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Letteratura come filosofia naturale

porro di Marco Belpoliti

Mario Porro, Letteratura come filosofia naturale, Medusa, pp. 226

Viviamo in un’epoca segnata da una deriva conservatrice connotata dalla riduzione di ogni problema al paradigma della “semplicità”. Ovvero: semplificazione e superficialità. La cultura tutta tesa ad aprire nuovi spazi di rinascita intellettuale e politica, di cui Primo Levi e Italo Calvino, ma a suo modo anche Carlo Emilio Gadda, sono stati portatori, oggi è un fatto minoritario. Gli studi letterari languono, la critica appare in crisi, le università sfornano laureati in lettere o in scienze umanistiche di livello modestissimo, per la maggior parte alla ricerca spasmodica di un impiego, magari nel mondo della comunicazione, l’unico che tira ancora, almeno nella fantasia dei ragazzi. Il dibattito culturale sembra essersi spostato in altri terreni: perché ha successo oppure no un certo libro?
La cultura pop, equivalente della politica pop, come la chiamano i sociologi che studiano le trasmissioni televisive, centro reale e immaginario della nuova politica, alla stregua palinsesti del III secolo a.C., domina incontrastata. La comprensione della realtà, divenuta sempre più pulviscolare, frammentaria, spinge molti a dare risposte riduttive sia sul piano culturale che su quello sociale e politico. Profeticamente nel 1983, qualche anno prima del crollo delle ideologie, come ha ricordato di recente Massimo Rizzante nel blog Nazione indiana, Nanni Moretti metteva in scena in Bianca la comicissima scuola “Marylin Monroe”: un professore di storia che tiene lezione sulla musica leggera accanto a un juke-box; il preside che sentenzia: “Qui non si forma, qui si informa”; mentre al posto del ritratto del Presidente c’è Dino Zoff, capitano del Mondiale di calcio. Puntualmente è accaduto. Sino a dieci anni fa l’uscita di un libro come quello di Mario Porro, Letteratura come filosofia naturale (Medusa editrice), dedicato al rapporto tra letteratura e scienza in tre dei maggiori scrittori del Novecento italiano (Calvino, Primo Levi, Gadda), sarebbe stato accolto con grande interesse dalle pagine culturali dei maggiori quotidiani italiani, che oggi celebrano gli scrittori del passato prossimo, i grandi morti, con il tono di “come eravamo” collocandoli nel Pantheon della cultura: mine disinnescate di ogni potenziale trasformativo. Ma anche gli editori di cultura non sono da meno: Letteratura come filosofia naturale anni fa sarebbe stato con ogni probabilità pubblicato da Einaudi o dal Mulino, e non da un piccolo, seppur colto, editore come Medusa.
Questo libro non è solo interessante perché pone un tema centrale della cultura contemporanea, ma anche perché l’autore lo affronta in modo originale: da epistemologo che conosce a fondo gli autori di cui parla e che legge alla luce della filosofia della scienza più aggiornata degli ultimi cinquant’anni. Prima che fossero riuniti in questo volume – evento di cui sono, almeno in parte, responsabile – i saggi di Porro sono circolati in varia forma alimentando la riflessione di altri studiosi, ma pur sempre in un contesto marginale, di nicchia. Il libro di Porro è importante perché non riduce e non semplifica, e ci fa leggere il percorso epistemico di Calvino, dal marxismo iniziale allo strutturalismo e alla filosofia della percezione del signor Palomar; perché ci spiega come il giovane chimico torinese Primo Levi sia stato un etologo del Lager, o ancora come e perché Gadda sia attanagliato dal demone dell’Enciclopedia. Inoltre, lega tutto questo a un orizzonte filosofico e politico che è ancora attualissimo, e di nuovo lo sarà tra qualche tempo, quando “il ritorno al reale” sarà inevitabile dopo gli anni dell’intrattenimento generalizzato e della cultura dello spettacolo. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, Mario Porro ha compiuto con infinita pazienza e grande umiltà un lavoro di ricucitura del rapporto tra scienze umane e scienze esatte, attraverso recensioni, traduzioni, saggi, in gran parte dispersi su quotidiani, atti di convegni, riviste, un lavoro di Sisifo che converge verso un punto ben enucleato nel libro: la letteratura come forza conoscitiva e tentativo inesauribile di mettere ordine al caos del mondo. Gadda, Calvino e Levi, autori del secolo scorso, si trovano già al di là del paradigma storicista e sono portatori di una indispensabile lettura post-umanista del mondo. Lo sguardo naturalistico, la vocazione cosmologica, il nomadismo intellettuale, la mappa dello scibile, l’intersezione dei saperi, sono tutte peculiarità che i tre filosofi naturali, nonché grandi scrittori, possiedono, sebbene in modo differenti, e a volte persino antitetici.
Calvino, certamente meno importante come scrittore rispetto a Gadda, sembra invece possedere più degli altri la chiave per leggere il frantumarsi progressivo dei saperi, la tendenza dissipativa del mondo fisico e mentale che abitiamo. Così Levi, scrittore di vaglio ancora ottocentesco, grazie alle sue insondabili qualità analitiche, e all’esperienza del Lager, ci offre punti altissimi di comprensione delle trasformazioni politiche in corso. Ma è Gadda con la sua prosa gustosa, appassionante, suggestiva, da sciogliere ogni volta come un nodo, lo scrittore che più appassiona il filosofo Porro, il quale lo proietta finalmente dentro un quadro epistemico internazionale, mettendolo a confronto con la filosofia nostro presente, da Serres a Deleuze, da Foucault a Jullien. Viviamo un tempo in cui alcuni solitari, nomadi della cultura, si stanno facendo carico di leggere, studiare, riflettere su quello che è accaduto, e ancora accade. Sono persone a lato del dibattito giornalistico e televisivo, figure isolate, e proprio per queste decisive: hanno il tempo del pensiero a propria disposizione. Mario Porro è uno di loro. Lui, come i suoi sodali, spesso ignoti gli uni agli altri, ci ricordano che il futuro ha un cuore antico.

[pubblicato su La Stampa sabato scorso]

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9 Commenti

  1. “e di nuovo lo sarà tra qualche tempo, quando “il ritorno al reale” sarà inevitabile dopo gli anni dell’intrattenimento generalizzato e della cultura dello spettacolo”

    non sono altrettanto fiduciosa

  2. Ho come l’impressione – ma il saggio sarebbe da léggere – che l’autore abbia forzato dentro tre autori novecenteschi, forse i più eclettici, e quindi anche i più interessatamente interpretabili, una dichiarazione di poetica forzata. Manca, ma forse nel libro c’è, una definizione di “filosofo naturale”, che ha una sua connotazione fortemente storica, manieristico-barocca, e soprattutto premoderna che è difficile obliterare quando di modernità, e di contemporaneità, si tratta. Non so se evocare indirettamente le ombre di Telesio, Porta, Campanella abbia molto senso, parlando di Calvino, P. Levi, Gadda. Non amo, poi, svisceratamente Calvino, ma in che senso Gadda è più “importante”?

  3. in età premoderna il letterato si autopercepiva come “saggio”, cioè sapiente, cioè filosofo. non c’era specializzazione, divisione del lavoro, divisione dei poteri: quando la materia prima era l’uomo, qualunque speculazione su di esso era filosofia. così dice dante di virgilio. “famoso saggio”, così in svariate epistulae parla di sé e dei propri studi petrarca, che, come filosofo, tiene testa a due aristotelici. forse il progresso è ritornare all’antico? non è così facile, né le restaurazioni devono farci stare troppo tranquilli. però è anche vero che la filosofia “pura” ha abdicato parecchio nel costruire un orizzonte di senso: qualcuno dovrà pur occuparsi di dare un nome alle cose, in questa specie di eden 2, la vendetta, prossimo venturo, che nascerà sulle ceneri del nulla di questi anni, i peggiori anni della nostra vita. nemmeno io sono troppo ottimista.
    quanto alla critica: non c’è perché non c’è molto da criticare.

  4. bellissimo questo pezzo di belpolti. mi sento un sodale di porro immagino a lui ignoto come lui era ignoto a me.

  5. Non credo all’esistenza di epoche, società o formazioni economico-sociali “complesse”, magari in relazione a epoche ecc. meno complesse o addirittura semplici, avendo in questo caso il termine “semplice” connotazione di inferiorità, dunque negativo. Semmai vi sono epoche ecc. complicate, ma sostanzialmente semplici anch’esse, almeno per una loro lettura fondata su precisi criteri interpretativi. Ritenere che una società moderna sia passata dalla semplicità premoderna alla complesità attuale a mio avviso significa conferire valore di superiorità al cosiddetto sviluppo storico o progresso, che lineare non è, ma fatto di scarti, fratture e ritorni indietro. Altra cosa è invece la banalizzazione e la semplificazione dei concetti, dei problemi, dei discorsi, che mistificano o riducono il concetto a una superficialità che gli è impropria. Insomma, quando una cosa la si analizza con strumenti adeguati, anche la più complessa, diventa semplice. Questo per dire che la nostra epoca non è complessa nella sua realtà, ma nella sua percezione. E la percezione della realtà ha oramai sostituito, nella coscienza collettiva, la realtà stessa. Quindi, vedo impossibile, a livello di coscienza collettiva, ossia della maggioranza, un presunto “ritorno al reale”, perché per l’ipotetico ritorno al reale, ossia alla coscienza della sua oggettività materiale, occorrerebbe che la maggioranza degli italiani (perché di costoro si tratta) fosse in grado di dissolvere quella sorta di incantesimo che è la percezione della realtà per riappropriarsi della realtà stessa, della “cosa in sé”. E al momento non vedo sulla piazza nessun mago o nessun eroe in grado di distruggere l’incantesimo. Se non l’irruzione di eventi epocali…

  6. Non credo che basti denunciare questa specie di “rimbecillimento generalizzato” di cui siamo vittime e complici e “agenti” nello stesso tempo. Bisogna trovare il coraggio, la pazienza e l’intelligenza per sottrarsi a questa progressiva perdita di profondita’, di memoria e di senso, delle nostre vite. Mi viene voglia di chiedere quanti di noi hanno vietato l’uso della TV nella sala da pranzo, quanti di noi dedicano ai lori figli piu’ di mezz’ora al giorno, quanti di noi dedicano piu’ di 20 minuti al giorno all’amicizia mettendo in secondo piano tutte quelle attività che ahnno come unico scopo la carriera e il profitto. Quanti di noi rinuncerebbero a una quota del proprio reddito e quindi di consumi idioti superflui che vieppiù alimentano il processo di rimbecillimento, in cambio di tempo, di piu’ tempo da dedicare a se stessi e alla propria anima. Siamo tutti dentro, come dice Kundera viviamo in “un mondo dove l’arte scompare perchè scompaiono il bisogno dell’arte, la sensibilità, l’amore dell’arte. Non abbiamo bisogno di “nessun mago” e di nesun “eroe” (Dio ce ne scansi) come dice Robugliani (di cui condivido in parte le cose che ha detto sopra), abbiamo bisogno di IDEE, di un’idea forte, di una chiave capace di sciogliere l’enigma e farci uscire da questa trappola idiota in cui l’occidente si e’ cacciato e che ci porta dritti dritti alla progressivo dissolvimento. A meno che, come diceva un tedesco di cui non ricordo il nome, non sia una catastrofe di dimensioni inusitate a svegliarci da questo rincoglionimento

  7. neanche a me convince il “certamente” con cui belpoliti antepone gadda a calvino… per molti, fra cui me, la cosa non è tanto certa…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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