Verticali
di Mario de Santis
Non è questa la forma dello spazio / qui le verticali sono chiuse: sono due versi chiave del percorso che Bruno Galluccio ha raccolto nel suo primo libro, Verticali (Einaudi, 2009). Di formazione e per mestiere fisico impegnato nell’industria spaziale e assieme attivo come piccolo editore di poesia, Galluccio costruisce un libro che, in diversi tempi, muove dal lirico e dall’influenza del pensiero scientifico per avviare una ricerca di senso alla luce della crisi di entrambe le forme del pensare. La luce massacra l’ombra / del lato rovescio del pensiero. Il pensiero e il suo rovescio da subito in Galluccio sono dualità che non è però dualismo. Dalla matematica arriva un sostrato di immagini, concetti, metafore. Il pensiero razionale è emblema di una scelta di visione: esercizio lungimirante / fare calcoli sulle parti”, ma presto “impariamo che non possiamo sommarci subito. Difficile la riduzione dell’esistere a una formula. La somma che dall’Io va al noi (l’universale a cui tendeva anche l’assoluto io della lirica) è invece nella costruzione di un linguaggio che muove dalla scomposizione dell’esperienza del conoscere: versare sguardi nel cielo improvviso / con la domanda ancora incompleta.
Galluccio adotta un registro linguistico vario, con metafore di grande forza visiva e cortocircuiti logico-sintattici, ma lo fa in modo nuovo, approdando a una sorta di sperimentazione senza sperimentalismi, una poesia che viene dopo la lirica: lo spazio diveniva visibilmente più curvo / secondo alcuni per un recente addensarsi della materia / ma intanto ci si chiudeva nel quotidiano. La posta in gioco infatti – e non solo per la poesia – è un’urgenza esistenziale, non cognitiva, presagio di catastrofe: il cielo è costellato di fratture /… potrebbe aprirsi / ora. Lo sguardo – come testimonia la seconda sezione, Proiezioni– tende a spostarsi verso il qui, l’abisso di minuzie. È lo spazio umano, universo circoscritto ma inesauribile, fatto dalla nostra verticalità chiusa nell’esistenza concreta dei viventi in una storia: la tensione a conoscere si volge allora a trovare nella tua cornice presente il mio passato. È questo il nuovo spazio infinito da indagare anche dopo la scienza: si può scrutare nel proprio passato / come in un cielo di stelle. Osservare, nel suo farsi, la gravità dell’esistere, la pesanteur delle assenze, dei ricordi, degli sfuggenti rapporti con l’Altro, fino a trovare una forma alla poesia: il baricentro della notte tenta di spostarsi verso la luce / i ricordi si insediano nella regolare geometria del tempo e la composizione spinge verso la metrica / il timore si affolla alla porta del silenzio. Non si tratta di restaurazione, ma del superamento della metafisica. Senza cercare una Lichtung dell’Essere, senza fede nelle varie forme della razionalità o in un’ideologia del reale, la poesia è ciò che sopravvive ai paradossi del pensiero e si fa registro dell’umano, come si comprende nel poemetto che Galluccio dedica al matematico degli insiemi George Cantor.
Il registro di Verticali, infatti, nella sezione eponima, diventa approdo alla matericità, l’uso del verso libero tende a una maggiore regolarità, meno vertiginose le immagini, fino a un’ombra di realismo (il cerchio si chiude con estrema fatica / nei supermercati fissano sconti alle casse / non è questo il cerchio che si cercava / questa selva di saldi). La dimensione piana della città degli uomini, con le tessiture familiari, è accettata come spazio unico per l’esistenza, sorta di finitudine ma con infinite sfumature. Domina in queste poesie un sentimento di decomposizione, di slittamento, di inafferrabilità (perdi i riferimenti spaziali / le frasi cadono smozzicate…) ma il linguaggio della poesia tenta una ridefinizione degli insiemi umani a partire da una posizione di estrema singolarità e di dolorosa non-coincidenza con l’Altro (non abbiamo più lo spazio per incontrarci). La trama del testo si fa spazio di assorbimento di un diverso e inquieto principio di identità: Non ho sonno. Non so pregare / accolgo la solitudine di ogni singola onda.
Galluccio punta a indicarci l’Io come una sorta di essente sgusciato da ogni illusione di identità, che non è frutto del tragico né frutto di cogito. Nel testo finale è scritto Mi lascio dietro: con una capriola sintattica per tracciare un’orma di sé in una prospettiva di precarietà temporale, tra passato in dissoluzione e futuro da ricordare in quel che c’è del presente. Come di fronte a un mare-tempo l’io si fa figura dal passo lieve e pesante che ricorda certe figure di Giacometti e se qualcuno dicesse / che c’è un domani distinto / da questa impronta lo sentirei menzogna. Lo sguardo si fa impersonale: le solitudini sfilano sul bagnasciuga, e qui (quel-che-resta-del) l’Io, con un gesto quasi ironico verso i paradossi della logica e della matematica, conta l’unicità delle conchiglie.
Nessun legame con altri detriti marini novecenteschi, né osservazione tecnica della natura. La potenza dell’Io lirico e dell’Io logico si dissolve, la poesia è il campo di forza senza potenza di singolarità affondate nel biòs, la costruzione del linguaggio della poesia come uno degli atti materici che attendono e assieme preludono un ethos a venire: potrei farmi pantano e sonda che pesca / la conchiglia che accoglie tutte le acque. Una solitudine ci accomuna, noi viventi, ed è fatta, sembra dirci Galluccio, dell’infinitezza della nostra nuda, finitissima vita. L’etica, legata anche a un diverso spirito della conoscenza, riparte da qui: da ogni detrito verbale e materiale che spinge l’io, ormai scomposto, verso l’aperto.
Bruno Galluccio, Verticali, Einaudi, Torino 2009, pp. 120, E 12,00.
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belle tabelline, ma siamo più sulle orizzontali I see
Da quel che percepisco , a leggere la presentazione di De Santis, mi pare una poesia stremamente interessante; mi dà l’idea di qualcosa che nasce da un pensiero e una sensibilita “alti”; dopo tanto minimalismo, mi dà la sensazione dei grandi poeti del novecento. Voglio proprio verificarla questa sensazione. Corro subito a ordinarlo.
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