L’infanzia assoluta – Su “Cristi polverizzati” di Luigi Di Ruscio
di Andrea Cavalletti
Almeno una volta egli ha descritto la svolta felice: “Lo stato normale è quello angoscioso e tutto a un tratto la gioia tutta intera mi salta addosso e faccio un mucchio di stupidate… Non le faticate carte, ma le allegre carte… iscritte per la sola gioia di comunicarvi tutto senza le reticenze del perbenismo e dell’oggettività, una scrittura viva, palpitante al contrario delle scritture spente e senza orgasmi” Cristi polverizzati è insieme la storia picaresca e il ritmo vivo di questa trasformazione. Si sviluppa nel tempo insieme presente e remoto del realismo fantastico. In quel tempo “La mia infanzia divenne sempre più totalmente infanzia. Le strade potevamo percorrerle tutte, non vi erano più proibizioni, più la guerra andava male e più io e Mazza ci sentivamo completamente liberi. Costruivamo i carrozzi, li mettevamo in ordine di partenza sulla strada principale del paese, un bell’asfalto liscio, la strada era diventata la nostra. Quando arrivava alla curva, il carrozzo poteva anche capovolgersi, le cosce erano come raspate dall’asfalto… Sapevamo tutte le erbe e i fiori che potevamo mangiare, il paese in quegli anni era tutto un fiorire e crescere di erbe…” Questa è l’infanzia assoluta, perfetta e rivissuta, che segue e non precede un tempo in cui le cose parevano invece un po’ più complicate: “Infatti ero stato scoperto, ormai tutti sapevano che iscrivevo le poesie, il mistero era diventato pubblico, sta sempre nella biblioteca comunale a leggere libri che nessuno legge, spedisce plichi da tutte le parti. Non facevano che domandarmi: Poeta ora ti provo, dimmi è nata prima la gallina o l’uovo? … Come ti permetti d’iscrivere le poesie nostre?… mi rallegravo e mi dicevo che non potevo assolutamente essere scemo, fregavo tutti a scopone, a tressette e anche a dama… e ripetevo continuamente i versi famosi di Solmi: fuggi / la vita è un sogno e i sogni sono sogni / nebbia le spesse muraglie, le sbarre…” La fuga ribelle dei bambini, dei gatti o degli anarchici, che sono qui simili e compagni, è poi lanciata in un precipizio grammaticale che lascerà senza fiato il redattore. E Di Ruscio lo sbeffeggia: “Se a qualcuno dispiace la mancanza di punteggiatura sui miei versi ebbene ce la mette tutta lui, con le poesie non ho mai guadagnato una lira e pretendere da me anche la punteggiatura è il colmo”. La notizia, insomma, è questa: una virgola non è qualcosa qu’on aime pour elle même: se la grammatica ne convalida l’uso, questo suo valore d’uso non è che il “sostrato materiale del valore di scambio”. C’è un’economia politica della lingua, e c’è una forza critica della lingua, “unica arma rimasta alle classi subalterne”. Ora, l’italiano “si presta a tutte le menzogne … è una cosa che può essere migliorata solo peggiorandola”; occorre quindi forgiare armi nuove, e tenerle, pronte, con sé: “Ho le tasche piene di poesie e se trovo uno adatto gliele leggo di colpo…” Cristi polverizzati attua l’agguato definitivo, organizzato non in capitoli ma in tanti piccoli blocchi, unità a volte scosse internamente da sbalzi anche vertiginosi eppure conchiuse, come da sentenze o proverbi appena inventati; è un libro fatto di aggiunte, dove anche la minuzia si perde in lontane visioni finché trama e scrittura, materia narrata e voce narrante risultano del tutto confuse: “Il romanzo inizia con un sottoscritto intrappolato in Piazza del Popolo di un paese di trentamila anime nel decennio subito dopo l’ultima guerra mondiale. A fatica il sottoscritto riesce a disintrappolarsi e prende il Lecce-Milano dove incontra Moscatritata, un rivenditore ambulante a domicilio di crocifissi più o meno polverizzati che brama il ritorno del regno borbonico. Il sottoscritto invece pretenderebbe una nuova repubblica romana che sfratti ancora una volta tutto il papato. Insomma i due personaggi di codesto romanzo fanno sogni non omologati e durante l’inseguimento dei personaggi da parte dell’autore si intromettono tutta una serie di considerazioni letterarie e oniriche e perfino teologiche, affabulazioni di tutti i tipi che disorienteranno tutti i fili delle future letture. La macchina da scrivere viene trasportata continuamente dalla camera da letto alla cucina per evitare che il sole strapiombi sulla tastiera…”Dunque chi fugge e chi segue? Di Ruscio riesce nell’una e nell’altra cosa, sorprende senza artifici, sogna o meglio osserva baratri reali – gli orrori del mondo; si leva a volte con una facilità davvero liciniana, e infine in poche, lucidissime battute, congeda la sua storia.
(pubblicato su Alias, 10 ottobre 2009)
Grazie.
La voce di Di Ruscio, alta, la ricordo ogni volta che entra nella nebbia
un barcone dalla Norvegia. Le trombe segnalano, dove dal mare si entra nel canale e tutto si stringe. Certe sere le trombe che attraccano ai moli si sentono anche dentro le case. La Norvegia, mi dico, e penso a Di Ruscio.
una recensione molto bella per il libro di un autore peculiare e bravissimo, V.