La psicoanalisi di fronte alla colpa
di Isabella Mattazzi
Già negli anni ’80, Jacques Derrida aveva dichiarato la necessità di una nuova etica della psicoanalisi che tenesse conto non soltanto dei modelli teorici di riferimento, ma delle diversità culturali degli psicoanalisti in quanto soggetti con una ben precisa identità geografica, politica, sociale. Chi fa psicoanalisi oggi infatti non può non riconoscere la portata amplissima, all’interno della pratica terapeutica, del proprio vissuto storico e del profondo intreccio che questo vissuto sembra avere con i nuclei più problematici della propria formazione psicoanalitica. Ma che cosa vuole dire, per un analista, confrontarsi con la Storia? Che cosa significa porsi non soltanto come figura professionale, ma come soggetto «politico-culturale»? Ne abbiamo parlato, in occasione del recente convegno «Straniero Familiare» – organizzato a Milano dal centro milanese di psicoanalisi Cesare Musatti – con Veronika Grueneisen, psicoanalista tedesca, presidente di Partners in Confronting Collective Atrocities e organizzatrice di uno degli esperimenti più interessanti e complessi di questi ultimi anni nell’ambito degli studi sulle dinamiche psicosociali, le «Conferenze di Cipro», di cui lei stessa ci racconterà.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli psicoanalisti tedeschi che avevano lasciato la Germania non accettarono, al loro rientro, di far parte di una società psicoanalitica che fosse in comune con chi invece era rimasto. In che modo la Storia ha giocato un ruolo simbolico importante nella pratica psicoanalitica tedesca?
Come per tutto il resto della società, gli avvenimenti di questo ultimo secolo e in particolar modo l’Olocausto in tutta la sua drammaticità, hanno avuto gravissime ripercussioni a livello conscio e inconscio per gli psicoanalisti tedeschi. E come per tutto il resto della società, c’è voluto per loro un tempo considerevolmente lungo per affrontare la cosa. Dopo la frattura nel dopoguerra del mondo psicoanalitico in due società distinte, si è creata l’idea che ci fosse una maniera «pulita» di fare psicoanalisi e una «colpevole», così come nel percorso terapeutico individuale ci si poteva considerare «fortunati» o «sfortunati» a seconda di chi era il tuo analista. Soltanto oggi, dopo quarant’anni, ci si sta rendendo conto della portata ideologica di tutto questo. Adesso i membri della Deutsche Psychoanalytische Gesellschaft e della Deutsche Psychoanalytische Vereinigung si parlano, collaborano, cosa che sarebbe stata assolutamente impensabile fino a una manciata di anni fa. Un discorso analogo si potrebbe fare per quanto riguarda i rapporti tra psicoanalisti tedeschi e psicoanalisti israeliani: la Shoah ha gettato un’ombra che ha pregiudicato per anni lo scambio professionale tra i colleghi delle due nazioni, con resistenze radicate nella parte più profonda e nascosta della loro stessa identità. Come era possibile che i figli tedeschi dei colpevoli e i figli israeliani delle vittime potessero riuscire a riflettere insieme? Come era possibile rinunciare all’identificazione inconscia con la generazione dei propri genitori per sviluppare nuove possibilità di relazione e di collaborazione professionale? Proprio per rispondere a questo tipo di domande, negli anni Ottanta, è nata l’idea delle Conferenze di Cipro.
Ci racconta in cosa consistono e come si svolgono queste Conferenze?
Si tratta di una serie di seminari residenziali della durata di sei giorni, una sorta di spazio protetto in cui psicoanalisti tedeschi ed ebrei possono affrontare il significato dell’Olocausto nel mondo della nostra contemporaneità, riflettendo sulla sua portata emotiva all’interno della costruzione identitaria delle seconde e delle terze generazioni dopo la guerra. I seminari sono impostati secondo il metodo delle group relations sviluppato dal Tavistock Institute di Londra che prevede un lavoro sulle emozioni individuali all’interno di sedute di gruppo strutturate in vario modo. Ci sono sedute ristrette, con partecipanti di un’unica nazionalità o di nazionalità mista, e sedute plenarie con tutti i gruppi riuniti. La dimensione e la composizione del gruppo influenza notevolmente l’atmosfera del dibattito, e i rapporti che di volta in volta si creano tra i partecipanti hanno delle ricadute importanti su tutto ciò che lì viene sperimentato e discusso.
I primi due incontri si sono svolti a Nazareth, il terzo a Bad Segeberg in Germania; oggi le Conferenze hanno invece come luogo di elezione Cipro. Quale importanza ha avuto da un punto di vista simbolico e quanto ha influito concretamente sullo svolgimento delle sedute, la scelta “geopolitica” dei luoghi?
Essere riusciti a organizzare le prime due Conferenze in Israele è stato di un’importanza cruciale per un buon avvio dei lavori. I tedeschi erano infatti piuttosto ben intenzionati a esporsi andando in un paese dove gli ebrei sono la maggioranza. Quello che invece non ci saremmo mai aspettati è che gli israeliani fossero notevolmente attratti dall’idea di venire in Germania. Questi seminari hanno infatti permesso a numerosi colleghi israeliani di origini tedesche di mettere piede per la prima volta in Germania sentendosi del tutto protetti. La recente scelta di Cipro deriva invece dalla consapevolezza da parte dello staff di un bisogno sempre più evidente di allargare il dibattito anche ad altri gruppi nazionali colpiti dalle conseguenze dell’Olocausto. Oggi partecipa alle nostre Conferenze un numero sempre maggiore di persone di identità mista (tedesco-ebraica, ebraico-inglese, ebraico-americana) e Cipro, per la sua storia così complessa e dolorosa e per la sua sostanziale alterità rispetto alla dicotomia Germania-Israele, ci è sembrato un ottimo scenario dove poter realizzare i nostri incontri.
Le Conferenze di Cipro, dunque, vengono organizzate secondo un metodo non specificamente razionale e cognitivo, bensì esperienziale, ossia basato sulla sperimentazione diretta di processi dinamici vissuti nel «qui-e-ora» del setting. Inoltre non è tanto il singolo a porsi come soggetto-oggetto di analisi, ma il gruppo, o meglio «i gruppi» tedesco e israeliano insieme. Che cosa ha significato discutere del proprio senso di colpa o del proprio terrore di sopraffazione, non più di fronte ai fantasmi del proprio inconscio (come avviene in un ambito psicoanalitico “classico”), ma di fronte alla reale presenza dell’altro?
Direi che questa situazione porta con sé un doppio effetto. Da una parte, la realtà è più terrificante del fantasma, perché nei riguardi dell’altro sei maggiormente esposto alla tua vergogna, alla tua colpa, alla tua angoscia; dall’altra però, avere a che fare con la realtà ci pone sorprendentemente di fronte a un improvviso sollievo. Quando riesci a dire il tuo odio o la tua paura guardando in volto non un fantasma, ma una persona reale, e quando vedi che dicendo tutto questo non succede nulla di terribile, ma anzi riesci a dire il tuo odio o la tua paura ancora una volta e nessuno ti ammazza o scappa inorridito, immediatamente scatta una sorta di processo pacificatorio o comunque riparativo: dove «riparativo» non ha il senso di una riconciliazione o di un perdono, ma quella di una accettazione reale e articolata di ciò che è accaduto. La scelta di darci lo statuto di una organizzazione internazionale è stata risolutiva, del resto, perché ha offerto la possibilità di creare uno spazio simbolico e reale che fosse «protetto» sia per i tedeschi che per gli ebrei, difendendo gli uni e gli altri da qualsiasi forma di vendetta o di violenza.
I problemi trattati nel corso delle Conferenze riguardano direttamente i punti nevralgici della costruzione della nostra identità contemporanea. Oltre naturalmente a temi come l’odio, la paura o alle varie fantasie distruttive, dagli incontri è emerso, da parte tedesca, un disagio estremamente marcato nei confronti delle figure genitoriali, soprattutto riguardo allo sdoppiamento simbolico tra la loro immagine familiare e il loro ruolo storico.
L’esperienza di questi seminari è estremamente forte da un punto di vista emotivo e richiede un lavoro enorme di messa in discussione e di rielaborazione della nostra stessa identità. Togliere l’immagine dei genitori dall’alveo di una rassicurante quotidianità familiare per inserirla in un quadro storico di forte distruttività, ci pone di fronte a un pensiero terrorizzante: trovandoci all’interno di un contesto politico-sociale simile, probabilmente anche noi, come i nostri genitori così «normali», potremmo essere coinvolti nello stesso identico modo. A questo proposito, le dirò soltanto che la prima Conferenza avrebbe dovuto avere luogo nel 1992 e non fu realizzata perché non si era raggiunto un numero sufficiente di partecipanti. Non tutti riescono a lavorare su temi così difficili; chi non è in grado di sostenerne il peso, in genere preferisce rimanere a casa.
Lei ritiene che il modello di queste conferenze sia esportabile anche verso la gestione di altre forme di conflitto, per esempio la questione arabo-israeliana, o quella irlandese? E se sì, con quali differenze? Esiste un «nucleo problematico» proprio della questione ebraica, oppure ogni conflitto risponde a dinamiche comuni?
Sono assolutamente convinta che questo modello possa essere esportato anche verso altre forme di conflitto. Nel 2007 abbiamo creato Partners in Confronting Collective Atrocities, una organizzazione che ha assorbito la dirigenza e l’organizzazione delle Conferenze, estendendone il dibattito anche al conflitto israeliano-palestinese. Nel 2008, per la prima volta ha partecipato a Cipro anche una delegazione palestinese il cui contributo è stato estremamente importante.
Nella Shoah la divisione radicale tra «vittime» e «carnefici» è stato un elemento drammaticamente essenziale nella assegnazione simbolica dei ruoli e, forse anche per questo, ha fornito un modello forte di identificazione identitaria nazionale. Nel mondo contemporaneo invece le nuove forme di conflittualità ci mostrano un confine piuttosto labile tra le due figure, basta pensare alla figura del terrorista che si «immola» nel momento stesso in cui compie un atto di estrema violenza verso l’altro.
Questa riflessone corrisponde esattamente al lavoro di analisi che il nostro staff sta facendo in questi ultimi anni riguardo al futuro delle Conferenze; attraverso l’esperienza dei seminari abbiamo capito che i ruoli vittima-carnefice possono cambiare costantemente, e la configurazione ambigua del conflitto contemporaneo ne è un esempio lampante. Le dirò anche, però, che non abbiamo formulato una risposta precisa a questo tipo di problema. Il nostro motto, in un certo senso, è «non sappiamo che cosa fare e andiamo avanti», a significare il continuo lavoro di approfondimento e la costante evoluzione delle nostre posizioni teoriche.
Le Conferenze di Cipro sembrano ricordare in parte i lavori della Truth and Reconciliation Commission istituita in Sudafrica nel 1995. Il mandato della Commissione era quello di raccogliere e registrare le testimonianze di coloro che si erano resi colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime dell’apartheid, e di coloro che ne erano stati le vittime.
Recentemente alcuni membri della nostra organizzazione hanno pubblicato un libro sulle nostre tre prime esperienze di incontro, Fed With Tears-Poisoned With Milk, di cui Desmond Tutu ha scritto la prefazione cogliendo perfettamente il nostro spirito e rivelando tutta la sintonia del suo messaggio con quello della Commissione sudafricana. Dalla quale noi, tuttavia, ci distanziamo evitando di usare la parola «riconciliazione» che, all’interno nella nostra cultura centroeuropea, potrebbe dare l’idea del tutto erronea della volontà di un qualche perdono o comunque della ricerca di un «punto di arrivo» per il nostro lavoro. Per noi invece è fondamentale che il confronto su questi temi sia elaborato in maniera continua, per affrontare il passato in favore del futuro.
(pubblicato su il manifesto, 25/11/2009)
Che lavoro importante e significativo e credo efficace in maniera evidente. Uno dei miei ultimi concerti lo diedi a Gerusalemme e con un senso molto preciso e puntuale che abbiamo noi che lavoriamo in scena ci trovammo con il pubblico in un modo molto intimo e profondo e insieme lucente. Tornai con la mia percezione e le mie convinzioni sul conflitto completamente cambiate e soprattutto confuse e piene di dubbi, ma con una sorta di piccola rivelazione: oltre ogni motivazione e dato di realtà preciso e anche incontrovertibile avevo sentito l’apertura profonda e il terrore assoluto di quel pubblico. Da lì ho meditato che è da un lavoro su quello che parte del conflitto si sarebbe poi ridotto a mero conflitto politico geografico e quindi finalmente risolvibile, finalmente semplificato. Questo lavoro me lo conferme e insieme mi pare potente e radiante. Diffonderò il iù possibile.