Lector House
di
Pasquale Vitagliano
Questa casa non ha odore,
non dico il sugo, la frittura,
il calore, che sarebbe kitsch;
dico che non si sentono passi
dietro i tavoli, sulle tovaglie,
sopra i divani, fuori delle stanze.
Non posso dire la differenza, come
gli inglesi, tra casa e casa, perché
camere e cucina non siano solo mattoni,
intonaco e cellofan, ma anche terra,
ventre e fame che si sazia alla fine
della vita sui muri fino ad annerirli
e a farli puzzare delle nostre giornate.
E invece questa casa è una rimessa,
i cartoni, le scatole di cibo senza nome
al posto dei libri sugli scaffali dismessi,
le foto senza alcun luogo, i quadri senza
soggetto, la polvere che ti mangia tutto.
Mi resta il bagno, utile e integro come una cesta.
I commenti a questo post sono chiusi
come dire tutto senza dire la verità di una precisa assenza.
A parte il mio essere affettivamente “di parte” – che brutto gioco di parole! -, qui c’è solo, oggettivamente, poesia.
un abbraccio, natàlia
Affettivamente “di parte” mi sconvolge.
Adoro Furlen per la scelta delle “copertine”. Bravissimo.
PVita
Ciao PVita, mi dispiace che la tua casa sia soltanto una “rimessa”! Però vedrai che se ci meti una pianta fiorita già cambia: diventa più accogliente, più attraente, più festosa e..chissà.
Comunque la poesia è bella anche se, apparentemente giocosa, è, invece,
molto triste.
A presto,
Rosaria
Pvita all’ennesima potenza
Forlani scova e unisce
che bellezza questa poesia
e il senso di questa immagine
c.
Thanx doctor House!
intanto due tre cose su questa poesia. Innanzitutto ( e per lo più) perché mi piace e sono felice di pubblicarla su NI:
Perché è una poesia che rivela dal primo verso la complessità della sua composizione quando definisce da subito l’istante – il tempo- attraverso la sua relazione allo spazio – se io dico qui (hic) è per forza ora (nunc). La cosa accade naturalmente, ogni volta che si determina un’esperienza, ma quel che non appare da subito né ci pare naturale è la sovrapposizione dei piani diciamo sensoriali dell’esperienza, ovvero dell’olfatto – l’assenza di odori nel verso,” questa casa non ha odore”,- con l’udito allertato pochi versi dopo e che a parer mio si riallaccia alle importanti riflessioni del filosofo francese Jean Luc Nancy, e in particolare in una delle sue opere più “sentite,” à l’écoute (Galilée, 2002) tradotto in Italia da Enrica Lisciani Petrini per le edizioni Cortina. Riprendendo le formidabili intuizioni di Merleau Ponty, Nancy esplora ogni “senso ” possibile del sentire a partire dalla parola che evoca quell’esperienza, sentire appunto, che mentre in francese si dipana nelle sue due funzioni gnoseologiche e tattiche dell’esperienza, differenti, en français, in due termini distinti anche se l’uno rinvia all’altro “écouter renvoie à sentir”, in italiano si confondono, al punto che sentire lo si impiega anche per l’ascoltare. La poesia di Pasquale l’amico mio, rivela allora dai primi versi un possibile esito della parola poetica, ovvero quella che indovina un’assenza, attraverso un riposizionamento sia del senso – da intendersi come sentire, che della sensazione, ciò che si è sentito.
Questa casa non ha odore,
…
dico che non si sentono passi
Tale procedere o sovrapporsi richiama alla felice formula di Nancy del « se sentir sentir » cioè individua non solo un soggetto, ma l’azione, il sentire, che lo determina. Scrive infatti Nancy, ” Un soggetto si sente: è la sua proprietà e la sua definizione. Vale a dire che si ode, si vede, si tocca, si gusta…”
Che cosa accade allora quando una tale esperienza viene neutralizzata dall’assenza dell’altro, del “silenzio” dei passi non camminati?
L’unica possibilità dell’esistere è proprio nella sua vocazione al dire, la poesia appunto, quella che dice:
“dico che non si sentono passi”
che non dice:
“non dico il sugo, la frittura”
o non può dire:
“Non posso dire la differenza, come
gli inglesi, tra casa e casa, perché
camere e cucina non siano solo mattoni,
intonaco e cellofan, ma anche terra…
Non poter dire la differenza, ci dice Pasquale, tra House (casa) e Home (casa abitata) come tra, écouter e sentir”, perché ogni cosa detta sia pure sentita.
effeffe
La poesia è sempre più fatta di oggetti ordinari. Interessante il testo. Ma altro che “democrazia della lingua” di Pascoli..gli oggetti invadono tutto “alberi, case e colli per l’inganno consueto”. SIamo riempiti di oggetti e per questo svuotati: le case non sono più fatte di uomini ma di tavoli. Non più di letti ma di “bagni”…le case sembrano vuote. In un modo o nell’altro però gli oggetti svuotati sono anche parole. E chi scrive poesie (conflitto di interessi) può (o ha il dovere di) riempire di sensio quantomeno il nome degli oggetti. Sia anche nella disposizione di queste parole. Mi piacciono i poeti di “cose”.
Il gatto in un appartamento vuoto
di Wislawa Szymborska
Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto
in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.
Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.
Qualcosa qui non comincia
alla sua solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c’era qualcuno, c’era,
e poi d’un tratto è scomparso,
e si ostina a non esserci.
In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Cos’altro si può fare.
Aspettare e dormire.
Che provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né squittii.
(Wislawa Szymborska, La fine e l’inizio, a cura di Pietro Marchesani,
Scheiwiller)
cose dette sentite
che ne sappiamo del curoe di un gatto del suo amore per l’uomo?
questa profonda riflessione di effeffe sulla poesia di Vitagliano mi ha riportato l’ennesima poesia del mio grande amore
grazie ancora
c.
può una poesia piacere e basta? si può aderire ad essa senza null’altro aggiungere, perché il cuore, che conosce, è già sazio? a me questa poesia piace, e non voglio chiedermi perché.
grazie a pasquale vitagliano.
Ammutolisco. E basta.
Per Rosaria: chi ti dice (con affettuosa ironia) che sia proprio casa mia? Anche le parole, le storie, i sentimenti, hanno una “casa”, senza biografismi.
PVita
Intriganti e belle queste “stanze” di una casa inscatolata, messa in una cesta, come di chi si concede un bagno prima di traslocare: quel tepore e’ cio’ che rimane.
Abele
Noto con piacere che qualcosa in questo sito si sta muovendo in direzione della “semplicità” apparente o del non detto che traspare, in negativo, in virtù del propriamente detto (Miles Davis: bisogna suonare la musica che non c’è; o altrimenti, con Thelonius Monk: le pause tra le note – ovvero il silenzio che si crea – è molto più importante del rumore che si fa pestando i tasti… e viceversa).
Questo è riuscire a fare “arte povera” con i materiali quotidiani (chissà perché, italianamente parlando, mi vengono adesso in mente i sacchi bruciati di Burri e le tele esattamente ferite di Fontana).
Dopo quello di Krauspenhaar di qualche giorno fa, questo mi sembra un tentativo abbastanza riuscito in quella direzione.
Avrei gradito qualche riferimento diretto a una qualche relazione umana con il contorno necessario di ironia e autoironia.
Ma tant’è.
Non tutti siamo io.
quel “di parte” Pasquà, puoi leggerlo anche come un “che te lo dico a fare!?”
nel senso che al di là dell’affetto con cui ti leggo, è proprio una gran bella poesia e il Furlen ne ha passo-passo evidenziato le ragioni del “sentire”
bacione, nanna.
Bien entendu, Lucy. Entendre che vuol dire sentire (ascoltare) e capire, e che permane in napoletano, aggie entise, che rinvia all’altro “sentire”, écouter , et oui je t’ écoute, lucy, però écoute-moi, toi aussi.
Chiedersi perché una poesia ci piace non significa affatto farsela piacere per l’analisi che se ne fa, o per un significato recondito che si è trovato. Entrare in risonanza con una poesia e dunque coglierne le ragioni più a fondo non significa affatto neutralizzarla emotivamente, tutt’altro! e infatti si dice che perfino il cuore ha le sue ragioni. Il piccolo commentario che ho qui proposto in realtà parte da una domanda che mi è nata proprio leggendo i commenti alle poesie, più alle poesie che non ai racconti, che ho postato finora. Chissà perché ci si trova quasi sempre a vedere (leggere) argomentate le ragioni del “non mi piace” come se il “mi piace” non avesse argomenti e infatti come tu scrivi, mi piace e basta. Se così fosse dovremmo prevedere per NI lo stesso meccanismo, I like, I unlike che trovi su faceBook, che magari ci allontana dal progetto che vorremmo portare avanti qui, no?
Se come lettore, in definitiva, la penso come te, in tanto che “pubblicante/postante” la risposta alla domanda, perché pubblicare questa poesia di Vitagliano e non altre che mi arrivano e che non pubblico, mi sembrava un atto dovuto a quanti mi hanno scritto e mi scrivono per propormi qualcosa.
In conclusione, direi che non cedere alla tentazione del bueno\no bueno, mi sembra assai importante in questa sede, lasciando chiaramente un tipo di analisi storica/ critica a chi ne ha voglia e soprattutto gli strumenti, e a noi altri la possibilità di ragionare sul cuore. Non ci sono rischi a parer mio nell’andare più in profondità e riprendendo una celebre battuta di Umberto Eco a un seminario a cui partecipai a Napoli negli anni ottanta, alla domanda di un partecipante sul fatto che mettendosi ad analizzare le cose in profondità se ne perdeva il piacere semplice della fruizione, lui rispose: anche i ginecologi si innamorano!
effeffe
ringrazio francesco per aver entendu a sua volta le ragioni del mio non voler ragionare. nessuna intenzione a stoppare eventuali analisi, ma una volta tanto il richiamo ad un’adesione del sentimento: che se non la stimola la poesia, che altro lo può fare? e se una poesia mi parla dentro, all’improvviso, mi seduce e mi fa andar co’ miei pensieri su l’orme del poeta, per cui la sua casa è la mia casa, oppure non è nessuna casa, è magari un non-luogo…allora la poesia ha fatto quello che è la sua essenza: poièin, creare, produrre, dar vita a… senza quella prima istanza di carne non è possibile alcuna analisi. carne di poesia. a volte la mia carne si ribella: allora è meglio tacere, soprattutto perché quell’altra carne che l’ha messa al mondo, la povera poesia, non accetterà i miei sbuffi e rabbuffi. qui, su NI. ogni progetto, allora, muore?
sbuffi e rabbuffi
è bello! mi piace
effeffe
Ciao Pasquale. In realtà questa tua poesia è lo specchio fedele di molti vuoti contemporanei. L’assenza del bello che traspare, la solitudine, il distacco(se non il disprezzo) dalle cose, utili e non, sono giochi per ribadire con forza che siamo tutti possibili attori in uno scenario come questo. C’è molta umanità nel disordine e nelle stanze punteggiate di cartoni, c’è quel disagio esistenziale che batte in corsa i nostri tempi senza riuscire effettivamente a superarli. Gli odori invece sono qualcosa di immateriale ma che nel nostro cervello rimangono impressi come un marchio di fuoco e quando non se ne sentono si è come tagliati fuori da una gran fetta di mondo,di vita. In fin fine è spietata questa poesia, ti privi di tutto, ma proprio di tutto se non del conforto del bagno, unica oasi in cui ripararsi,proteggersi, avere la conferma dell’essere effettivamente vivo. Il realismo di cui sono pregni i tuoi versi lasciano molto da pensare, non tanto sul reale, ma sull’immaterico e sul malessere dell’uomo moderno. Un abbraccio
Federica Nightingale
Mi piace molto.
E’ la tua casa nella poesia? E’ la casa che descrivi tu nel testo…
A presto,
Rosaria
quoto la cesta Pasquale: per Mosè sulle acque e i panni sporchi, insomma una chiusa *propiziatoria* alla palingenesi e al..trasloco–);
Linguaglossa ha scritto (con ragione) che a volte la mia poesia è troppo icastica. E’ questione di equilibrio (in musica si dice armonia?). E il punto di equilibrio lo coglie perfettamente l’illuminato Furlen nell’assenza. In fondo, ciò che lega il vuoto dell’assenza all’oggetto indistinto è la parola, la parola poetica, La poesia (ri)dà il nome alla cosa. Come in un nuova genesi umanissima e senza eden; come in un day after dei sentimenti e degli oggetti, dentro un villaggio globale ammutolito o divenuto afasico per implosione autistica. Eppure oltre le parole e le analisi, resta il metro di giudizio che vale per la musica, la com-mozione. Se vi siete com-mossi (senza inutili neo-romanticismi) la poesia è riuscita. Modernissima è questa piccola verità: pasolinianamente, è una forza del passato.
Comunque, grazie a tutti. Troppo buoni.
PVita
seppelliti dall’ home philosophie barbiesco.
è la procedura del vuotare ossia riempire di vuoto
solo vivendo. ma c’è una volontà in questo scolorire
una consapevolezza che il mondo che viviamo non è
altro che un’ inversione collettiva di Desiderio?
una poesia non poesia questa – piaciuta – che porta non
solo a a controllare se l’ album di famiglia sta svanendo
e se non lo è a dargli una spintarella per accellerare
lo svanimento ma offre contemporaneamente e
in maniere amabilmente contraddittoria (così ci si nutre)
langudamente sadici appigli taglienti da cui con mani
tagliuzzate gridare anche se non è vero: Terra!Terra!
un saluto
paola
:-) bellilla