Un cartello sulla galassia
di Antonio Sparzani
Ho parlato giovedì scorso al Festival della Scienza di Genova, insieme al mio amico Gaspare, di questo tema. Abbiamo combinato una specie di dialogo tra noi. Nel pubblico c’era una folta rappresentanza di studenti liceali, di una scuola di Imperia, giovani con gli occhioni spalancati, pronti a trangugiare qualsiasi cosa venisse loro propinata da quei due prof cravattati, seduti dietro una cattedra della prestigiosa sala del minor consiglio del palazzo ducale. Non mi sono bene informato su cosa fosse esattamente quella sala, che ruolo ricoprisse ai tempi della gloriosa repubblica marinara, e cosa fosse questo “minor consiglio”, però è bella assai.
Tanti studenti, tanta responsabilità, visto che qualcosa rimarrà pure nelle loro teste, di quel che s’è detto. Tanti nomi abbiamo fatto, Galileo, Leopardi (Gaspare è un illustre leopardista), Einstein, Calvino i principali, e vari altri assortiti. Di Calvino soprattutto le Cosmicomiche, che talvolta hanno proprio dei punti alti, cui non resisto. All’inizio di ogni cosmicomica Calvino scrive sei o sette righe in corsivo per “inquadrare scientificamente” l’argomento intorno a cui gira il racconto. Sentite questa:
Gli anni-luce.
Quanto una galassia è più distante, tanto più velocemente s’allontana da noi. Una galassia che si trovasse a 10 miliardi d’anni-luce da noi avrebbe una velocità di fuga pari a quella della luce, 300 mila chilometri al secondo. Già le «quasi-stelle» (quasars) scoperte di recente sarebbero vicine a questa soglia
[e così comincia il racconto]
Una notte osservavo come al solito il cielo col mio telescopio. Notai che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce sporgeva un cartello. C’era scritto: TI HO VISTO. . . . . . .
Un cartello, capite, un cartello, dalla galassia lontana sporge un cartello: uno scatto di scrittura, uno scarto di piani, una trappola fantastica, dopo tanta dotta premessa sugli anni luce, la velocità delle galassie, i quasars, salta fuori l’affabulatore, un cartello.
Fate fare anche a me qualche fantasia, tanto per dare la misura dello scarto, non certo per aggiungere alcunché al racconto di Calvino.
Se volete vedere e leggere chiaramente un cartello distante 100 metri, il cartello dovrà almeno misurare – diciamo – un metro per un metro. E alla distanza di 100 milioni di anni luce? Ovviamente un milione di anni luce per un milione di anni luce. Facciamoci un’idea di quanto è un milione di anni luce, cioè, ben lo sapete, la distanza che la luce percorre in un milione di anni (solari, nostri). L’intera nostra Via Lattea, la galassia cui appartiene il nostro Sole, ha un diametro di circa centomila anni luce. Nel nostro cartello quadrato, di galassie come la nostra ce ne stanno quindi dieci per lato e dunque in totale dieci per dieci, cento galassie. Un bel cartello visibile, illuminato da miliardi di soli. Uno spettacolo straordinario nelle notti stellate del nostro insignificante e marginale pianeta, e sono queste cento galassie che disegnano l’inquietante scritta TI HO VISTO.
Così si muove Calvino, nei suoi pezzi più felici. È questa la natura dello scarto, un’uscita sghemba dall’ambito della teoria scientifica, che approda su un terreno che del fatto scientifico conserva tante belle caratteristiche, ma che si è improvvisamente spostato su un altro piano di realtà: l’attenzione viene ora rivolta al come si risponde al “Ti ho visto”, alle sue implicazioni e alla sottile dialettica che se ne sviluppa.
Finito il nostro dialogo comincia qualche domanda, gli studenti in maggioranza sciamano via, hanno fatto il loro dovere per il quale erano stati cammellati – o dovrei dire felicemente trasportati per una gita al famoso festival nel famoso capoluogo – dalla lontana Imperia, rimane qualcuno di evidentemente interessato, e qualche adulto. Uno chiede qualcosa sulle sorti future della letteratura, io e Gaspare ci guardiamo con un vacuo sorriso, implicante che non siamo certo i più indicati a rispondere, un filosofo leopardista e un fisico cui piace tanto leggere. E allora parliamo della crescente difficoltà del dialogo tra letteratura e scienza, come fa la letteratura dei nostri giorni a interagire con la scienza dei nostri giorni. Difficile far entrare la meccanica quantistica in un romanzo, che non sia di fantascienza, beninteso. Concludiamo con una citazione da uno scritto autobiografico di Einstein, che così si va sul sicuro.
Perdonami Newton; tu trovasti proprio l’unica via che alla tua epoca era possibile per un uomo dotato della più alta forma di pensiero e di creatività. I concetti che tu creasti guidano ancor oggi il nostro pensare nella fisica, anche se oggi sappiamo che, se vogliamo tendere ad una comprensione più profonda delle interconnessioni, essi devono essere sostituiti da altri ben più lontani dalla sfera dell’esperienza immediata. 1
Così inizia la modernità nella scienza, i concetti creati dalla fisica classica devono essere sostituiti da altri ben più lontani dalla sfera dell’esperienza immediata. È tutto qui l’inizio degli sconvolgimenti che percorrono la fisica nei primi trent’anni del Novecento. La circostanza singolare è poi che lo stesso Einstein, che da giovane, e con l’apporto essenziale di Mileva Marić, era stato disponibile ad attuare pienamente il programma contenuto in questa citazione, quando si trattò di una rivoluzione forse ancora più profonda, quella che condusse alla meccanica quantistica, recalcitrò ostinatamente e mai si lasciò sedurre dalle nuove tentazioni provenienti da Copenhagen e da Göttingen.
Sorprendentemente, allo stesso tema della perdita di intuitività nella fisica contemporanea, accenna Jung, che già citavo qui:
Dopo un lungo vagabondare, il sognatore trova sulla strada un fiore azzurro.
Il vagabondare è un vagare per strade senza meta, e per questa ragione è anche una ricerca e una trasformazione: ed ecco che lungo la strada, involontariamente, il sognatore s’imbatte in un fiore azzurro, accidentale figlio della natura, ricordo amabile di un’epoca lirica e romantica, nato in una stagione in cui la visione scientifica del mondo non si era ancora dolorosamente scissa dal mondo dell’esperienza reale, o meglio, quando questa scissione era appena agli inizi e lo sguardo era rivolto all’indietro, a quello che già si presentava come passato.
- A. Einstein, Autobiographical notes, P. A. Schilpp ed., Open Court Publ., Chicago 1979, pp. 30-31.↩
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che newton ci perdoni e il sole è un lampo giallo …
che tutti perdoniate la mia naivété ma io leggo e mi incanto.
Sparz ha il dono di fare della scienza un mondo da sognare, di infinità bellezza. Grazie.
Lucia, ho la stessa naïveté.
vv
Anche io ho sofferto della perdita di intuitività della fisica moderna. Al biennio di ingegneria studiavo la meccanica newtonia e mi sembrava non ci potesse essere nulla di più sublime, era il trionfo del rigore sulla sensazione. Poi, man mano che andavo avanti – ma il primo colpo a quel trionfo me l’ero già beccato dalla Chimica Organica, con quel maledetto benzene di Kekulè, che è uno e bino e non è mai o solo l’uno o solo l’altro – approdai a un esamuccio complementare, studiando il quale, male e in fretta, appresi di funzioni d’onda. Presi un 28, ingoiando la roba senza assaporare :che differenza, che mancanza di educazione rispetto alla Chimica Fisica, all’Idraulica alla Meccanica delle mMcchine e ai Principi dell’Ingegneria Chimica. Ma per piacere.
Poi ho capito, è accaduto all’improvviso tanti anni dopo, e non è stato affare di intelletto ma una serena accettazione, seguente il crollo di una resìstenza secondo cui non si poteva essere energia e materia nello stesso tempo insieme. Per la contraddizion che nol consentiva.