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La giovinezza non è mai servita a nessuno

riccicopertina Credo di un bestsellerista
[estratto da Come scrivere un bestseller in 57 giorni, Editori Laterza, collana Contromano, pagg. 112]

di Luca Ricci

Non ho nessuna colpa da redimere. Nessun delitto cui far seguire un castigo. Non so a che punto esattamente le nostre strade si siano divise. Si potrebbe dire, volendo usare un po’ di dolcezza, che tu hai continuato a bere e io mi sono distratto. La tua sete era pressoché inesauribile. Non riuscivi a colmare con l’alcol il tuo senso d’inadeguatezza.
Eppure Albert Camus aveva scoperto che, dal momento che ci apparteneva, quel senso d’inadeguatezza poteva essere fonte di vitalità e non solo d’angoscia. Dopo aver scritto per centoquarantanove pagine un libro nichilista, Lo straniero si concludeva alla centocinquantesima pagina con questa capitale affermazione: «Mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo». Da quando in qua l’indifferenza poteva essere dolce? Da dopo Albert Camus.
Ma i libri non andavano capiti, vero? Bastava impararli a memoria, erano semplicemente dei salmi da recitare. Erano la bibbia di noialtri, cani sciolti e senza Dio. E ti ostinavi a bere. Più bevevi più eri incontentabile e più eri incontentabile più ti veniva da bere. L’incontentabilità era il tuo manifesto programmatico. Forse perché la saison en enfer che avresti voluto vivere non era alla tua portata. Preciso: non era alla portata di nessuno. Ci era toccato in sorte un secolo infernale di per sé.
Di che epoca si trattava? Gli anni del cosiddetto riflusso ideologico ci alitavano sul collo. C’erano i videoregistratori con le cassette Vhs, e i tostapane ci sembravano ancora invenzioni all’avanguardia della tecnologia. Avremmo dovuto scansarle come la peste, invece cercavamo torri d’avorio (e spesso non disdegnavamo qualche pinnacolo di seconda mano). Parigi non ci aiutava. Per anni facemmo più o meno i turisti nella nostra città. Vedemmo una mostra di Francis Bacon al Centre Pompidou, e ti scattai una fotografia davanti alla porta di casa di Emil M. Cioran, in rue de l’Odéon, a due passi da qui. Eravamo scrittori che invece di scrivere collezionavano souvenir.
Ti ricordi quando ci ubriacammo lungo la Senna? Raggiungemmo il Pont-Neuf, il dicastero degli innamorati. Tu sei stato sempre più bello di me. E quella sera lo eri ancora di più. Avevi un ciuffo di capelli che ti andava sulla faccia e che ti soffiavi via di continuo. Eri magro, quasi femmineo. Indossavi un giubbotto di pelle logoro e un paio di jeans stretti (per noi contava l’immaginario degli anni Settanta, il look degli Ottanta era appannaggio degli yuppie). Ti misi le mani sul sedere, vidi il tuo volto avvicinarsi. Eravamo giovani, e non sapevamo che la giovinezza non è mai servita a nessuno. Mi baciasti. Mentre lo facevi riflettevo che baciare un uomo era come baciare una donna. Portava la stessa carica sessuale. Mi stavo già giustificando. Che diavolo ti è saltato in mente?

Passavamo il tempo a infangare i lettori. Ti ricordi le bestialità che dicevamo? Quasi tutti leggevano per addormentarsi. I libri non erano centri nevralgici di esperienze conoscitive, ma ninne nanne. O, tutt’al più, la maggior parte leggeva perché era un segno di rispettabilità. Sembrava che leggessero. Si lasciavano trasportare dalla storia e avevano una cultura per sentito dire. Leggevano meccanicamente e acriticamente, e tutto quello che riuscivano a cavare dai libri era acritico e meccanico. Ma chi gli garantiva, senza la conferma di loro stessi, che quei libri fossero buoni o cattivi? Leggevano i primi dieci libri in classifica, indistintamente, qualunque cosa fossero, perché c’era da scommettere che molti altri li avessero letti visto che erano i dieci libri più venduti. Un bel libro era quello di cui si poteva parlare a una cena…
Non eravamo che apprendisti, eppure mettevamo già le mani avanti, assolvevamo i nostri presunti flop editoriali. Nella nostra visione manichea un’opera esisteva a prescindere dal pubblico (fuori catalogo, a prescindere!), mentre è vero esattamente il contrario: un libro esiste soltanto se il pubblico lo legge. Uno scrittore è felice di farsi leggere, non ne prova di certo vergogna, e sa che il destinatario è più importante del mittente.
Poi ci fu quella brutta storia del furto. In quel frangente capii fino a che punto eravamo diventati paranoici. Mi portasti un foglietto stropicciato con su scritto i Principi fondativi del racconto nel XXI secolo. Per lo più si trattava di qualche aforisma di cui, francamente, non rammento granché. A fine serata – eravamo al tavolo di sempre –, quel foglietto sparì, non si trovava più. Cominciasti a cercarlo febbrilmente, farfugliasti che non ne avevi fatto una copia, e allora mi misi ad aiutarti. Poi, all’improvviso, i tuoi movimenti rallentarono. Mi guardasti con disprezzo e formulasti la tua accusa. Arrivasti a pensare che me l’ero intascato io. Avevo rubato qualcosa che non esisteva, l’articolazione teorica del niente. Mi fecero così male quelle tre parole: sei-stato-tu. Non avevi finito di pronunciarle che il mio schiaffo era già partito. Non ci avevo riflettuto. Partì in automatico, dovevo colpirti per tentare di restituire, almeno in parte, il male che stavo provando. E poi ti colpii come un adulto che punisce un ragazzino. Evidentemente stavo crescendo.

Al caffè letterario era sempre tutto uguale a se stesso. Io non potevo più accalorarmi e partecipare come un tempo. Ormai ero un idiota letterario a mezzo servizio. Vivevo in uno stadio ibrido, in una fase transitoria di cui era impossibile non lamentarsi. Avevo accantonato la vecchia scrittura, il vecchio modo di procedere, ma non sapevo minimamente dove sarei andato a parare. Brancolavo nel buio, né più né meno. Sentivo che ero arrivato a un punto cruciale per ritrovarmi o sperdermi definitivamente. Smisi di frequentarti. Fui un po’ brusco, è vero. Ma non si può inaugurare una vita nuova senza lasciare dei cadaveri sul campo. Tu sei stato il prezzo che ho dovuto pagare per concludere il mio periodo di follia autoreferenziale. Il mio morto sul campo. Del resto avresti potuto intuire come sarebbe andata: non si può giocare a Rimbaud e Verlaine con la testa altrove.
D’improvviso, autori come Tristan Tzara o René Crevel diventarono figurine di un album che non volevo più completare. Si svuotarono di senso. L’idea di crogiolarmi nel dolore – l’impotenza creativa nella quale, per vezzo del paradosso, ci esaltavamo –, smise di esercitare il suo fascino perverso su di me. In qualche modo – anche se ancora non riuscivo a mettere in fila due parole, organizzare un discorso, spiegare un concetto, imbroccare un’immagine –, avvertii la meta di una scrittura professionale più vicina, più a portata di mano.
Credimi, non furono tutte rose e fiori. La tentazione di ricominciare a scrivere partendo dal mio ombelico a volte era fortissima. Resistetti, non ci cascai. Chiusi il rubinetto metafisico, estirpai ogni prurito sperimentale. Presi coraggio, buttai tutto nel cestino, mi liberai del passato e approdai all’età adulta. Questo mi emozionò a tal punto che per qualche settimana non sarei stato capace nemmeno di apporre la mia firma su un bollettino postale. Buttai persino un tema che avevo scritto alle elementari. Avevo scritto così: «le nuvole sono spezzatino bianco». Ricordo che la maestra mi lodò davanti al resto della classe e alla riunione dei genitori citò il passo come esempio della smodata creatività dei bambini. Come mai avevo voluto insistere su quel registro? Come mai l’innocenza nel mio caso si era protratta così a lungo?
Poi un giorno successe. Sarei tentato di dire che successe per caso, non sapessi quanta fatica mi era costato guadagnarmi la mia nuova attitudine. Ero buffo. La scrittura al computer rendeva spartani i movimenti. L’eccessiva velocità si tramutava in lentezza apparente. Sembravo un figurante del teatro No¯. O uno che indossava una camicia di forza invisibile. Andava alla grande. E anche quando non andava alla grande, nei momenti in cui la testa s’annebbiava e arrivavo alla fine del periodo con il fiatone, mi costringevo alla scrivania. E soprattutto non mi toccavo. Prima, quando ero un velleitario della narrazione e la mia scontentezza cronica dava l’esatta dimensione del mio abbaglio, bastava un niente per farmi desistere. Allora mi masturbavo freneticamente, eiaculavo bile
Se ti dicessi che non mi sei mancato sarei un bugiardo. Ma ormai avevo segnato un confine, per quanto labile potesse apparire. In ogni questione letteraria rilevante, io stavo da una parte, e tu dall’altra. Bisognava fare il verso alla vita, e tu non volevi. Bisognava accettare con umiltà il ruolo di burattinai – altro che profeti, cantori o sciamani –, e tu non volevi. Bisognava abbandonare la perversione di scrivere contro la scrittura, per il semplice motivo che mettersi a scrivere era di per sé un gesto rivoluzionario, contro natura, e tu non volevi. Sei tu che hai abbandonato me, in un certo senso. Una sera mi sono alzato dal tavolo, e non ti sei neppure accorto che me ne stavo andando per sempre.

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14 Commenti

  1. trovo il protagonista assolutamente detestabile ma credo sia l’intento dell’autore. mi fa pensare che quando scrive questo:

    “Nella nostra visione manichea un’opera esisteva a prescindere dal pubblico (fuori catalogo, a prescindere!), mentre è vero esattamente il contrario: un libro esiste soltanto se il pubblico lo legge. Uno scrittore è felice di farsi leggere, non ne prova di certo vergogna, e sa che il destinatario è più importante del mittente.”

    Stia pensando esattamente il contrario. mi ha incuriosito.

  2. Il punto di vista di chi parla, definito forse un pò fumosamente bestselletista, è esattamente quello di Perissinotto (scrivo per essere capito), appena qualche post sotto. E’ incredibile quanto le posizioni dei due- uno scrittore reale e un personaggio letterario- siano vicine. Mi verrebbe da dire che il secondo è un “ritratto” del primo.

  3. Ho provato a seguire ma i commenti erano più lungi dell’intervento che già dal titolo mi aveva annoiato. ;)

  4. a me questo pezzo è piaciuto e mi incuriosisce sul possibile resto del libro.
    non credo vengano dette cose in senso antifrastico: anzi, mi va di pensare che la scoperta dell’america, o dell’acqua calda, che un libro esiste se viene letto, costituisca un atto di umiltà da parte di uno scrittore. se no non si spiegherebbe il sussiego di tanti scrittori che ci tengono a precisare che se uno scrive e non pubblica scrittore non è. oppure a volte è vero e altre no?
    chiedo.

  5. e perché, virgilio no? ma se tu dicessi, essendo un immenso, a n’amico, brucia tutto, l’amico ti prenderebbe in parola? lo sai pure te che l’amico, morto che sei, se precipita a pubblica’, e nnamio! e poi i cassetti non sono più i cassetti di una volta: sanno leggere e scrivere, almeno il mio è un cassetto alfabetizzato: e io scrivo pe llui.
    :D

  6. no, l’amico è bastardo infatti, e anche il figlio, visto l’ultimo episodio che riguarda nabokov. invece i cassetti sono simpatici, tengono tutto per loro. a voler fare una provocazione, e richiamando il vecchio zappa che diceva che arte è tutto ciò che non si vende, alla fine uno è più scrittore se non pubblica che il contrario. però mica c’avemo voja de provocà. ;)

  7. ecco. che appena entri nel giro sennò te chiedeno er patentino. ma quante copie venni? e chi te pubblica? a chi lecchi er culo? co chi sei fidanzato? se fa prima così, damme retta. poi de uno come zappa c’è fidasse.

  8. ansui’: ma che er coso bisogna propio propio leccallo? a me già de esse contro natura perché scrivo, come se dice ner poste, me fa npo’ mpressione, nun zo…

  9. Forse trovare un equilibrio tra i due estremi (senza per questo diventare un equilibrista di mestiere…); cioè, in questo caso specifico, va bene essere complessi (ma non complicati), oppure semplici (ma non semplicistici).

    La cosa davvero problematica è il mercato editoriale. Ci vorrebbe una storia del mercato editoriale.

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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