quanto alla delicatezza del tema dell’incommensurabilità hai sicuramente ragione. Ma la posizione di Levi a me pare limpidissima: la Shoah e, per esempio, il Gulag si possono certo confrontare (pena appunto la ricaduta in una posizione di tipo mistico, quella dell’ineffabile e dell’inspiegabile, che proprio Levi ha combattuto tutta la vita), ma la differenza fra i due fenomeni è qualitativa, non quantitativa. E consiste precisamente nei programmi politici del nazionalsocialismo, dei quali peraltro “Mein Kampf” non è l’unica testimonianza, né la più interessante (per una serie di motivi che consistono essenzialmente nella sua struttura retorica nonché nella mera distanza temporale della sua compilazione dalle misure legislative, dallo stesso autore in seguito ispirate, che renderanno possibile la Soluzione finale).
    Per rispondere a un’altra tua domanda/provocazione: io nel mio corso non insegno morale, ciò che peraltro non saprei fare e non mi sentirei autorizzato a fare; cerco solo di abbozzare, per quanto è nelle mie competenze, quella che definisci “una analisi storica e una spiegazione del genocidio”, al fine di meglio leggere alcune interpretazioni letterarie e cinematografiche dell’evento. E’ quello che, nei decenni, hanno tentato di fare, con strumenti evidentemente ben diversi dai miei, pensatori ebrei e non del calibro di Levi,appunto, di Agamben e Didi-Huberman: i quali tutti condividono il medesimo intento di dare dell’evento – senza ovviamente fornire alcuno strumento alle tesi giustificazioniste o negazioniste – un’interpretazione non mistica.
    Non sono invece assolutamente d’accordo sulla tesi per la quale la “falsità” del negazionismo sarebbe indimostrabile. Questo, per inciso, è fra l’altro il presupposto che ha ispirato interpreti importanti (come Lanzmann) nel non curarsi, e anzi esplicitamente condannare, l’uso di documenti probatori (fra i quali le immagini) che si aggiungano alle testimonianze di superstiti e carnefici. Come dimostra un’abbondante casistica giudiziaria (si veda per es. sul processo a David Irving il libro di Guttenplan sul “Processo all’Olocausto”, Tea 2001) si possono produrre infinità di elementi probatori che “dimostrano” la “falsità” delle tesi negazioniste. Disdegnarle perché implicitamente oltraggiose la testimonianza dei superstiti significa condannare l’evento alla dimensione della memoria, escludendolo da quella della storia. Gli studi di Carlo Ginzburg, e più recentemente l’intervento di David Bidussa, “Dopo l’ultimo testimone” (Einaudi 2009), mi pare dimostrino a sufficienza come queste due componenti vadano per quanto possibile fra loro unite, annodate in quelli che Georges Didi-Huberman (“Immagini malgrado tutto”, Cortina 2005) definisce “montaggi di intelligibilità”.

  111. Correzione: non “processo a David Irving” ma “processo di David Irving” (il quale si presentava come parte lesa).

  112. sul negazionismo non ci siamo capiti, c’è un semplice disguido. non sostenevo l’indimostrabilità della falsità del negazionismo. semmai il contrario. “se il negazionismo è falso, allora indimostrabile”, significava: se il negazionismo è falso, allora non è possibile dimostrarne le tesi (perché sono false…). scusa per l’ambiguità del “-lo”! ovviamente è un po’ razionalista, ma prendi qui “dimostrare” nel senso di dimostrare una tesi in sede storiografica, con gli standard di correttezza appropriati al caso. per il resto, ottimo, meglio così, siamo d’accordo. dedica una lezione sul Mein Kampf al tuo studente maleducato e provocatore, magari si ammansisce. guardati guenther lewy e fammi sapere se vuoi(achrafian@hotmail.com).

    nubar

  113. @ Alcor
    A me non pare che il dibattito di “Bibliodiversità” (al quale partecipai insieme agli altri redattori della rivista, Gabriele Frasca, Milli Graffi, Maria Antonietta Grignani e Niva Lorenzini) fosse improntato a mera protesta (questa avrebbe semmai giustificato il titolo che ci attribuisci per un refuso, “Biliodiversità”. Faccetta). Mi pare che vi fossero anche delle analisi, materialisticamente improntate, circa la situazione in corso (e c’era la traduzione di un pezzo di Schiffrin preso da “Le Monde diplomatique”; e c’era una mia intervista all’allora Direttore dell’Istituto dei Beni librari; e c’erano appunto, come ricordi, gli interventi – questi sì deludenti, a mio modo di vedere – di alcuni editori italiani, grandi e piccoli). Io personalmente ho proseguito il discorso nello speciale dello “Specchio +” della “Stampa” (ora defunto; ma che il giornale padronale per eccellenza mi abbia dato quello spazio per dire quelle cose vuol dire che, @georgia, anche in un giornale “non di sinistra” oggi ci può essere spazio per un’indipendenza di pensiero e di critica; sta a noi conquistarcelo; sfido però a fare lo stesso su “Libero”) nello scorso numero di maggio, sulla critica e l’editoria. Non sono certo un economista, e l’editoria la conosco sì dall’interno ma solo nella sua parte “creativa” e redazionale (dunque in maniera e in misura assai imperfette e incomplete). E tuttavia ho l’improntitudine di credere che queste analisi abbiano una certa originalità (anche nello specifico italiano, che è in parte diverso da quello che descrive Schiffrin: il quale però nel pezzo che abbiamo riportato toccava appunto anche lo specifico italiano). Di sicuro meriterebbero (avrebbero meritato) quanto meno una discussione. Che invece non c’è stata: a partire dai giornali (e dai blog) “di sinistra”. Segno ennesimo che il malessere denunciato (con strumenti per me impropri, perniciosamente diseducativi) da Scarpa con la sua iniziativa, è concreto e assai pesante.

  114. @nubar
    OK, ora mi è più chiaro il tuo punto di vista. Agli studenti (non: allo studente, perché con coraggio nibelungico ovviamente nessuno di loro si è attribuito in prima persona il gesto in questione) ho già parlato, più o meno nei termini che ho usato prima. Cercherò di vedere il testo di Lewy e, se possibile, continueremo la discussione in privato.

  115. @ Alcor
    Poi ovviamente bisognerebbe distinguere tra posizione a posizione. E’ vero che alcuni dei partecipanti a quel dibattito davano la partita per già persa e davvero facevano un discorso “di nicchia”. Posizione, la loro, più che comprensibile peraltro. Ma che non è la mia: come è evidente da tutto il mio lavoro. Il mio compito, la mia “missione” per dirla con Sanguineti, sta solo ed esclusivamente nel dire al “non-nicchia”: ehi, ma lo sai qui nella nicchia c’è roba buona, molto buona?, molto migliore di quella che già conosci!, ti converrebbe venire qui a conoscerla!
    Per fare questo sono necessarie due cose: una sufficiente conoscenza tecnica dei linguaggi e delle retoriche adottate nella “nicchia”, e una sufficiente capacità retorica di farsi ascoltare dal “non-nicchia”. Ah, terza cosa: ci vuole pure un Himalaya di pazienza (sia per avere a che fare con la “nicchia”, ah quanta!, sia ovviamente per farsi ascoltare dal “non-nicchia”). Quella pazienza, cioè quell’energia, che – dopo una certa età e dopo un certo numero di sconfitte – rischia di esaurirsi.

  116. Non era improntato a mera protesta, questo è vero, soprattutto non era improntata a mera protesta proprio l’idea di averlo fatto, un numero come quello, nel frattempo l’ho ritrovato e mi sono messa a rileggerlo, cosa che però non posso fare questo pomeriggio e mi chiedo anche se avrebbe senso qui mettermi ad analizzarlo per ricostruire le ragioni di quella mia impressione di allora, probabilmente motivata anche dal continuo riferimento al nostro paese come universo a parte e particolarmente debole, che è vero solo in parte perché più debole, qui da noi è tutto il sistema, mentre questa è la tendenza generale in Europa, come si vede dal post di Pinto che citavo sopra e non solo.
    Ma perché non riaprirlo qui, quel dibattito che non è mai partito e che è comunque attuale. In particolare la riflessione sul mercato, del quale bisognerebbe comprendere meglio, oggi, i meccanismi, perché credo che solo comprendendoli li si possa mettere in crisi. Analisi che io non sono certo in grado di fare, ma mi piacerebbe che al un dibattito su questo tema partecipassero anche voci critiche non solo letterarie, mi piacerebbe leggere gli interventi di un economista, ad esempio, perché senza una convergenza di saperi, il dibattito resterebbe monco.

  117. Leggo adesso il tuo commento delle 14 e 38, lo so che non è la tua, tu al contrario sei in prima linea, mi sembra particolarmente importante il punto due, la “capacità retorica di farsi ascoltare dal non-nicchia”. E’ questo il punto che si può sfondare, a mio avviso, e lo è sempre stato, anche negli anni passati. L’energia del singolo non basta, si potrebbe morire in trincea, ma fare rete si deve e si può, a mio avviso, altrimenti la battaglia è perduta, almeno per le prossime generazioni.

  118. @Alcor
    Mi sono chiesto anch’io come mai il precedente speciale che produssi per lo Specchio abbia ricevuto qui un’attenzione persino spropositata all’originalità delle tesi ivi proposte (era, ricorderai, sulla questione del realismo sì, realismo no), mentre quello, a mio modo di vedere ben meglio pensato e realizzato, su una questione decisamente meno ariafrittesca, come quello sull’editoria di qualche mese dopo, sia rimasto (anche qui, appunto) lettera morta. Ci sono due risposte possibili: una è che per seguire questa discussione bisogna entrare in dettagli tecnici (come per es. la questione degli sconti librari, quella delle rese, della post-promozione, ecc.) che sono piuttosto aridi a descriversi e quanto mai noiosi a leggersi. L’altra, come dicevo appunto a Pinto mi pare ieri, è che per farla a fondo, la discussione, bisogna entrare nel vivo delle scelte editoriali facendo nomi e cognomi: e questo è scomodo per ciascuno di noi che con gli editori bene o male campiamo (e riusciamo a realizzare alcuni dei nostri piccoli o grandi progetti, a cui tanto teniamo). Per questo l’iniziativa del “verri” a me parve coraggiosa e importante: perché rispondeva punto per punto a personaggi che erano, in parte o in assoluto, i nostri datori di lavoro. Senza sconti e senza guardare in faccia nessuno. Ma perché esporsi in quel modo, c’è da chiedersi e ci si è evidentemente chiesto, se poi il risultato, appunto, è lettera morta?

  119. La discussione su realismo-sì realismo-no in effetti non fa danni.
    Ma credo che in questa sede la vera difficoltà di un dibattito sull’editoria sia data soprattutto dalla necessità di entrare nel merito dei dettagli tecnici, ma potrebbe essere fatta o rifatta in altre sedi, prima di tutto fisiche, (il corpo continua ad avere una sua valenza, o no?) non tanto per sottoporre a critica le scelte dei grandi gruppi industriali, perché in effetti, non le si può contrastare direttamente, visto che sono un fenomeno planetario, ma per vedere se è possibile creare reti alternative, modi alternativi per far arrivare ai lettori i libri scomparsi o mai arrivati al pelo dell’acqua. Per ricreare quella comunità che benché fosse fondata qualche decennio fa su una situazione industriale e culturale e politica diversa, aveva comunque il gusto di essere comunità, benché spesso litigiosa e divisa.
    Il mio riferimento al cibo non è casuale.

  120. @georgia, anche in un giornale “non di sinistra” oggi ci può essere spazio per un’indipendenza di pensiero e di critica; sta a noi conquistarcelo; sfido però a fare lo stesso su “Libero”).

    GEO
    Ok ma allora la tua critica deve spostarsi dal contenitore al contenuto, se è vero quello che dici allora il testo di scarpa (e quello di nori) è da criticare anche se solo pubblicato altrove e non solo perchè appare su Libero.
    Ad ogni modo anche se appare assurdo berardinelli una sua indipendenza di pensiero e di critica se l’è conquistata anche sulle pagine del foglio … questo è innegabile, al di la di come si giudichi politicamente il foglio.

  121. @ georgia
    A me pare ti sfugga una questione di semiotica elementare: contenitore e contenuto non sono, come tendi a sostenere, entità distinte e indipendenti l’una dall’altra. L’uno implica, trasforma, deforma, vincola l’altro. E’ mia opinione che la cornice-Libero finisca per dare, al discorso in sé condivisibilissimo di Scarpa, una piegatura involontaria che troppo fortemente lo condiziona. Il contenitore, in questo caso, fa aggio sul contenuto. Il medesimo testo sulla Repubblica, o sulla Stampa, coi limiti dell’uno e dell’altro giornale, avrebbe subito meno condizionamenti (non, come sposta i termini della questione Berardinelli da te seguito, al livello della scelta dell’argomento – per questo dico e sottolineo “lo stesso discorso” – bensì al livello della decodifica da parte di chi lo legge). E’ la mia opinione, ovvio: che Scarpa non condivide. Di qui la sua scelta, per me sbagliata.

  122. Certo questo sarebbe verissimo se fossimo ancora nella situazione di anni fa …. ma con la rete che sposta contenuti ovunque posizionandoli nella stessa cornice …. il livello delle decodificazione (che si basa sulla cornice e sull’involucro) ha un valore molto indebolito. Il lettore oggi è diventato elastico (non so se sia bene o male, non mi pongo il problema) e sa “capire” (capire è troppo, diciamo apprezzare o meno) e leggere indipendentemente dal contenitore.
    Dobbiamo prendere atto che il contenitore oggi non ci aiuta a capire un tubo … quindi tutti, bene o male, abbiamo sviluppato branchie per respirare fuori dai nostri recinti e cornici.
    Certo non è che la cosa sia priva di pericoli, ma è necessario prenderne atto.
    geo

  123. basta dire che oggi, grazie alla rete, ci si sceglie l’informazione. io sono abbonato al Fatto Quotidiano, strano, nessuno di voi l’ha citato…, sempre Repubblica e l’Unità, provate a sbirciare anche i nuovi contenitori.

  124. Non è vero che la rete sposti i testi e con ciò abbatta le cornici. Questa è una delle mitologie autodivinizzanti che circolano in rete. E’ vero che noi abbiamo letto il testo di Scarpa sulla rete, e non (dio ne scampi) su Libero; ma è altresì vero che stiamo discutendo non del testo ma della marcatura (ri-cornicizzante, se mi si passa l’orrido neologismo) della sua provenienza. E questo vale più in generale: l’atto comunicativo di Scarpa non è meramente la scrittura del suo testo, bensì il suo testo + il gesto di sottrarlo alla sua destinazione e riposizionarlo in un contesto diverso, e consapevolmente, provocatoriamente trasgressivo. Tale trasgressione, il suo senso e il suo valore, stiamo per l’appunto discutendo.

  125. caro cortellessa,
    forse (anzi senz’altro) hai ragione nel denunciare lo “stile linguistico e culturale devastatamente diseducativo” di “libero” rispetto ad altre testate giornalistiche (“repubblica”, “l’unità”, ecc.). Tra l’altro, io “libero” non l’ho mai letto direttamente (come oramai ho smesso di leggere tutti gli altri giornali italiani), per cui, diceva il buon wittgenstein, di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. E tra l’altro, credo che rifiuterei di scrivervi, ma io non faccio testo, non sono “in carriera”, e capisco che un docente e critico letterario abbia a che fare, in primis, con questioni di “stile linguistico e culturale”, e non con quelle di economia politica, di geostrategie e quant’altro. Magari, a quelle, ci pensino i docenti e gli studiosi di economia. Ed è stato giusto non rispondere nel merito, ossia andando al di là del piano stilistico, linguistico e culturale, perché il merito andava OT. Un OT che riguardava la lotta tra blocchi di potere finanziario, industriale ed economico tra le proprietà di “libero”, del “giornale” et similia e quelle di “repubblica”, “l’unità” et similia. Che riguardava il modello di democrazia, la geopolitica, il monopolarismo vs multipolarismo, l’autonomia italiana nello scacchiere internazionale (magari dopo la “svolta” – parziale, misteriosa – del 2003), troppa carne al fuoco, ne convengo, per un post partito da una poesia, dal sacro, dall’impegno degli intellettuali nell’attuale contingenza.
    Mi rimane una curiosità: chissà, con ipotetiche lezioni universitarie sulle “immagini di gaza”, quale mannello di fotocopie avrebbe messo sulla cattedra un qualche studente.

  126. @ robugliani
    Colgo una nota di rimprovero in questo tuo post. Ma è vero per me, rispetto alle questioni macropolitiche su cui insisti, per l’appunto il precetto di Wittgenstein cui ti ispiri. Quanto alle immagini di Gaza, bisogna evidentemente vedere cosa ne direbbe l’ipotetico professore. Credo che per il momento non siano in programma corsi al riguardo; e non mi stupisce. Ho idea che la portata simbolica e culturale della Shoah non sia commisurabile con quella di Gaza. Riguardo a Sabra e Chatila 1982, comunque, Levi non mancò di esprimersi: e con la massima nettezza.

  127. D’accordo con Cortellessa (ero del resto partito di lì, un centinaio di commenti fa), non si può saltare a pie’ pari la questione della marcatura ad opera del contesto. E non è vero che oggi vi è maggiore “elasticità”. Non è vero per la rete e tantomeno è vero per un giornale come Libero: del resto, non hanno forse detto tutti, in questo post, di non averlo mai letto? E allora, chi è il fruitore di quel giornale? Per “che” compra quel quotidiano, che cosa si attende di trovarci? C’è un discorso complessivo (lo stile”, come dice Andrea, che a mio parere coinvolge anche le questioni sollevate da Roberto, ovvero un intero apparato discorsivo socio-culturale) che Libero fa – un discorso molto chiaro, fatto di un “senso comune” spacciato e dispensato a lettori che lo chiedono e attendendoselo lo rinforzano. Un articolo come quello di Scarpa, al più, passa inosservato, non converte certo infedeli, e alla peggio viene re-interpretato e distorto. Mentre, d’altra parte, farlo comparire su quelle pagine contribuisce a una legittimazione di quella linea politica aberrante, quel senso comune aberrante (e non a caso loro si vantano di avere Nori e Scarpa come collaboratori). In semiotica esiste la nozione del lettore modello, l’utente ideale al quale ci si rivolge e che viene costruito nelle proprie pagine, dopodiché il lettore si riconosce, ed è su questa base che viene stipulato un patto comunicativo – un’adesione valoriale che nel caso di Libero è fortissima, come lo è anche nel caso del manifesto, altrimenti, Georgia, diventa un discorso vuoto, “ideologico”.

  128. Ecco, Gaza m’ha riportato alla mente la firma di Scarpa sotto il vergognoso appello “in nome della letteratura” (fiera del libro 2008, pro-Israele e nell’omissione totale della tragedia palestinese) … I comportamenti valgono più delle parole …

  129. Su Lewy, sul genocidio del popolo armeno e sulla sua storiografia negazionista, mi permetto di segnalare questo mio saggio (avvertendo che i link sono parte integrante del testo): http://www.carmillaonline.com/archives/2006/11/002006.html#002006.
    Lo segnalo perché, come riportato in nota, quel lavoro fu prodotto al termine di un progetto scolastico che ebbe, tra gli effetti più rilevanti, quello di ottenere il riconoscimento del genocidio degli armeni da parte del comune di Ferrara.
    A dimostrazione che, contrariamente a quanto sfugge dalla penna di Andrea Cortellessa su questo blog, non è vero che la scuola «da tempo ha abdicato ai suoi compiti».
    In margine a questa chiusa di un post (che per il resto condivido), mi permetto di osservare che una simile affermazione è quantomeno superficiale: capisco che viene spontanea, ignorando studi e dati statistici che dimostrano come la maggior parte della trasmissione culturale tra generazioni avviene in Italia non attraverso la scuola, ma al di fuori, e in stretta (troppo stretta, tutt’ora) relazione con il patrimonio culturale della famiglia e dello spicchio di società di origine (epperò, se queste cose non le dicono solo ricerche per addetti ai lavori o studiosi di nicchia, ma da almeno 8 anni un linguista del calibro di Tullio De Mauro, mi aspetterei che siano, se non condivise, quantomeno conosciute). Proprio per questo chiedo più cautela nell’attribuire alla scuola ogni lacuna culturale ed educativa che ci pare di rilevare: un’affermazione come quella sopra riportata sul preteso disimpegno della scuola è facile da trovare nei fogliacci su cui si esercita Giorgio Israel, o nei fondi di Ernesto Galli della Loggia, e infine nei libri scritti (absit iniuria…) da Mario Giordano. Ma se il punto della discussione sembra essere il dovere, sostenuto da alcuni (tra cui Cortellessa) di astenersi da “Libero” & Co., mi chiedo: a che pro tanto purismo, se poi su più nobili testate rischia di dire e/o scrivere le stesse cose che si possono leggere sui giornali (absit iniuria, di nuovo) di Belpietro, Feltri, Giordano?

  130. La sensazione personale è che sotteso al post e a gran parte dei commenti vi sia una profonda tristezza per la progressiva “scomparsa” di spazi per la scrittura ma ancor più, a monte, I l timore sordo e inespresso che l’intero concetto di “cultura” come lo abbiamo ereditato in tutte le sue varianti ( alta /bassa, elitaria/ pop e chi più ne ha più ne metta)) sia in via di pressoché compiuta demolizione. Vichianamente si è consumato un progetto di ritrasformazione di “popolo in plebe” , con lo smantellamento del sistema di istruzione e la diffusione multimediale di “feste, farina e forche”. E’ ovvio che in questo palcoscenico l’intellettuale non c’è, è un ruolo completamente spazzato via dal precariato e dall’esercito di micro-macro sceneggiatori che allestiscono le fiction organiche al peronismo populista che stiamo vivendo. E allora scrivere o meno sui giornali di S.B., pubblicare o meno con i suo marchi editoriali mi sembra, sommessamente, un falso problema: il problema è creare – con ogni mezzo e potenza disponibile – spazi *condivisibili* , rigore e coerenza di scrittura e di diffusione, libri e pensieri e immaginari e film e documentari e teatro e fumetti e performance e sculture e quadri che combattano colpo a colpo per la dignità umana, semplicemente.

  131. Anche se tutto questo, ovviamente, semplice non è; ma rieditare i vizi *politici* degli anni ’70 nel dividersi su chi è più o meno puro serve solo a indebolirsi collettivamente.

  132. Spiego il mio precedente commento…
    Mi pare che qui si discuta, per così dire, al di là delle opere, che restano, nella loro materialità, separate dagli autori che le hanno create. Pubblicare su Libero è un atto concreto: un comportamento, appunto. Così come lo è fondare una rivista o promuovere un’idea particolare di mondo. E come lo è accettare un premio screditato come lo Strega. Ciò non toglie o aggiunge valore alle opere di Scarpa. Non so se sia una questione di coerenza: se porto avanti discorsi contro la “restaurazione”, perché mi mischio con chi la “restaurazione” la crea e la sponsorizza? Questo è un comportamento che mi lascia perplesso. Poi, però, mi dico che la contraddizione muove tutto, e allora ho la speranza che Scarpa possa risolverla. A meno che, come credo di avere intuito, anche Scarpa la pensi come Georgia, ovvero che i media siano degli involucri neutri, dove un contenuto si può affermare per quello che è. Se è così, non ha senso prendersela con l’uomo-Scarpa; si deve valutare il suo comportamento come sintomo di una situazione di sconfitta, come giustamente rilevava Cortellessa. Nessuna condanna, nessun processo; presa di distanza, magari: etica presa di distanza. Continuerò a considerare “Groppi d’amore nella scuraglia” un ottimo libro, pur considerando ormai l’autore contiguo a un meccanismo che io, nella mia contingenza umana, rifiuto.

  133. @Girolamo De Michele
    Mi spiace davvero che, ogni volta che puoi, attacchi me (che scriverei addirittura “le stesse cose che si leggono sui giornali di Belpietro, Feltri e Giordano”) per le ultime righe di un testo che per il resto dici invece di condividere. Sembra una questione ad personam. E invece non ce n’è motivo, ora come altre volte. Leggerò il tuo contributo su Lewy, e ti ringrazio di averlo segnalato. Ma non credo che l’impegno di un singolo insegnante e del suo ammirevole gruppo di lavoro smentisca nel suo complesso un grado di impreparazione, dei giovani sulla storia del Novecento, che è sotto gli occhi di tutti e che delle mistificazioni e delle strumentalizzazioni dei Belpietro dei Feltri e dei Giordano è la precondizione. Non ricordo più se Rovelli, qui o altrove, a proposito dell’anniversario di Piazza Fontana, riportava le riposte degli studenti milanesi alla domanda su chi avesse messo secondo loro la bomba (le Brigate Rosse, suonava spesso la risposta). E’ vero che la scuola non è la sola colpevole, e non alludo solo alla famiglia o alla perfida tivvù. Ma, se leggi meglio quel che ho scritto nel post che dici di condividere, chiamo semmai a correo “la sinistra”, cioè gli intellettuali di sinistra fra i quali indecorosamente mi annovero, che non hanno fatto e non fanno a sufficienza per ridurre tale impreparazione. Lo spirito del corso che faccio sulla Shoah, a persone che hanno dai diciannove ai ventitre anni circa, è dunque anche questo. Di supplenza: a informazioni di base che drammaticamente si constata quanto manchino. La colpa insomma è anche e soprattutto nostra, collettivamente parlando: al di là del doveroso, e se è il caso lodevole, impegno individuale di ciascuno.

  134. Il suo destino somiglia ai destini di molti altri artisti, che hanno cominciato con grandi ambizioni, diciamo così, eversive sul piano dell’arte, operando in nome di una radicale profondità, diversità. Si potrebbero fare tanti nomi di persone che, nel campo della letteratura, del cinema, della musica, delle scienze sociali, del giornalismo, della pittura… e ovviamente, a maggior ragione, della politica, e perfino della religione, hanno dovuto affrontare una realtà simile: in parole povere e desuete, quella del “recupero”, della “integrazione”. Si parte ribelli e spavaldi e si finisce uomini d’ordine o di potere? Sì, questo capita spesso, e ognuno metta i nomi che vuole. Ma se così è accaduto e continua ad accadere, non dipende certo da loro. Se molti non aspettavano che di potersi vendere al miglior prezzo seguendo accorte strategie per farsi conoscere e poi per insediarsi, impoltronarsi, piazzarsi, altri, quelli che di talento ne avevano davvero tanto ed erano davvero portatori d’arte e novità, hanno dovuto affrontare l’umiliante confronto con un contesto bacato.
    I grandi talenti che questo paese ha continuato a produrre negli ultimi decenni, e che pur continua a produrre, devono vedersela con istituzioni e burocrazie sterili e statiche quando non corrotte, con mediatori – figure cardine il cui numero è cresciuto a dismisura – che prosperano nel mercato comportandosi con loro da piccoli Mefisto, con una massa di senza-talento che, respinti dai luoghi del lavoro, vengono illusi dalle università delle arti, con l’agonia o morte della critica, con l’omologazione delle differenze nel pubblico possibile, con le pesantezze corporative, con l’immensa volgarità diffusa dalla televisione. E con la fragilità della loro morale di fronte alle sirene dei riconoscimenti e del successo.
    Di gradino in gradino, di sì in sì, la diversità e la novità si assottigliano, si logorano, spariscono, e in quelli più bravi (di maggior talento) lasciano al loro posto la maniera, la ripetizione su scala grandiosa di ciò che prima era conchiuso e scavato, la divulgazione compiacente per i “tanti” o per i “potenti” di ciò che era nato nell’ambito dei pochi, la superfluità consolante alla necessità disturbante. Tener testa a tutto questo è di una difficoltà sovrumana, oggi più di ieri, in assenza di un’arte e una cultura che vogliano vedersi come parte di un progetto, eticamente accettabile, collettivo. (Goffredo Fofi)

    http://www.unita.it/news/goffredo_fofi/92597/un_destino_da_giullari_di_corte

  135. “rieditare i vizi *politici* degli anni ‘70 nel dividersi su chi è più o meno puro serve solo a indebolirsi collettivamente.”

    non vorrei che si desse dei poveri anni ’70 un’immagine che non si meritano, c’era chi faceva questo, come no, è vero, ma era una minoranza non pensante, non critica, che viveva di slogan e di cibo rimasticato, come del resto succede anche adesso quando si cita inserendo con il cambio automatico ora questo ora quello. Una minoranza che ho conosciuto anch’io, con l’occhio a palla per overdose di settarismo acritico, di non pensiero, tali e quali in questo ai fanatici di ogni tempo e ogni genere, compresi i fanatici di Berlusconi che oggi sono se non una maggioranza (grazie a dio non lo sono, neppure a destra) però una grandissima parte del paese.
    I cretini, o se preferite gli ipnotizzabili ci sono sempre, ma per evitare un improbabile rischio di questo genere si dovrebbe evitare di porre un problema?
    Perché scrivere sui giornali di B. o vicini a B. non è un falso problema, è un problema di non piccolo peso al quale qui si danno differenti risposte.

  136. @marco tu dici: “E non è vero che oggi vi è maggiore “elasticità”. Non è vero per la rete e tantomeno è vero per un giornale come Libero
    Perfettamente d’accordo ma dove avrei sostenuto il contrario? La rete di per se non è elastica, non è niente è solo un mezzo. Definire Libero elastico poi sarebbe un ossimoro scandaloso. Io ho solo detto che “il lettore oggi è diventato elastico” (vai a rileggere).
    Il contenitore oggi (in letteratura e sottolineo in letteratura, perchè in politica forse è diverso) non ha più il valore di confine o soglia come in passato. Il contenitore (editore e giornale) aveva fino a poco tempo fa una forte connotazione: marcava non il testo (che sarebbe un assurdo ieri come oggi), ma il percorso personale dell’autore, e tale testo da quel luogo non si spostava senza il consenso dell’autore. Oggi quel testo vola dove lo portano … tu puoi mettere quanto vuoi un tuo testo nella cornice di NI, ma se voglio, io te lo posto e te lo linko ovunque e tu non protesteresti perchè fa parte della filosofia della rete (e così deve essere altrimenti crolla tutto), non è neppure detto che venga segnalato da dove lo prelevo (io lo faccio, per correttezza, ma i più non lo fanno), non parliamo poi degli articoli, che vengono fatti girare (è una filosofia della sinistra più estrema) senza neanche linkare (o anche solo segnalare) il contenitore (segnalano al massimo il solo autore) … da qui naturalmente si è sviluppata una maniera di leggere che elude ogni contenitore, ecco cosa intendevo per elasticità.
    Che poi oggi si legga il risultato, del tutto ignari del percorso dell’autore è certo un problema critico …. un problema che però non possiamo risolvere (sempre che sia possibile farlo) se non ne prendiamo atto :-).
    Cortellessa dice che quella di Scarpa è solo una provocazione, bene (io non ci credo, perchè non capisco bene il fine) ma se è una provocazione … è salutare per aiutarvi a capire che il contenitore se n’è ito :-)

  137. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline. Pier Pasolini(21 settembre 1968)

    Se sparate sugli anni 70′ com’è possibile, aggiungo io, che siate “vivi” nel 2009?

  138. @ georgia
    Spiacente, ma ribadisco quanto ti ho detto prima. Il contenitore non se n’è ito. Il contenitore Libero (che poi non è un contenitore, è una cornice; il concetto è un po’ diverso) non se n’è ito affatto, purtroppo. Sta in edicola tutte le mattine, e tira centinaia di migliaia di copie.

  139. @georgia

    c’è una bella differenza tra chi prende un testo altrui e lo piazza dove gli pare e l’autore che decide di postarlo un una sede o in un’altra.
    Quel gesto dell’autore fa la differenza.
    La decisione del dove marca la sua biografia culturale.

    E la rete è ancora, quando si tratta di scrittori cartacei e non di blogger, mero riflesso, non conta.

  140. Saverio:
    la pensi come Georgia, ovvero che i media siano degli involucri neutri, dove un contenuto si può affermare per quello che è

    GEO
    Non so se arrivo a pensare questo :-), certo è che (per quanto riguarda la pagina culturale o la pubblicazione di libri) preferisco leggere qualcosa di buono, di un autore, su un giornale (o da un editore) di destra che da nessuna parte. Diciamo che leggere nori o scarpa su libero non mi scandalizza come mi avrebbe scandalizzato ieri … forse perchè sono più in grado di capire se il testo sia da leggersi o da buttarsi (indipendentemente da chi me lo porge), o forse, ancora peggio, perchè l’area di sinistra (soprattutto la critica) sembra ormai incapace di scegliere davvero qualcosa in piena libertà di pensiero e di giudizio.

  141. @ Georgia
    Scusa l’aggressività, ma ci sei o ci fai? Come fai a dire che “l’area di sinistra (soprattutto la critica) sembra ormai incapace di scegliere davvero qualcosa in piena libertà di pensiero e di giudizio”? Ci stiamo massacrando da centocinquanta commenti sullo scegliere e il non scegliere, e vieni a dirci questo? Dunque non è grave scrivere su Libero perché tanto si sa che chi ci scrive non sa dove sta scrivendo??? (e comunque tanto provvede dio-rete, poi, a disseminare & smarcare tuttoquanto). Ecco, è a questo tipo di leggerezza di pensiero e di parola che pensano i “cartacei” che si astengono dai blog, o peggio vi lurkano (capito maledetti? io vi vedo!), per giustificarsi.

  142. AC
    Sta in edicola tutte le mattine, e tira centinaia di migliaia di copie.

    Si certo, ma noi stavamo parlando della pagina culturale, e della presenza occasionale di scritti di autori che si ritengono di sinistra, e non di politica. Discutevamo se un testo in un contenitore o in un altro acquisti un merito o un demerito all’atto della lettura.
    Quando berlusconi si liberò di montanelli la prima cosa che fece chiuse la pagina culturale … e ricordo che anche allora (ai tempi di montanelli) fioccavano le polemiche verso chi appariva nella pagina culturale del Giornale (che era ottima e con ottimi collaboratori).
    Se vuoi parlare solo di politica sono daccordo con te al 1000 x 1000 :-): i contenitori fanno politica.
    (tra l’altro le copie libero le tira ma NON le vende, ma questo è un altro discorso)

  143. @ georgia
    Non è vero, mi pare, che Libero tiri senza vendere. Il fenomeno delle tirature “gonfiate” di alcuni giornali riguarda più il Corriere e Repubblica (copie in omaggio sugli aerei, sui treni ecc. ecc.).
    Comunque il tuo discorso sulle pagine culturali come magicamente avulse dal contesto del giornale non tiene. Lo stesso Borgonovo direttore di quelle di Libero, intervenendo qui, giustamente rivendicava l’organica interdipendenza e connessione di *tutte* le pagine del suo giornale.

  144. Semmai è da analizzare l’occasionalità, che sottolinei, dell’episodio Scarpa rispetto alla vera e propria collaborazione (anche se il termine comprensibilmente non gli piace) di Nori. Ma appunto Scarpa, che ha già detto questo, ha promesso per il futuro un intervento specifico al riguardo.

  145. Ho letto un po’ gli interventi di Tiziano e amici; ma essendo senza connessione non riesco a leggere gli altri e ad intervenire per ora. Sono contento che la discussione vada avanti e ringrazio gli indiani marco; ff e andrea raos di averla portata vanti anche in nome mio

  146. modesta proposta in margine a un dibattito di più ampio spettro: non sarebbe un atto moralmente significativo invitare chiunque scriva o abbia accesso alle pagine culturali dei quotidiani, di ‘delegittimare’ una testata come ‘Libero’, ad esempio, ignorandola e non apponendovi la propria firma? Concordo con Cortellessa nel giudizio espresso a proposito della suddetta testata.

    ‘Delegittimare’. E’ un verbo che non ho più sentito pronunciare in giro.

  147. cortellessa … di solito NON ci sono :-) e neppure ci faccio … però ho capito che qui è finita la discussione :-), se la metti sulla battaglia navale fra cartacei e non so che altro… e mi fai dire cose che non penso … ti lascio al tuo serioso avatar di cartone e ti saluto.
    Io NON leggo libero … e leggo poco anche alias da un po’ di tempo (la frase non è contro di te perchè ti leggo sempre, se sfoglio alias), cosa leggere ormai lo decido su diversi piani incrociati, cartaceo e rete, piani che non sono mondi parelleli che non si incontrano mai … Ad ogni modo prima di inalberarti leggimi bene, può anche essere che ti abbia dato ragione quando ho detto che leggere il risultato di un autore (lo scritto posteggiato in un qualsiasi contenitore) senza conoscerne il processo (la scelta motivata del contenitore) … è un grosso pericolo. Ma i pericoli non si eludono negandone le motivazioni profonde ed attuali.
    geo

  148. @Manuel Cohen
    Ma quel che chiedi è esattamente quanto già si fa. E se uno scrittore e intellettuale che stimo rompe questa interdizione, io resto turbato e contesto la sua decisione. Peraltro tale interdizione deve, a mio modo di vedere, restare “virtuale”. Affidata a un sentire comune, non a un “processo” anche solo verbale (come quello che paventava Scarpa nei suoi primi interventi qui; ma gli si è fatto notare come nessuno processasse nessuno; la pietra di scandalo che ha gettato doveva servire a farci discutere: e lo stiamo facendo). Già nel parlarne/scriverne come si fa su un blog, secondo me, si dà una concretezza eccessiva a un “sentire” che deve piuttosto, come diceva mi pare Tashtego nella precedente discussione, restare una legge morale dentro ciascuno di noi. Inesorabilmente vigente proprio perché non scritta. Prova ne sia che all’istante tanto Libero che il Giornale (non gli pare vero sentirci parlare di loro!) hanno ripreso le nostre discussioni indicandoci ai loro equilibrati e assennati lettori come “commissari del popolo”. A parte che commissario del popolo a me fa pensare per prima cosa al compagno Lunacarskij (e avercene!), ma è precisamente quanto ritengo *non* si debba fare (si tratta di un insulto gratuito, come è evidente in primo luogo a chi l’ha pronunciato). Se si comincia a fare l’Albo dei Buoni e la Lavagna dei Cattivi, come rispondevo moltissimi commenti fa a Forlani, si è già perduta la battaglia.

  149. @georgia
    perdonami ma è difficile che tu mi legga sempre su Alias. Non vi scrivo dal settembre del 2006.

  150. e allora dove ti ho letto ultimamente? … mi sembrava proprio alias … a meno che non ti confonda con qualcun altro :-)
    Ma non volevo risponderti volevo solo dirvi che HANNO COLPITO BERLUSCONI CON UN OGGETTO CONTUNDENTE A MILANO GUARDATE IL
    VIDEO

  151. @Cortellessa: effettivamente intendevo dire qualcosa di analogo. Aggiungo che opportunamente sarebbe bello se i nomi di que
    i giornali non venissero proprio più fatti: perché dare loro pure questa soddisfazione (laterale)? Concordo sulla non necessità di albi e lavagne, le liste dei proscritti lasciamole alla loro parte, ai loro lacché, ai loro kapò.

    Tutta la discussione nata dai versi di Inglese mi ha molto coinvolto. Noto con piacere che almeno questa volta non sia ingenerata in un inutile rissone. La gravità della situazione richiede uno sforzo in direzione di una intesa, oltre ogni particolarismo,o divisione. Buona domenica a tutti.

  152. @andrea
    “Ci sono due risposte possibili: una è che per seguire questa discussione bisogna entrare in dettagli tecnici (come per es. la questione degli sconti librari, quella delle rese, della post-promozione, ecc.) che sono piuttosto aridi a descriversi e quanto mai noiosi a leggersi. L’altra, come dicevo appunto a Pinto mi pare ieri, è che per farla a fondo, la discussione, bisogna entrare nel vivo delle scelte editoriali facendo nomi e cognomi: e questo è scomodo per ciascuno di noi che con gli editori bene o male campiamo (e riusciamo a realizzare alcuni dei nostri piccoli o grandi progetti, a cui tanto teniamo).”

    io sposo la seconda risposta. se c’è un punto nodale a cui la provocazione di scarpa rimanda è proprio questo: la cultura come premio a se stessa, la pubblicazione come qualcosa di talmente nobile, ambìto e qualificante che può fare a meno del compenso. ma per affrontarlo bisognerebbe fare nomi e cognomi, denunciare le cifre, le modalità di pagamento mortificanti, la rare volte che si viene pagati. in una parola, significa autobannarsi (x usare un lessico feisbuchiano) dal mondo editoriale, che si tratti di giornali o di case editrici. in relazione ai primi, e con riferimento al caso scarpa/libero, io vedo qualche distinguo interessante fra le pagine culturali dei quotidiani di destra e di sinistra. a destra si apre qualche varco non tanto perché in pochi ci scriverebbero, quanto piuttosto perché la cultura lì svolge una funzione meramente ornamentale, è innocua al pari del pensionato con l’hobby della filatelia. dunque paradossalmente se a destra (nelle pagine culturali dei quotidiani c.d. di destra) cade la censura ideologica, a sinistra persiste invece, anzi forse si rafforza, la censura delle leggi di mercato, per cui la recensione promuove l’evento, è al suo servizio. è qualcosa che si verifica pure in tv, si pensi ai libri e agli scrittori ospitati da fabio fazio, dalla dandini o dalla bignardi, tutta ed esclusivamente gente da classifica.

  153. @ Andrea Cortellessa (scusandomi con i lettori per il probabile OT)

    No, davvero non c’è nulla di personale, tant’è vero che, per quel che può valere, molte delle cose che in questo contesto avrei da dire non le ho dette perché avrei ripetuto cosa già dette da te. È il giudizio sulla scuola che hai espresso che non condivido, e non solo sulla base di singole esperienze personali. L’avrei contestato a chiunque, critico o illetterato, destra o sinistra, alto o basso. Mi rendo conto, peraltro, che in un semplice post non ho lo spazio che necessita una replica ben argomentata (me ne occuperò più avanti, e ti farò avere in privato i risultati): ma anche la tua affermazione, buttata lì, fa lo stesso effetto (o rischi di farlo) di frasi consimili, scritte da quei figuri che ti indicavo, e che quotidianamente, per restare sulle figure retoriche sopraesposte, gettano un giorno il napalm, e l’altro il diserbante sulla scuola – e questo indipendentemente dalle tue intenzioni, che sono diverse da quelle dei figuri summenzionati. Io potrei ribatterti che per un cretino che ti lascia il MK sulla cattedra ci sono migliaia di studenti che ogni anno vanno in viaggio a Dachau (che è relativamente vicino e poco costoso), se non ad Auschwitz (che è problematico anche come semplice viaggio): ma finiremmo per ribatterci i casi personali o singolari, e sarebbe tempo sprecato.
    Se ritieni di avere argomenti a favore della tesi espressa in una battuta, perché invece di confinarli in una battuta non scrivi un testo argomentato (lo dico sul serio), sul quale discutere? Non credi che, nel bene e nel male, pro o contro, sia un argomento rilevante almeno quanto la presenza di Nori o Scarpa su “Libero”?

  154. @Girolamo De Michele
    Certo, penso sia più rilevante la questione su cui torni, di quella che stiamo discutendo. E so per certo che molte scolaresche si recano in pellegrinaggio nei Campi. Così come molte, in occasione della Giornata della memoria, assistono a proiezioni di film e documentari, o a dibattiti e altre forme di commemorazione. Io ricordo che andai ad Auschwitz, ma in un viaggio privato con la mia famiglia, all’età di tredici anni. Però tutti i casi che mi puoi citare in controtendenza in realtà non fanno che esacerbare la preoccupazione, non solo mia ovviamente, per il deserto culturale (storiografico, nella fattispecie) nel quale una stragrande percentuale di studenti si presenta all’inizio dell’Università. Come ho scritto prima, questo non comporta affatto che mi tiri fuori dal novero dei colpevoli, anzi. Se gli strumenti suelencati non bastano a sensibilizzare, o addirittura in certi casi sortiscono l’effetto inverso a quello sperato, ci si deve interrogare sulle forme (le “cornici” retoriche, appunto) in cui porgiamo ai giovani questi materiali. Levi era non a caso molto preoccupato, nei suoi ultimi anni, dalla possibile saturazione della memoria, dalla sua trasformazione in qualcosa di esteriore e, dunque, inefficace.

  155. riprendo da stamattina, ammettendo peraltro di aver potuto setacciare ben poco dal fiume di interventi successivi
    @nubar
    anche io e te probabilmente siamo nella logica che incidentalmente contesto, quella delle “gerarchie alternative” (io trascuro gli interventi di carlucci ecc. , tu accusi sindrome dell’escluso o comunque sospettamente eccedi contro scarpa), ma mi pare che io e te abbiamo il merito di considerare questo un problema politico prioritario … è forse proprio la perdita di credibilità etica che ha affossato la sx…
    @cortellessa
    sei acuto e generoso (ma io peroro l’avarizia espressiva in rete) come al solito, tuttavia tieni conto che io davo una connotazione negativa a “migliorismo”, e lo opponevo più che altro a radicalismo, fondamentalismo, o comunque a qualcosa di assoluto e romantico. sull’entrismo, sono poco tollerante, ritengo ammissibile che scarpa abbia pubblicato su libero (libertino, sarebbe meglio) se eccezionalmente, e con riserva in esergo, e apprezzabile che abbia toccato il tema del sacro, e qui… @ alcor
    a me, personalmente, sembra la vera tragedia che tante persone acute e benintenzionate come te ammettano senza imbarazzo di sbattersene del “sacro”, intendendo del senso ultimo o ulteriore delle cose. è come fare la matematica del secolo scorso, quella prima della crisi dei fondamenti, o ridursi a essere un pollo politico e umano, un dispositivo biologico e sociale che non viene mai incrinato, mai illuminato dalla faglia del disadeguamento, dell’inaderenza, del fuori-linguaggio.
    sul mein kempf, noto per inciso che lo giudico un testo importante, tutt’altro che folle, che va rovesciato dalla sua logica interna, e non espunto, se si vuole decostruirlo e inattivarlo efficacemente

  156. Essendo anch’io, come Girolamo, insegnante alle superiori, mi sento di condividere tanto il suo reclamare l’impegno di buona parte del “personale” scolastico nel trasmettere memoria quanto la preoccupazione per il deserto culturale diffuso. Ché la scuol fa, ma non ce la fa a supplire a tutte le lacune. Dovute a un diffuso senso comune devastato (di cui, per unire i fili, luoghi come Libero sono l’apice). Così,sabato alle mie tre classi ho fatto lezione sul 12 dicembre e sulla strategia della tensione – ma sono stato l’unico in tutta la scuola – adesso sessanta ragazzi sanno cose che prima non sapevano – gli unici tre che avevano provato a rispondere alla domanda, Chi è stato?, avevano risposto le Brigate rosse. C’è una totale mancanza di prospettiva, di senso storico, di cui certo non è responsabile la scuola – ma altrettanto certamente la scuola, con una struttura e una forza diversa del pubblico, potrebbe fare di più.

  157. SEI SONETTI NON OT FORSE,
    A MO’ DI COMMENTO
    DELLA DISCUSSIONE

    1. (ai lettori di Libero, e a chi vi scrive)

    Qui, noi che abbiamo visto il mare,
    tiriamo un sospiro di sollievo,
    guardiam’il cielo, ci lasciam’andare.
    Basta con gl’affanni, nessun rilievo

    all’orizzonte! Che siano altri
    a darsi pena! E nessun inganno
    ad personam né lodo degli scaltri
    servitor di corte farà più danno!..

    Pompieri, soubrettes e ragli d’asino :
    l’orchestra del Magnifico Cartaro
    è a regime pieno, che bàstino
    per tutti i peti suoi da ricottaro.

    Noi saremo qui, sedutï a riva,
    a guardar le carogne alla deriva..

    2. (a Marco Saya)

    Il tramonto li coglie di sorpresa;
    l’accompagna nella notte la luce
    blu dei televisori, che l’induce
    ad affrettare il passo. Qual ’intesa

    spinge la vela al porto, in discesa,
    come quella regata che produce
    vento di bolina e li seduce
    a occhi chiusi, o a mano tesa?

    Straniero, apripista o corruttore,
    il mare dei realities – borgata
    immensa ridondante di colore –

    è l’ombra che n ‘ ottunde ogni sapore.
    Là cercano le stelle, è vellutata
    la via dei ciechi, e non fa rumore..

    3. (ad Andrea Cortellessa)

    Il viaggio verso elevati traguardi
    non è mai iniziato..lo psicomago
    dispensa placebo oltre gli sguardi
    di scetticismo…ma è com’un lago

    alpino lo specchio del disincanto
    che lo circonda..un ball’in maschera
    che non dà più tregua ed è in pianto
    Madame Sosostris in capo alla schiera

    degli officianti a Pound ed Artaud..
    Altri dan fuoco alle ideologie
    ridono cantano bevendo pernod
    martirio di crucifige e bugie..

    Eccola dunque la vera partenza
    È un delirio di sopravvivenza…

    4. ( ad Andrea Inglese, con simpatia)

    Forse domani i poeti diranno
    che non abbiamo cantato la grazia
    che imprecammo alla vita…sazia
    la voce dei perché…senza più danno..

    Forse diranno che d’un solo panno
    non si veste la luce – oro che strazia
    le nubi oltre il cielo ove spazia
    l’arcobaleno – ma vi si confanno

    molteplici spettri sotto il sereno.
    Ora la ruggine brucia la rosa
    nella fredda sponda del fiume in piena..

    Diranno che non provammo più pena
    per i perdenti per chi non riposa..
    ma quella grazia fu puro veleno!..

    5. ( a Francesco Forlani)

    Il mare lava ogni storia memoria
    ossessione mutamento… le onde
    fermentano l’inflazione confonde
    le menti un campo minato scoria

    è la morte che ci riguarda boria
    di corrotta politica… diffonde
    mappe per lettori smarriti onde
    bloccare mettere in fuga la storia..

    Le chiavi del tempo cìngon d’assedio
    le cale nascoste e lo sterminio
    dei tonni nella rete epicedio

    senza defunti: ecco è il tedio
    d’un paese senza volto carminio
    che cola sul lento stato d’assedio.

    6. a tutti noi indiani della riserva
    (sonetto variabile )

    S’azzuffano i poeti s’azzannano
    fratelli clandestini! S’affannano
    a dir d’un mondo cui nessuno presta
    fede qui nel trambusto della festa.

    E tutti gridano!…ma che ci resta
    del vino e del banchetto?! La cesta
    è vuota del pane e dell’ affanno
    l’angoscia è un ghigno e non fa danno.

    Che sappiamo –noi- oggi della morte?*
    Ma nessuno presta ascolto. Il morto
    lo piangono i poeti – e a torto.

    Il pesce e la fanciulla..lo sconforto
    che li culla è quell’ oscuro/azzurro** porto
    ove fluisce l’altrui – e nostra – sorte.

    * da “Oggetti e argomenti per una disperazione”
    Da Lezioni di fisica e Fecaloro(1964) di Elio Pagliarani

    ** a chi legge scegliere la variante che preferisce, o magari lasciarvele entrambe.

    S.D.A.

    e, si capisce, absit iniuria” narcisismis”.

  158. @liviobo

    non so se dovrei prendermela di più per la definizione di “benintenzionata” oppure per l’accusa di “sbattermene del sacro”, nell’incertezza non me la prendo e preciso.
    Prima il meno: cosa vuol dire “benintenzionata”? qui non si tratta di buone intenzioni, si tratta di capire che cosa vuol dire coerenza, se questa coerenza ha senso, che senso ha, a che cosa porta o non porta, le buone intenzioni da sole lastricano una via che non porta da nessuna parte, o peggio.
    Quel benedetto “foro interiore” è ancora un luogo vivo? o è diventato un sito archeologico?
    Sul sacro, invece, avevo scritto “nei termini in cui lo pongono qui e rispetto a come si è sviluppata la discussione”.
    Discussione che ha riguardato la coerenza, non di Scarpa, di tutti noi, quando siamo di fronte alla scelta di fare o non fare alcune cose.
    Qua non si trattava – mi riferisco sempre all’andamento della discussione – di “accedere all’impensato”, come tu hai scritto, ma di capire se pubblicare su libero è senza conseguenze.
    Ci sono occasioni in cui alzare l’ostacolo non rende la discussione più efficace o più alta, ma la porta ad arenarsi, a disinnescare le contraddizioni, a dire, ah beh, perché perdersi in dettagli da duri e puri, andiamo al sodo, o al sacro. Questo a mio parere è uno di quei casi.

  159. @ Marco
    L’ho fatta anch’io, la lezione sul 12 dicembre (e sulla notte del 15).
    @ Andrea Cortellessa
    Se quello che segnali è il problema, mi trovi del tutto in accordo: è dalla preoccupazione di Levi che bisogna partire. Quantomeno, io parto da lì, ogni mattina. E non certo per portare un pezzo a “Libero”, ben sapendo cos’è un’antífrasi.

  160. Alcor, tu scrivi: “Qua non si trattava – mi riferisco sempre all’andamento della discussione – di “accedere all’impensato”, come tu hai scritto, ma di capire se pubblicare su libero è senza conseguenze.”

    ma a vero il dire la discussione era partita altrove, dal testo di Inglese, che, come ha scritto Inglese stesso, “va ben al di là di quell’articolo”. con le tue parole sminuisci la portata del lavoro di Inglese, riducendo la sua invettiva di largo respiro (almeno nelle intenzioni – dichiarate) a una zuffa per addetti ai lavori, no?

    nubar

  161. AC
    perdonami ma è difficile che tu mi legga sempre su Alias. Non vi scrivo dal settembre del 2006

    GEO
    Prima non ho potuto rispondere ero troppo scossa dalla faccia sanguinante di berlusconi colpito dalle guglie del duomo di milano … pensavo a zamboni :-(((( ……
    … e quindi rispondo ora:
    Trovo favolosa la mia gaffe :-) (che non è una gaffe) perchè in fondo è la vera prova di quanto da me sostenuto: che il contenitore (a differenza del contenuto) sia diventato secondario per il lettore odierno (ormai elastico) di pagine letterarie (parlo del lettore e non dello scrittore o di qualsiasi altro addetto ai lavori o presunto tale).
    Io ti devo aver letto su tutto libri, o altrove, in rete. Infatti ormai leggo anche TTL con un certo fastidio. Ma per me TU sei sempre su Alias :-). Per far capire meglio cosa intendo dire voglio specificare che non avrei mai fatto tale confusione con riccardo barenghi ;-).
    Ad ogni modo capisco che per voi che lavorate con i contenitori e le case editrici sia fastidioso e frustrante che il problema possa venir liquidato così semplicisticamente, spero di sbagliare ma … temo di avere tragicamente ragione: la maggior parte dei lettori di articoli culturali raramente ricorda in che contenitori li abbia letti, ma ricorda invece benissimo dove legge gli articoli politici …

    MORALE DELLA STORIA: vuol forse dire che gli scritti letterari non sono più marcati politicamente e che possono passare da un giornale all’altro senza traumi? E’ sempre stato così o è prerogativa di tempi bui e difficili? Forse capire questo è più interessante che accludere a tali articoli le istruzioni per una eventuale corretta decodifica …

  162. @ georgia
    Hai ragione, la tua gaffe (se così si può definire) porta con sé la morale che ne trai. Ma è una morale per me molto triste, e anche preoccupante. Perché, a differenza di te che leggi, per chi sui giornali ci scrive quella cornice resta invece molto importante. Non solo ci sono temi che l’una redazione accoglie più volentieri dell’altra (vale cioè anche per me, come per tutti, l’obiezione posta alla libertà sbandierata da Berardinelli circa la sua collaborazione al Foglio: provi lì a scrivere cosa pensa di Faccia Rossa); ma lo stesso linguaggio che usiamo è sempre indirizzato, prima che al lettore, a quel primo orizzonte d’attesa che è appunto il redattore del giornale. Che ha le sue idiosincrasie, la sua idea (altrettanto astratta della nostra) dei suoi lettori, ecc. Hai un bel dire che la rete poi détourna e frulla tutto in un’Ur-Suppe mediatica dove tutte le vacche sono bigie. In rete non ci arriverebbero proprio, per es. i miei pezzi o quelli di Berardinelli, se prima non facessimo queste valutazioni (non che ci si stia a interrogare, con la fronte sulla mano, per delle mezze ore; bastano poche frazioni di secondo per scartare un aggettivo che istintivamente useresti “di là”; ma è un fatto che questi bilanciamenti si operano eccome, nello scrivere). Trascuri per es. che in rete tutto si scrive senza limiti di spazio, mentre i vari media cartacei impongono ai loro collaboratori gabbie al contrario severissime, misurate sino alla decina di caratteri: e gli spazi di un giornale non sono affatto commisurabili a quelli dell’altro (per es. quello che era un pezzo “breve” di Alias su Tuttolibri è un pezzo “centrale”: immagina che differenza possa fare). E poi c’è la questione più importante: dopo il pre-lettore redazionale e prima del meta-lettore digitale c’è il lettore cartaceo. Ed è qui che interviene il caveat formulato da Fortini, e che per me resta “il” paletto fondamentale. Diceva appunto Fortini, collaboratore del manifesto e insieme del Corriere della Sera (poi del Sole 24 ore) che quando scriveva “in partibus infidelium” (lui preferiva com’è noto la metafora dell'”Ospite ingrato”, infatti assai più appropriata) doveva sempre chiarire ai suoi lettori, appunto mercè scelte linguistiche e “postura” retorica prima ancora che per temi e posizioni, “da dove” stava parlando: cioè da una posizione di radicale opposizione (tanto radicale che il Corriere lo sbatté fuori a calci, dopo il famoso articolo sul golpe statunitense a Grenada). E in un chiasmo invertito, scrivendo sul manifesto, cioè ai propri compagni (sempre in senso molto lato; uno come Fortini davvero non era fatto per “riconoscersi” in alcunché), si sentiva al contrario tenuto ad attaccare proprio la sua parte, indicandone quelle che gli apparivano le contraddizioni e gli errori. Anche in questo caso, dunque, presentandosi quale ospite ingrato. Ora, io con tutta evidenza non sono Fortini, non ho certo la sua padronanza retorica, però nel mio piccolo cerco sempre di tenere a mente queste “regole”. La storia di Berardinelli collaboratore di giornali, letta all’ombra di quello che è stato sino a prova contraria il suo maestro, mi pare acquisti un senso molto diverso da quello che tu ci leggi. Certo, contano e molto anche i decenni passati da allora ad oggi. Ma questa differenza a me pare solo quantitativa, stavolta, non qualitativa.

  163. Alcor, provo a spiegarti. Tu hai scritto qui sopra che “la discussione” riguardava l’opportunità o meno di scrivere su Libero. Io ti ho solo fatto notare che “la discussione” riguardava – prima – il tema dell’invettiva di Inglese, che vuole essere di ben altra portata e non certo limitato al fatto che Scarpa abbia scritto un articolo su Libero. Tutto qui. Ad ogni modo, non importa, davvero.

    Ciao!
    Nubar

  164. a Low
    poesia scadente ma molto innescante…

    a nubar (difensore di liviobo e di altri da me perfidamente tralasciati)

    che parlare di sacro sia per qualcuno politico, io lo contesto; in un paese dove un partito di governo, con l’appoggio di tutto il governo, e l’assenso di parte dell’opinione pubblica italiana, e il complice silenzio di buona parte delle gerarchie ecclesiastiche, fa saldare sulle panchine dei pezzi di metallo, perché sia impossibile a un povero cristo sdraiarcisi, dove si è giunti a questa totale assenza di più elementare misericordia, mi si venga poi a parlare di sacro, come soluzione finalmente politica, mi vien da ridere. E rido. Del sacro sarò pronto a parlarne, ma prima voglio parlare dell’ipocrisia leghista, dell’opportunismo del vaticano, del conformismo ottuso di molti cattolici. Prima parliamo di tanto falso sacro, compreso quello di tanti poeti che si precipitano ai convegni sacrali. Poi vediamo quale margine ci rimane per parlere a ragione di sacro.

    E’ evidente che alcuni hanno fatto finta di non capire il senso dell’invettiva. Chi conosce anche poco quanto scrivo come pota, sa bene che non sono per la poesia di slogan e ho spesso parlato della dimensione impolitica della poesia. Che la poesia abbia a che fare con il sacro, in senso antropologico, mi sembra un discorso talmente ovvio che non bisognerebbe ricordarlo come se si citasse una qualche sovverrsiva verità.

    Ma uno che scrive poesie è anche un cittadino, ed è a suo modo ingaggiato in conflitti politici e ideologici determinati. Per questo motivo anche chi persegue il sacro nei suoi testi dovrebbe occuparsi piuttosto di parlare di ciò che si va profanando. Infatti parlare di sacro, non disturba più di tanto il contesto, ma se vi mettete a insistere sulla profanazione alla fine a qualcuno finirete per rompere i coglioni.

    Se Pasolini avesse passato il tempo a dire quanto era bello l’universo rurale, e quanto belle le campagne, invece di insistere sulla bruttezza della gioventù sradicata e consumista, avrebbe rotto molto meno le palle.

    ad alcor,

    è stato detto così tanto che è difficile riprendere delle tue osservazioni sulla marginalità della letteratura, ma non tutto è perduto.
    Io qui non confonderei due piani:
    1) su certe cose lo scrittore parla per il cittadino, ossia sono così pochi gli spazi di espressione pubblica, che il cittadino si prende quelli dello scrittore, ma sotto la pressione dei tempi vandalici, sotto l’urgenza del pericolo, per dire qualcosa di stridente; e qui non la marginalità non è solo della letteratura, ma di tutto ciò che cerca uno spazio mentale e pratico alternativo a quello dominante.

    2) quanto alla scrittura in quanto tale, all’opera, essere qualcuno che scrive per pochi per me oggi è più un elemento di forza che di debolezza; in forma non marginale, ma minoritaria, si può fare moltissimo: ma intendo nel percorso di scrittura, e nel modo di porgere ciò che scrive, facendolo vivere anche fuori dai grandi circuiti editoriali e della distribuzione. Il discorso sulla biodiversità editoriale di Cortellessa, se non sbaglio, si fonda secondo me su qualcosa di ancora più forte: è la diversità dei testi, delle forme di scrittura, della loro possibilità di aprire dversamente i mondi. Qui la letteratura gioca come la scienza e come, per certi versi, le minoranze religiose: si mettono a disposizione nuovi signifcati, nuove sintassi, nuovi strumenti cognitivi. Lo scrittore, poi, deve preoccuparsi solo relativamente del grado di difussione di tali aperture. E per un semplice fatto: che non è in suo potere controllare dove va finire e cosa produrrà un suo verso, un suo gesto, un suo racconto.

    Ma su questa faccenda, ci tornerò ancora, e in forma più ampia che in un commento.

  165. ad alcor

    “ed era stato proprio Inglese a dargliela”

    ti correggo, alcor, per me l’articolo di Scarpa su Libero non era che uno degli esempi particolarmente calzanti di un atteggiamento più diffuso. In tali discussioni il generale e il particolare devono tenersi stretti. Il tema è chiaro ed è stato colto dai più: la responsabilità dello scrittore rispetto ai contesti e all’atmosfera politica e culturale dentro i queli s’inserisce la sua opera e la sua parola pubblica. Ma è fondamentale che la discussione si sia concentrata anche sul caso specifico. Si solleva la questione generale, proprio per interrogarsi criticamente sui casi concreti, e viceversa – e non solo in termini retrospettivi (di processo) ma in termini prospettici, di azione.

  166. ad andrea cortellessa:
    tu scrivi, fotografando peraltro un’attitudine creativa ormai consustanziale a chi scrive sia in rete che nei quotidiani: “bastano poche frazioni di secondo per scartare un aggettivo che istintivamente useresti “di là”; ma è un fatto che questi bilanciamenti si operano eccome, nello scrivere”.
    ma non sarebbe il caso di dire che ormai anche in rete ci sono luoghi e spazi di notevole dignità critico-letteraria, che surclassano alla grande certe pagine di quotidiani che di ‘culturale’ hanno solo la presunzione onomastica e nient’altro? Cito solo un sito che è un piccolo grande thesaurus da questo punto di vista che è ‘il compagno segreto’. Non sarebbe il caso di pensare che in rete si è, in realtà, molto più letti che sulla stampa per cui essa merita un rispettoed uno scrupolo nella scrittura pari a quello che si usa per il cartaceo?

  167. @d alcor
    @ inglese (che spero non mi traslaci perfidamente poichè apprezzo e “rifletto” molto il suo lavoro)
    @ cortellessa d’anticipo
    a parte quanto ha già obiettato nubar, il discorso è complesso, e non posso portarlo avanti io da solo, qui… lancio alcuni spunti:
    1) la tipica faziosità, e spesso cretinismo della sx, le è costata probabilmente una gran fetta dell’elettorato, che è più pensante di quel che si creda. la malafede la ha ad es. incastrata sul caso marrazzo, costringendola ad autodimettere un presidente solo perchè aveva toccato un pene. andrà sempre peggio finchè bersani o la annunziata si mostreranno incapaci del semplice esercizio di dissociare l’apparato fonatorio da quello auditivo, di spostare il punto di rappresentazione del proprio ego fuori del volume del proprio corpo, e in sintesi “ascoltarsi”, “trascendersi”. questo perchè suppongono ingenuamente di essere un io unitario, perchè ignorano che le proprie molecole sono elementi morti, inerti, che acquisiscono vita solo a un certo gradi di complessità, così come le unghie. questa cultura percettiva la sx l’ha persa per via.
    2) la croce: se la sx non trova un simbolo nuovo forte e vero, che sia una vulva gocciolante o un canto dell’inferno o un microchip e martello, tanto per fare dello spirito, che stia per tutta l’immane massa dell’invisibile che ci precede e sottende, per l’immane massa di ciò che ignoriamo, sarà sempre svantaggiata rispetto alla dx.
    3) idem se la sx continua a ignorare che il vantaggio della sua proposta è esclusivamente estetica, è, stringi stringi, trovare più bella la giustizia che il successo, il che sapeva benissimo pasolini quando criticava la bruttezza della gioventù consumista.
    so bene che inglese ha trattato e non ignora queste cose, ma sbaglia quando le relega alla “poesia”.

  168. LINNIO
    certe pagine di quotidiani che di ‘culturale’ hanno solo la presunzione onomastica e nient’altro

    GEORGIA
    Ecco in due righe hai detto quello che cercavo di dire dall’inizio :-)

    E’ giusto scandalizzarsi se uno scritto passa da un contenitore all’altro, se ormai tutte le pagine culturali sono, per lo più, un non-luogo?
    Grazie di aver segnalato il compagno segreto, non lo conoscevo

  169. @Livio
    Su molte delle cose che dici sono perfettamente d’accordo (infatti non capisco perché ti rivolgi a me nel dirle…). In particolare che la sinistra (oddio, perché sx?) abbia abdicato precisamente, con la stagione post-89 e magari pour cause (ma dopo vent’anni direi che l’eleborazione del lutto possa bastare), non tanto ai suoi simboli (molti dei quali erano equivoci, illusori, macchiati da crimini atroci) ma alla necessità di un simbolismo. La sua debolezza, la sua subalternità culturale deriva anche da questo. (Ma chiediamoci: qual è oggi il simbolo della destra – perché non dici dx? – se non la Faccia Ora Rossa del suo dominus, ovvero e più in generale il simbolo dell’euro?)

    @ Linnio
    Non conosco il sito di cui parli e che andrò senz’altro a vedere. Ma anche qui, perché ti rivolgi a me? Io sono perfettamente convinto della crescita culturale della Rete, se no non ci starei tutto ‘sto tempo! (Faccetta) Tempo fa su Vibrisse c’è stato un dibattito secondo me di buon livello (http://vibrisse.wordpress.com/2009/11/06/di-questo-si-sarebbe-potuto-e-dovuto-dibattere/) precisamente sulla riconversione al digitale di tanti cartacei che, quorum ego, vedono sempre più ridursi al di fuori di essa gli spazi a disposizione per una qualsiasi discussione non sia un messaggio pubblicitario (vedi appunto il simbolo della dx); ma anche sulla necessità, che avvertiamo, di operare una riconversione linguistica tanto nostra che del canale che usiamo: molte delle cui abitudini troviamo per formazione (o magari semplicemente per età) inadatte a esprimere il nostro punto di vista. E’ stato interessante che qui, per es., Tiziano Scarpa sia intervenuto in prima battuta con tutte le possibili mani avanti contro quello che temeva si annunciasse come un “processo politicistico” ai suoi danni. A me ha fatto una netta impressione negativa, in un primo momento; poi ho pensato che il suo timore, dati certi lontani precedenti, potesse anche essere giustificato. E invece, spero possa anche lui concordare, fino a questo momento la discussione è stata a mio parere civilissima e molto interessante.

  170. @ georgia
    Il mio giudizio sulle pagine culturali dei giornali è molto più severo di quanto tu possa pensare. Ma continui a spostare i termini del problema: io non mi scandalizzo affatto se uno scritto “passa da un contenitore all’altro”; penso al contrario che questo sia un problema pratico e teorico molto interessante. Io mi scandalizzo se uno scritto (sottinteso: di valore) viene pubblicato su “Libero”.

  171. Se il poeta parla d’altro, e dunque è riluttante a entrare politicamente nell’oggidì, e non sfugge cioè all’eterno nulla della torre d’avorio, sacra o profana che sia, perché prendersela? In ogni caso, la sua opera parla per lui, così come sono gonfi di significato i suoi atti. Pretendere che un Rondoni parli e si schieri come un Fortini non ha senso: perché non ha senso prendersela con chi, per quanto rispettabile o di qualità possa essere il suo lavoro, sta da un’altra parte.

    L’impegno dell’intellettuale è un problema antico. Per come la vedo io, dal momento che ha un ruolo pubblico, quand’anche organizzando o partecipando a convegni sul sacro, qualsiasi poeta gioca le sue carte nella sfera della produzione di pensiero, e postula sempre una certa ideologia: partecipa, a suo modo, a una presa di posizione particolare. Per questo mi lascia indifferente il senso della poesia di Inglese. Costoro, i vari Rondoni, sono soggetti portatori di un’ideologia con cui non voglio avere a che fare; invitarli a parlare d’altro è un’istanza che non avverto. Preferisco cercare di precisare il mio discorso, insieme ad altri che si pongono in un’ottica di superamento della fase attuale.

    Quello che mi divide da loro (dai Rondoni) è lo stesso che mi divide da Libero o fogli del genere. E questa divergenza è dirimente: NON PARTECIPARE è l’unica parola d’ordine che ha senso condividere. Il gioco non conviene. Sono, quegli spazi, maschere di un’unica ideologia totalitaria. Questo è il motivo, tutt’altro che secondario, per evitare di prendere parte alla loro affermazione. Entrarci è proporsi come “collettori ideologici”. Trovo poi ingenuo credere che si possa entrare uscendo dalla natura reale dell’ideologia che alberga li dentro; che è un’ideologia ingombrante, capace di distruggere tutti gli apporti diversi, perché ciò che veicolano è se stessi come spazi ostili alla democrazia, e la presenza di un’eccezione non può privarli della loro essenza, semmai gustificarli.

    Noi possiamo solo negare, scrisse il Fortini già citato. Possiamo indicarli (i Rondoni e i Libero) per quello che sono: rappresentanti di un’ideologia che si specchia nella conferma dei rapporti sociali. Che parlino pure del sacro o della bellezza … Siamo noi che dobbiamo parlare d’altro, negando l’ideologia di cui sono fautori mostrandone le fattezze anti-democratiche e autoritarie. Per (ri)cominciare, al più presto, a praticare la negazione della realtà, anche se questa è un’impresa decisamente fuori dalla nostra portata …

    ng

  172. domanda a Cortellessa:
    Ti hanno mai censurato un pezzo alla Stampa? Nel senso di non pubblicato un articolo perché inopportuno rispetto alla linea editoriale del giornale. E nel caso in cui si fosse prodotta una tale cosa che conclusioni ne hai tratto? Ovvero hai incassato e basta o messo in discussione la collaborazione al giornale.
    effeffe

  173. @ effeffe
    E’ una domanda di cui capisci benissimo l’indiscrezione. Comunque per fortuna posso risponderti in tutta sincerità. A differenza che sul manifesto (un caso molto singolare, e dal significato perfettamente inverso a quello che si potrebbe verosimilmente pensare), mai un pezzo concordato con la Stampa o con Tuttolibri mi è stato rinviato al mittente per inidoneità con la linea politica del giornale. In un caso si è dovuto a un mio ritardo la mancata pubblicazione di un pezzo ritenuto non più attuale. (Non che abbia preso bene la cosa, anzi.) In un altro caso è subentrato un ripensamento circa l’opportunità culturale di dare la parola a un pensatore a me molto caro (ma non per motivi politici, bensì presuntamente linguistici), e io ho pubblicato la cosa altrove. In due o tre altri casi (uno molto doloroso) pezzi concordati non sono stati scritti perché bloccati all’ultimo momento da mancanze di spazio o sovrapposizioni con materiali simili pubblicati sulla stessa testata (all’insaputa, evidentemente, del redattore committente).
    Ben altro discorso, ovviamente, meriterebbero però le proposte non accettate: e su quello ho una casistica interminabile, fra manifesto e Stampa.

  174. la censura su giornali come la stampa si presenta nelle varie forme …MAI come censura, del resto i collaboratori si abituano presto ad autocensurarsi preventivamente e a non toccare mai argomenti “delicati” e … non graditi … sui giornali di sinistra la censura arriva invece come censura-nuda, perchè i collaboratori credono, forse in buona fede, di poter dire tutto e sono meno prudenti :-).
    Ad ogni modo se non esistesse alcun tipo di censura non necessiterebbero molti giornali … ne basterebbe uno solo.
    Il casino nasce quando TUTTI i giornali censurano le stesse identiche cose, allora alla fine non resta che un giornalaccio come Libero che è così a corto di cultura che prende tutto e forse paga pure bene :-), non vorrei scandalizzare ma, al di là di ogni moralismo (secondo me fuori luogo) forse anche questo fa parte della libertà di parola …

  175. @ georgia
    Certo, l’introiezione del veto è il principale strumento dell’illibertà contemporanea. Ma nutri una fiducia ai miei occhi davvero bizzarra, che un giornale come “Libero”, così come “Il Foglio” del resto, “prenda tutto”. E’ evidente a tutti come la libertà d’espressione sia cara alla parte politica alla quale queste testate sono organiche.

  176. @Inglese

    accetto la correzione e concordo, ero stanca e sono stata spicciativa.

    quanto al resto, (ed è un peccato che il thread abbia questa forma a nastro, che non mette in evidenza la ramificazione del discorso, ormai forse eccessiva per poterla seguire tutta e approfondire) cerco di risponderti riassumendo le mie posizioni.

    Sulla marginalità bisogna intendersi, se parliamo della perdita di valore della letteratura nella formazione delle classi dirigenti (uso questo vecchio concetto, molto vecchio, per comodità di commento), con tutto quello che comporta, è nei fatti. Soprattutto di quella letteratura di ricerca che prevede da parte del lettore tempo dedica e attenzione e per la quale non c’è mai stato un pubblico amplissimo, ma in compenso un pubblico di eccezionale qualità il quale è stato a sua volta un patrimonio, se non un lievito, per ogni civiltà.
    Il terreno si è ridotto, ma non mi straccerei le vesti, non ancora.
    A favore di questa letteratura, che va difesa e che corrisponderebbe – se gli editori non fossero così miopi come risultano dal numero del verri sulla bibliodiversità – almeno al settore R&S dell’industria altra, bisogna operare io credo tenacemente. Va difesa quella che chiami “diversità dei testi, delle forme di scrittura, della loro possibilità di aprire diversamente i mondi” e va difesa a priori, senza porre alcun giudizio politico preliminare, o meglio, l’unico che a me interessa ed è profondamente politico anche quello, e cioè che sia una letteratura che pensa se stessa in ogni forma che è dato al suo autore porre in campo.
    Il mio unico nemico in questo campo è il modello d’intrattenimento commerciale quando si dà una riverniciata di presunta complessità, e in questo trappolone pubblicitario e mercantile cadono in tanti, mostrando quanto si sia degradata la consapevolezza culturale anche in quella parte del paese che crede di essere parte pensante. E purtroppo, questo lo dico a quelli tra noi che insegnano a scuola, proprio una parte consistentissima di insegnanti di scuola media inf. e sup., dei quali ho anch’io una certa sebbene antica esperienza.
    Questa libertà di cui dicevo dovrebbe essere garantita a tutti, e difesa, e solo poi sottoposta a critica, criticare è uno dei diritti fondamentali dell’uomo che pensa.
    Se muore questa forma di pensiero letterario, io non vedo a tutt’oggi da cosa possa essere sostituito per mantenere vivo il rapporto dell’essere umano con se stesso, può esserci, certo, ma per ora non lo vedo.

    Per quanto riguarda il rapporto dello scrittore con il cittadino che è in lui, ci sono molti modi perché siano in consonanza, e ognuno ha il suo, e non deve essere necessariamente una scrittura esplicitamente civile, ci può essere anche una apparente scissione tra quello che si scrive (aikai sui fiori di ciliegio, per quanto mi riguarda) e la propria identità politica, ma proprio per questo a mio avviso, il come e il dove e la consapevolezza del rischio che si corre a non considerare il come e il dove si parla e si scrive, vanno vagliati con grandissima attenzione.
    Il contenitore non è indifferente, e non è indifferente quello che si pubblica nel contenitore, perché si può anche dare il caso (benché mi paia assai improbabile) che un contenitore accetti la provocazione di un testo che lo metta apertamente e radicalmente in discussione, ma in generale il contenitore evita proprio quel tipo di testo che può metterlo in crisi e sottoporlo a critica, e di quello che accetta modifica il contenuto, inutile raccontarsela diversamente, e lo usa e lo piega a proprio vantaggio, soprattutto quando un contenitore non ha neppure l’apparenza della neutralità, ma è un panzer.
    Un articolo sul sacro di uno scrittore come Scarpa pubblicato su un giornale come Libero è quanto mai a rischio strumentalizzazione, al di là delle intenzioni, o distrazioni, dell’autore.

    Scendendo, o anche salendo, se si vuole, al rapporto personale dello scrittore con la sua eventuale marginalità, vorrei ricordare a tutti che lo scrittore, e qui penso allo scrittore in generale e perciò anche al critico, quando si pone gli obiettivi ai quali ho accennato, il rischio di fallimento lo corre sempre, fa parte del gioco, se uno non vuol rischiare deve orientare (se ne è capace sia materialmente che intimamente) la sua scrittura e i suoi obiettivi al lettore. Con tutto quello che comporta. Anche di soddisfazione, se ce la fa, io credo che Camilleri sia un uomo simpatico e in pace con se stesso. E di sinistra.
    Ma se qualche anima bella, lei sì ingenua, pensa che questo mio sia idealismo, l’unica risposta che posso darle è di mettersi a studiare, di leggersi gli epistolari, le biografie, i diari e tornerà con i piedi per terra.

    E inoltre – e questo non per te, Inglese, ovviamente – che una persona voglia legittimamente veder riconosciuto il proprio lavoro è sacrosanto, anche se non è garantito, che una persona voglia anche poter mangiare senza fare i salti mortali è altrettanto sacrosanto, anche se non è garantito, ma che si pensi che la letteratura dia pane in abbondanza e anche piselli dolci, quando tutta la storia della civiltà mostra che non è stato mai così, a parte pochissime eccezioni, è un riflesso a mio avviso di quella pulsione al successo ad ogni costo dei pessimi anni ’80. A chi ci crede dico, datevi una svegliata, se volevate questo dovevate fare altro.

  177. ma certo che il foglio e libero sono giornali-fogne, sono d’accordo con te, ma ripeto e poi non lo dico più, in tembi bui la cultura conta così poco che è quasi più facile che facciano passare un pensiero libero (di cui non capiscono la forza) sulle pagine culturali di giornali come libero e il foglio che su altri. Oggi è un mondo superconformista, nostro malgrado lo siamo tutti, perchè pensiamo e scriviamo sempre tenedoci con ambedue le mani a delle balaustre … più avvertiti e culturalizzati siamo e più siamo conformisti e non ri-conosciamo più quello che non lo è … anzi ci da fastidio, … capita capita che nelle fogne finiscano cose buone rifiutate spocchiosamente da altri ;-)

  178. Grazie Andrea per la risposta. Ti ho posto questa domanda perché mi interessava sapere quanto sia pertinente l’osservazione di quanti ritengono che la rete possa in qualche modo restituire alla parola la libertà che la stampa scritta non è nelle condizioni di garantire. Al di là della censura-limite degli spazi disponibili (tremila, quattromila battute) di quella professionale – servizio gratuito o a pagamento – esiste come sai una vera censura che si consuma sui due piani citati da te e da Georgia, quello dell’autocensura preventiva, e quello della proposta bocciata a monte. In questi ultimi mesi stiamo assistendo a un fenomeno assai nuovo, da questo punto di vista. Molti intellettuali (e narratori) normalmente ospitati sulle pagine culturali dei quotidiani si rivolgono alla rete (parlo nello specifico di nazione indiana in cui riceviamo tante richieste di pubblicazione di questo tipo) invertendo quello che era il passaggio obbligato fino a qualche tempo fa, ovvero dalla rete alla carta stampata. In altri termini quello che veniva definito come l’assalto al castello da parte dei blog al mondo della cultura ufficiale (quotidiani o editoria) oggi sembra essersi completamente ribaltato. Che cosa fa così gola dei blog? Il lettorato che ha? La libertà con cui è possibile scrivere? La dimensione partecipativa dei commenti? Sono tutte domande che se inserite all’interno della questione cadre da qui siamo partiti, ovvero intellettuali e potere, potrebbero aprire dei campi assolutamente inesplorati oggi, a condizione però di levarsi certe maschere e di confrontarsi in modo autentico- senza isterismi- sulle cose.
    effeffe

  179. @ effeffe
    Quello che mi dici non mi sorprende. Ho detto più o meno la stessa cosa alle 10.07. E’ un tempo d’emergenza, il nostro. E chissà che, come dici tu, benjaminianamente la struttura dell’edificio non si riveli finalmente a giorno nel momento in cui va in fiamme.

  180. @liviobo

    per sinistra tu intendi il gruppo dirigente dei ds, mi pare, quanto alla destra, quando non potrà più contare su B., avrà la stessa debolezza, neppure i leghisti, che sono stati i più attivi creatori di simboli degli ultimi vent’anni, sono riusciti a trovarne di efficaci, tanto che li spostano in continuazione, dal dio Po al crocifisso, dai celti alla razza Piave, creando scenografie illusorie nelle quali i loro elettori si identificano con facilità perché il vero punto in questione è difendere i schei da un lato e l’immobilità del campanile dall’altro, Bossi si inventa simboli disneyani perché sa che basta lasciar fare a loro, alla gente, al “popolo”. Con tutti i danni di un lasciar fare di questo genere, salvo i marciapiedi puliti e le buche sulle strade riempite ecc.

  181. ma il problema non è propriamente quello dei simboli, quanto quello del fuori-linguaggio, dell’impensato che essi simbolizzano… è questo spazio che non è esplorato, abitato e posseduto dalla sinistra… il simbolo poi viene fuori da solo… (certo non invidio le croci celtiche a quei 4 deficienti…)

  182. Sono d’accordo con liviobo: “Essere di sinistra è un fenomeno di percezione. Si percepisce l’orizzonte, non le cose; si percepisce all’orizzonte.” scrisse Deleuze – orizzonte è appunto impensato. E questa non è sinistra.

  183. a gambula,

    il problema non è Rondoni, che è in circolazione da anni, ma coloro che ci sono più vicini, o che potrebbero esserlo, e però per diverse ragioni da un po’ di tempo a questa parte hanno cominciato a fare con convinzione il discorso che qui ha difeso anche georgia: dal momento che è cultura, va bene ovunque, e sempre. Ora secondo me è salutare e urgente rimettere in discussione questo assunto. Certo, uno può sempre dire, ma tanto, salvo pochi luoghi e amici franchi, è tutto uguale, Repubblica e Libero, Scarpa e Rondoni, quindi non ha senso discutere mai. Io non la penso così. Ma questo non toglie nulla al tuo discorso sul fare alternativo che è sacrosanto.

    a alcor,
    sono d’accordo praticamente con tutto quanto dici

  184. andrea io ho volevo fare un discorso un po’ più complesso di quello che riassumi tu…
    però voglio riportarvi alcune righe di pasolini che giorgo di costanzo ha messo ieri nel mio blog:

    Non intendo condannare nessun autore che accetti di lavorare con Rusconi. Non solo perché penso, per esempio, che lavorare per la Televisione sia molto peggio, ma perché, per partito preso, non intendo condannare nessuno per ragioni formali. Lo facciano i giovani, il cui oltranzismo è semplicistico e biologicamente crudele.

    non conoscevo o non ricordavo questo pezzo di pasolini, ma sono daccordo con lui :-), anch’io NON intendo, per partito preso, condannare nessuno per ragioni formali, se si parla di scrittura e letteratura (e naturalmente per forma non si intende la forma del testo che quella è fondamentale).
    L’oltranzismo semplicistico e biologicamente crudele oggi non è solo dei giovani è diventato ormai endemico e generalizzato, è trasversale a tutte le generazioni, e la rete gli fa allegramente da cassa di risonanza.

  185. E’ un segno della fragilità e frammentarietà culturale di questi tempi, quest’uso di Pasolini così sconsiderato, preso a pezzi e bocconi e utilizzato per metter pezze ai ragionamenti che non stanno in piedi, e che viene utilizzato per dimostrare tutto e il contrario di tutto, ieri a sostegno del movimento studentesco scambiato per il Movimento Studentesco, qui per confondere Oggi con Libero e scambiare “ragioni formali” con ragioni sostanziali.

  186. scambiare ragioni formali con ragioni sostanziali

    Forse ho preso lucciole per lanterne, chissà ;-) …mi capita spesso … a mio giudizio la sostanza semmai sarebbe stata il contenuto dei pezzi usciti su libero. Nessuno ad esempio ha detto che la recensione ad ammaniti di Nori (per altro ottimo scrittore) era meno che mediocre e che il testo di scarpa alla fin fine non meritava tutti ‘sti commenti in cui, peraltro, mai è stato nominato detto testo :-).
    Pasolini l’ho postato solo perchè dice (cosa che condivido) che allora era peggio lavorare per la televisione che per rusconi, come oggi, al limite (visto che qui nel giudicare per partito preso si è raggiunto il limite), è peggio apparire anche solo pochi minuti alla tv, che posteggiare un proprio testo sulla pagina culturale di un giornale, per quanto orrido tale giornale possa essere.
    Ripeto per me potete andare tutti in tv a presentare un vostro libro (come siete liberi di pubblicare dove volete e vi gudicherò solo sul testo) … ma in base alle regole ferree qui da voi elencate … non dovrebbe più farlo nessuno :-)

  187. @ Andrea
    Rondoni è un nome che hai fatto tu, qualche commento più indietro. Scrivo “i” Rondoni per sintetizzare coloro ai quali ti riferisci. E comunque non ho scritto che non ha senso discuterne; piuttosto che bisogna mostrarne la contiguità con l’ideologia totalitaria dominante. Come farlo se non discutendo?

    @ Georgia
    Io sono “biologicamente crudele”, e spesso mi rammarico di non esserlo appieno. “Semplicistico” lo sono a volte, “oltranzista” sempre. Però non mi pare che nessuno, qui, abbia condannato chi scrive su Libero. Un conto è condannate, arrogandosi il ruolo di giudice, un altro è prendere le distanze; che è prendere le distanze, prima di tutto, dalla “cornice”: alcuni, e me tra questi, ritengono che sia screditante collaborare con Libero, punto. Dopodiché, se tu o Scarpa o chiunque lo voglia fare, liberissimi di farlo. Per me la “sconfitta” è già da tempo malattia. Anzi, siamo già in cancrena; non ci resta che aspettare il vento e vederci, finalmente!, definitivamente dispersi. Solo allora potremmo ricominciare a re-inventarci.

    Anch’io aspetto con ansia (e con una gioia repressa troppo a lungo) le fiamme dell’edificio. Ho solo il timore che possano, stante la nostra inadeguatezza, ri-costruirlo uguale al precedente. Ma alla gioia di vederlo bruciare, ecco, non ci rinuncerei per nulla al mondo.

    ng

    PS: è possibile dire apertamente che Pasolini ha scritto tutta una serie di cazzate?

  188. io non scrivo quindi non ho problemi dove situarmi :-), per me è screditato solo chi scrive un testo stupido o inutile …
    penso che nessun giornale oggi abbia più la forza di screditare o di proteggere alcunchè :-) …

  189. Solo perchè ho ancora a cuore il bene comune, copierò, a mano, la seconda parte – quella che parla più distesamente di Rusconi, e chi vuole può andare a leggerselo tutto nel secondo volume dei Saggi sulla letteratura e sull’arte pubblicato nei Meridiani – il brano tratto da Descrizioni di descrizioni e intitolato Ananda K. Coomaraswamy, Induismo e buddismo. E scritto nel 1973.
    Faccio del frammentismo anch’io, inevitabilmente, ma un po’ meno frammentario e forse utile per suggerire prudenza in quest’uso disinvolto delle citazioni:

    ” […] Ho scritto queste note en anarchiste, ma non senza progettazione. Il libretto sull’induismo e il buddismo è pubblicato infatti da Rusconi. Questo editore ha pochi anni di vita (circa due, credo) ma già i suoi elenchi di libri pubblicati sono molti, sotto i cartelli segnaletici di varie collane. Nella collana di narrativa e di poesia, Rusconi è abbastanza eclettico, non si formalizza troppo: e nel suo piano generale consistente nel fornire i testi di una nuova, grossa “letteratura di destra”, cerca di corrompere anche autori non di destra, secondo la tattica tradizionale delle “aperture” verso i due corni estremi. Molto più coerente, se non fazioso, Rusconi appare nelle varie collane di saggistica, e specialmente in questa, “Problemi attuali”, in cui è uscito il libretto di Ananda Coomaraswamy (da Bernanos a Lévi-Strauss, da Jean Daniélou a Giuseppe Prezzolini, fino all’abominevole Armando Plebe – il povero Noventa sta a fare da paravento, pagando così lo scotto alla sua ambiguità un po’ troppo conclamata).
    Adesso Rusconi ha aggiunto alla sua attività di editore una nuova attività di produttore cinematografico, nel momento stesso in cui si sta impadronendo delle testate di alcuni giornali già di destra. Alle sue spalle, si dice, ci sono il petroliere Monti e la Cia. Si tratta dunque della più grande operazione culturale di destra che si sia mai avuta in Italia. Da qui lo scandalo. E la necessità di una nuova lotta per gli intellettuali di sinistra, reduci dalle glorie degli anni Cinquanta, dagli idilli degli anni Sessanta, e dai disastri degli anni Settanta. Non c’è dubbio che Monti sia fascista, nel senso anche tradizionale della parola. Si può dire lo stesso della Cia e di Rusconi con lo staff dei collaboratori? Non credo, magari anche malgrado loro. Il fascismo classico è per sua natura conservatore: ha la retorica dei buoni sentimenti e del passato, ha la mania del cosiddetto ordine ecc. La cultura che Rusconi propone attraverso la sua grandiosa operazione non è conservatrice, se non in falsetto: essa finge di esserlo. In effetti essa non può nascondere il suo totale cinismo, il suo aristocratico disprezzo per i sentimenti di un arcaico perbenismo e per un passato meschinamente nazionale (essa è internazionale, ormai, sia per formazione che per finalità). Quanto all’ordine, questa nuova cultura, che è in realtà quella dell’edonismo della cultura di massa, si accinge a fare piazza pulita dell’intero universo dell’ordine difeso dal fascismo. Non si fa scrupoli; qualunque cosa essa debba sacrificare a questa distruzione la sacrifica. Prima di tutto a farne le spese, non con le parole ma con i fatti, è la Chiesa e la religione (la cultura di Rusconi non ha alcun reale interesse per operette religiose come quella di Ananda Coomaraswamy!). Presentandosi sotto spoglie tradizionali, tale nuova cultura di destra, ci costringe a inscenare una lotta antifascista così miserabilmente vecchia da sembrare un malinconico balbettio da burattini. Marx e Engels hanno scritto le loro opere nel cuore dell’Ottocento, Lenin a cavallo tra i due secoli: è morto cinquant’anni fa. E’ un intellettuale come me a essere ormai, oggettivamente, un conservatore! Io infatti, come i miei colleghi, sono ancora legato alle idee nate ed espresse più di un secolo fa. La cultura organizzata e imposta dall’operazione Rusconi è invece tutta lanciata verso il futuro, in un totale agnosticismo rispetto ad ogni valore e in un totale cinismo reale verso l’intera storia passata. Ridurre l’opposizione a Rusconi ai termini di una lotta antifascista significa perdere aprioristicamente, e per di più in modo ridicolo. Il fascismo di Rusconi è una maschera la cui estrema e irrilevante corrispondenza con alcuni elementi sopravvissuti di realtà (il teppismo e la volgarità fascista, coperti dal perbenismo e dall’aristocraticità culturale) non deve costringere gli intellettuali democratici (comunisti, gauchisti, ed anarchici) a combattere una battaglia ritardata.”

    Come si vede uno sfondo ben diverso – e una complessità ben diversa – nel quale la televisione è una cosa ancora più diversa, e che può spingere tuttavia a fare tuttavia riflessioni analoghe (il povero Noventa).

    E avendo tanto dato, se non altro del mio tempo, vi auguro buona giornata. E mi scuso per i corsivi saltati, ma non li so fare.

  190. grazie bellissimo pezzo :-) e ora speriamo arrivi qualcuno che per tema di fare frammentismo ci copi l’intero meridiano così risparmiamo 35 euro dell’attuale offerta :-)

    ALCOR
    Come si vede uno sfondo ben diverso – e una complessità ben diversa

    Non direi tanto diversa, anzi direi che pasolini avesse capito tutto quello che stava succedendo … credo che stare a discutere oggi se sia più assolutorio pubblicare una recensione sulla stampa o su libero sia, intellettualmente parlando (politicamente è altra cosa), un vero e proprio falso problema …, ma forse sbaglio io …

  191. Grazie, Alcor, stavo per fare la tua stessa operazione.
    Ultimamente ho la sensazione che si usino le citazioni come una roulette russa. Per dirla tecnicamente, “ad minchiam”. Solo che ogni tanto qualcuno si ferisce davvero.

  192. per non essere tacciata di frammentismo ad minchiam (parola molto di moda) e soprattutto per evitare di ferirmi visto l’effetto che fa sugli scrivani la vista del sangue …. riporto TUTTO il pezzo di Pasolini (segnalato da giorgio) che si trova in Scritti corsari e che era una nota per l’Espresso.

    Per l’editore Rusconi*

    Non intendo condannare nessun autore che accetti di lavorare con Rusconi. Non solo perché penso, per esempio, che lavorare per la Televisione sia molto peggio, ma perché, per partito preso, non intendo condannare nessuno per ragioni formali. Lo facciano i giovani, il cui oltranzismo è semplicistico e biologicamente crudele.
    Quanto all’operazione Rusconi io penso che essa sia molto avanzata (dal punto di vista dell’evoluzione capitalistica), e già tutta dentro il più totale cinismo noetico (presupponente una filosofia neo-edonistica, che sostituisca TUTTO: Chiesa, nazione, famiglia, morale); e che tuttavia combatta ancora come la situazione oggettiva vuole (per l’Italia e per il Cile) delle battaglie ritardate (che presuppongono forme di fascismo tradizionale). Stando così le cose, nella lotta contro Rusconi, Monti e la Cia – alleati nella fondazione di una grande Destra culturale – sfoderare l’antifascismo classico, mi sembra anacronistico, misero e anche un po’ ridicolo. E’ giunto il momento piuttosto che le Sinistre tradizionali italiane e la classe operaia si pongano con urgenza il problema di riuscire là dove il gauchismo è fallito: e combattano il nemico là dove si trova e non nelle posizioni che esso ha abbandonato avanzando per la sua strada.

    *Avevo dato questa noterella a Giuseppe Catalano, per un’inchiesta sull’«Espresso» (23 settembre 1973). Ne è uscito, molto lealmente, soltanto un insensato «excerptum». Inevitabili dunque gli equivoci che ne sono seguiti
    in P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti, 1977, p. 188-89

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Da “80 fiori”

di Louis Zukofsky
Traduzione di Rita Florit. Prima traduzione italiana del più "teorico" degli oggettivisti americani.

“Si”#2 Lettura a più voci

di Renata Morresi
Un'altra voce, un'altra lettura del lavoro di Alessandro Broggi, a partire da "Sì"

“Si” #1 Lettura a più voci

di Andrea Accardi
e di Leonardo Canella
leggono "Sì" di Alessandro Broggi. Un progetto di lettura a più voci e secondo approcci anche molto diversi di un libro difficilmente classificabile.

V.C.B.*

di Giancarlo Busso 
Il cortile della cascina era in catrame. Il catrame in estate è diventato un problema, ma questo non accadeva quaranta anni fa. Arrivavano camion pieni di bestiame dalla Francia, alcuni camion avevano milioni di chilometri percorsi e potevano ancora percorrere il periplo della terra, tante volte quante era necessario per ritornare qui nel cortile di catrame.

Da “Hitchcock e l’elitropia”

di Riccardo Gabrielli
A detta del "Dictionnaire portatif" (1757) del Pernety, furono i pittori italiani che, in accordo a una fulgida polisemia, cominciarono a chiamare “pentimenti” un carattere tipico dei disegni, ossia quell’indugio, quella specie di esitazione che non è già cancellatura, bensì ventaglio di idee transitorie, simultaneità dei possibili: le teste ritorte in ogni direzione, i viluppi di braccia e gambe doppie, le stratificazioni a matita...

Evanescenza e consistenza del mondo: Zanzotto versus Ponge

di Andrea Inglese
Il mio proposito è quello di avvicinare l’opera di Zanzotto a quella di Francis Ponge, utilizzando quest’ultima come un reagente che sia in grado far risaltare e porre in dialogo aspetti delle poetiche di entrambi gli autori.
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: