Autismi 13 – Le mie passeggiate (1a parte)

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di Giacomo Sartori

Spesso la sera esco a passeggiare. Questa notte andrò in su o in giù?, mi domando mentre mi preparo. Mi piace non sapere in che direzione mi avvierò: sono una persona che ama sopra ogni cosa la propria libertà. Non sopporterei per esempio di dover andare sempre in giù, o anche solo sempre in su. Languirei sotto una dittatura, dove ti impongono loro la direzione da prendere, o anche solo in una di quelle cittadine di provincia infestate di occhi surrettiziamente dirigisti. In su c’è il parco, in giù c’è il canale, mi dico, soppesando i pro e i contro delle due opzioni, e provando la tenue vertigine di ignorare dove finirò per cacciarmi.

Quando però esco dal portone del nostro caseggiato le mie gambe prendono sempre la direzione del giù. Io per molti versi sono attratto più dal su che dal giù, ma loro si avviano senza stare lì tanto a tergiversare verso il canale. Non mi resta che assecondarle, dicendomi che se ne avrò abbastanza del canale potrò pur sempre fare dietrofront, e avviarmi alla volta del parco. L’importante è restare libero di fare quello che mi pare e piace, mi dico, accorgendomi che in fondo sono io stesso contento di convergere come sempre verso il canale.

Gli occhialetti saccenti che secondo l’oculista sarebbero i più adatti alla mia miopia mi danno il mal di mare, e quindi li lascio a casa, ma anche con i miei vetusti affezionati fanali mentre scendo la nostra via vedo pur sempre un sacco di cose. Vedo il marciapiede bigio davanti a me, vedo i lampioni che saturano di esausta luce metropolitana la strada vuota, vedo i palazzi con quasi tutte le finestre addormentate. Mi piace che non ci sia in giro nessuno, a parte qualche catalettico accompagnatore di cane. Mi solleva non dovermi sentire appiccicati gli sguardi di tutto quel brulichio di individui che si affannano di giorno, non sentirmi costretto a guardarli a mia volta.

Appena la fissi la gente della pretenziosa città fa finta di non averti nemmeno avvistato, ma in realtà ti ha scannerizzato dai capelli alla punta delle scarpe. Anzi, è proprio perché sono persuasi di averti penetrato fino al midollo, di sapere ormai tutto di te, che simulano che tu sia trasparente. Guardano con sufficienza dall’altra, come quando appunto si è sazi di qualcosa.

La sera tardi invece i passanti sono ormai una specie in via di estinzione. Contemplano per lo più le esitazioni peristaltiche degli ani dei loro inseparabili amici. È molto confortante che siano tutti presi dalla loro ipnotica relazione anale, che abbiano già tutto quello di cui hanno bisogno. Di giorno gli individui non fanno che elemosinare interessamento e considerazione, lo trovo sfiancante. Mi sembra che anche l’aria sia più pulita, e più catartica, la notte, per il fatto che ci siano in giro solo delle anime sature di coprofilico amore.

Mentre scendo la nostra via penso alle costose merci che dormono dietro le serrande dei negozi, naturalmente con una voyeuristica e quindi contraddittoria apprensione che irrompa un abile ladro, contemplo le fluorescenze verdognole o violette del cielo metropolitano, fisso le cartine sul marciapiedi. Le cartine disseminate sull’asfalto raccontano tutto quello che è successo durante il giorno: varrebbe la pena di studiarle con la meritata applicazione, invece di snobbarle o addirittura denigrarle, mi dico. Se ne scoprirebbero proprio delle belle, mi dico, sperimentando il brivido lungo la schiena che devono provare gli storici quando snidano un archivio intonso. Ma i miei piedi impazienti mi trascinano veloci giù per la discesa, non ho tempo per le ricerche etnografiche. Decifro allora le scritte tronfie di orgoglio vetero-industriale dei tombini di ghisa, contemplo i mobili abbandonati sul marciapiedi, veri e propri relitti di intimità domestiche alla deriva. Gli arredi che accompagnano i nostri amori non possono durare sempre, come non duriamo sempre noi, filosofeggio.

Nel mio sguardo sfilano le automobili parcheggiate. Si stringono l’una all’altra fin quasi a toccarsi, come per farsi coraggio, per tenersi calde una con l’altra. Si vede che ogni centimetro è prezioso, e che sono ben contente di aver trovato un buco dove cacciarsi. Alcune però sono un po’ monelle, e si sono stravaccate dove proprio non si potrebbe. Io le guardo, e mi ispirano tutte una languorosa commozione. Di giorno i loro egoisti padroni le usano per farsi scorazzare a piacimento e per pavoneggiarsi, e poi la notte le abbandonano nell’umidiccio affranto della notte, e per non avere pensieri di sorta si tirano le lenzuola sulla testa.

Spesso tra le tante ne riconosco una che era lì anche il giorno prima. Toh, guarda chi si vede!, mi dico, con quell’irriflesso sussulto della testa di quando ci si imbatte in una vecchia conoscenza. Checché se ne dica fa sempre piacere incappare in una faccia nota: ci si sente meno naufragati, meno inessenziali.

Arrivato nella piazzetta dove abitavamo prima avvisto da lontano il solito manipolo di teppisti. I cosiddetti onesti cittadini dormono, loro invece se ne stanno lì a fare i loro loschi commerci, a complottare chissà quali infrangimenti della legge. Qualche sera sono assembrati in circoli serrati, qualche altra sgranati come denti di un coccodrillo contro il muro di un attonito palazzo, ma sempre con i cappucci sollevati sui crani rasati, con le loro voci scabre e violente, gli sguardi laterali da teppisti. Ogni tanto sciolgono dei richiami che rimbombano ancestralmente nella notte opalina, di punto in bianco intrecciano risa provocatrici e disperate. Sono lì anche in pieno rigore invernale, anche quando nevischia: sono condannati a stare lì a fare i teppisti. Mentre li dribblo ostentando indifferenza mi immagino che sguainino un aguzzo coltello e mi fendano la gola: provo un brivido lungo la schiena. Ma finora non è mai successo, e probabilmente non succederà mai. Il brivido però si innesca pur sempre, perché l’immaginazione fa presto a infiammarsi.

Non so perché scendendo la via percorro sempre il marciapiede di sinistra. Sempre e solo quello di sinistra. Spesso naturalmente mi dico che farei bene a passare a quello di destra: sporgendo il collo cerco di immaginarmi la visuale radicalmente diversa che avrei. Quando sono più in forma, più in vena di dare finalmente la sterzata alla mia esistenza che tutti auspichiamo da anni, decido di lanciarmi. Questa sera vado dall’altra, mi dico, sentendo lievitare dentro di me la prurigine dell’azione. Il mio battito cardiaco si lancia al galoppo, il respiro comincia a mancarmi. La mia volontà di attraversare mi appare ormai come un’invincibile despota al quale non mi resta che arrendermi. Adesso vado!, mi dico, affondando il collo nelle spalle.

Poi però rimango sul solito marciapiede, quello di sinistra. Come dire, a conti fatti preferisco restare sul sicuro. Sono anzi molto sollevato, al pensiero di non essermi buttato in un’impresa votata verosimilmente a una fine tragica, come per esempio la volta che avevo deciso di passare le cosiddette vacanze estive in compagnia. Mi godo insomma la sicurezza che rimanendo lì sul marciapiede di sinistra non avrò né sorprese né delusioni.

Passando davanti al locale d’angolo rifletto al destino. Certi pensieri sono più puntuali delle campane di mezzogiorno. Aprono una pizzeria al taglio, mi dico, e la pizzeria al taglio fallisce. Aprono un’agenzia di viaggi, e l’agenzia di viaggi va in malora. Inaugurano un negozio di vestiti, e chiude inspiegabilmente anche quello. Nessun negozio del circondario è mai fallito, mentre quello all’angolo seguita inesorabilmente a fallire. Sono riflessioni che mi si riformulano ogni sera più o meno nello stesso modo, e a dir la verità ne farei volentieri a meno. Non mi va di rivangare dei fallimenti, esistenziali o commerciali che siano. Poi però mi lascio alle spalle il locale d’angolo, e il mio cervello trotterella altrove. La mente è un po’ come le puttane, va dove la portano i clienti, vale a dire gli occhi. Non mi è mai capitato di pensare ai fallimenti del locale d’angolo, o anche solo ai miei, quando costeggio il canale, tanto per intenderci.

Mentre incedo baldanzoso guardo ancora le automobili parcheggiate. Come dice mia moglie ci sono delle cose ben più edificanti dei veicoli adibiti al trasporto individuale, e quindi cerco di concentrare l’attenzione su qualcos’altro, per esempio le facciate enigmatiche dei caseggiati. I miei occhi ricascano però come avvoltoi sulle auto innamorate del marciapiede. Seat Ibiza, Peugeot 207, Honda Civic, si dicono i miei occhi, sbirciando le scritte ogni volta che hanno qualche dubbio: per forza di cose alla mia età si è restati un po’ indietro. I miei occhi adorano la tassonomia automobilistica.

In qualche minuto le mie gambe arrivano pimpanti e speranzose al canale. Fa molto piacere trovarsi davanti l’acqua stagnante del canale, anche se è pur sempre l’acquaccia della notte prima. Io il canale lo costeggio sempre stando sulla riva destra, perché dopo tante sere sono abituato così. Mi piace avere la muraglia di palazzi incastrati uno nell’altro sulla destra, e la piastra marrone dell’acqua sulla sinistra. Lo trovo rassicurante, e nello stesso tempo anche un po’ sensuale. Come infilare un vecchio golfino nel quale ci sentiamo perfettamente a nostro agio, per capirci.

Uno dei tanti motivi per i quali adoro la metropoli che mi sopporta ormai da anni è che tutti i palazzi hanno sei piani. I primi tempi stai lì sempre a verificare, perché ancora non ti fidi al cento per cento, poi non occorre neanche più contarli, sono sempre sei. Sai che comunque vada ci sono sei strati di persone, sei palchi di occhi che guardano una fetta di cielo e i caseggiati di fronte, sei iterazioni di infissi e tubature, sei sfogliature di lenzuola e di coperte. È una circostanza molto rassicurante. Aborro le città dove ogni casa ha un numero di piani diverso, e non sai mai cosa devi aspettarti. Quella dove sono cresciuto, per esempio. È un disordine che crea le più bizzarre paranoie. La gente finisce per essere sospettosa di ogni nuovo immigrato, per trincerarsi nella più primitiva xenofobia.

Dopo il platano con il tronco molto svasato transito davanti all’albergo che nonostante la grande scritta ALBERGO non è più un albergo. Questo è l’albergo del celeberrimo film con gli infervorati balli popolari sulla riva del canale, mi dico, pensando nel contempo a mia moglie. Il fatto è che ogni volta che passiamo di là mia moglie mi spiega in lungo e in largo che il film non è stato affatto girato lì. È stato girato in un albergo che era la copia di quello, ma era di cartone!, mi dice, sempre più esasperata. Di CAR-TO-NE!, urla, con gli occhi di fuoco. Io ho imparato che quegli occhi luciferini è meglio non contraddirli, ma per me il film è stato pur sempre girato lì.

Se è estate sulla riva del canale ci sono infinite cartacce, perché la sera i ragazzi fanno i loro pic-nic metropolitani sulle sponde slabbrate di cemento. Centinaia e centinaia di pic-nic uno appiccicato all’altro, ciascuno similissimo agli adiacenti, tanto che ci si domanda come facciano gli adepti a non sbagliarsi di compagnia. Agglutinati in palpitanti circoli i giovani mangiano, bevono direttamente dalla bottiglia, discutono, ridono, fumano, si levano le scarpe, si abbracciano, si grattano la testa, suonano la chitarra, cantano, si baciano, si drogano, fanno i giovani in tutti i modi possibili e immaginabili, e poi quando se ne vanno lasciano una distesa di meste cartacce.

So già in anticipo cosa penserà la mia testa a ogni cartaccia che vede: che chi l’ha abbandonata dovrebbe andare a lezione di basket. La mia testa è per certi versi molto tradizionalista, per non dire di destra. Io invece cerco di interpretare il fitto bisbigliare nostalgico: come tutti gli esseri alle prese con la fase conclusiva dell’esistenza le cartacce rivangano sempre e solo il passato. E mentre prendo nota di quegli spezzoni di vissuto per certi versi già remotissimo mi dico che a far bene bisognerebbe vendere le merci senza cartaccia attorno, in modo da risolvere il problema alla radice. Se uno si fa un panino a casa non lo infila in una cartaccia, se lo mangia subito, tanto per fare un esempio. Oppure bisognerebbe adottare delle cartacce commestibili, in modo che la gente si pappi anche quelle. O anche ci vorrebbero delle cartacce auto-combustibili, che dopo un tot di tempo che sono per terra prendono fuoco, anche se poi forse ci sarebbe sempre puzza di bruciato, e sarebbe pericoloso per via dei bambini e dei cani.

Subito dopo l’albergo dove secondo qualcuno non hanno girato il film ma dove per me lo hanno girato avvisto sulla riva opposta le finestre dell’appartamento dove abitava l’amica più amica di mia moglie. Sono al quarto piano, e vista l’ora sono sempre spente. Chissà se sta dormendo bene, mi chiedo, fissando i riflessi delle sonnamboliche lattiginosità della città assopita, o comunque finta tale. In realtà sono ormai diversi anni che l’amica di mia moglie si è trasferita in un altro quartiere, ma per me abita pur sempre dietro a quei vetri: checché se ne dica il cervello dei primati ha una grande inerzia.

Quasi ogni sera guardando quelle finestre penso a tutte le volte che l’amica di mia moglie ci ha invitati da lei. Mi sembrava molto esotico che tutti al nostro arrivo avessero già finito di cenare, e che facessero come se il nostro ritardo fosse una cosa esilarante. Ero sbarcato da poco, e non avevo ancora realizzato che in quella città così spocchiosamente frivola della quale mi ero innamorato erano solo i sempliciotti appena sbarcati dalle campagne puzzolenti di mucche, o anche solo xenofobe, che si stupivano ancora di qualcosa. Non avevo ancora imparato che meno ti stupisci e più sei valutato. Vedi uno che va in bicicletta tutto nudo? Non batti ciglio. Avvisti una tipa che cammina all’indietro? Guardi l’orologio. Incappi in un bambino che picchia selvaggiamente la madre? Ti fai una risata.

Fuori dagli occhi fuori dal cuore, come dice il proverbio: oltrepassato il caseggiato dove abitava l’amica di mia moglie non penso più a lei. Guardo il semaforo, e penso appunto ai semafori che poverini soffrono di insonnia. Non c’è in giro nessuno, ma loro continuano a passare dal rosso al verde, e poi dall’arancione al rosso. Lo fanno tutto il giorno, e allora continuano anche la notte, perché ormai lo hanno nel sangue. Sempre la stessa sequenza di colori, senza mai sbagliarsi, senza farsi prendere dalla fatica. Bisognerebbe avere più considerazione dell’umile ma anche imprescindibile attività dei semafori, mi dico.

(continua)

(Immagine: Ricardo Ponce, El Grito)
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4 Commenti

  1. Ho adorato come sempre e forse di più cette flânerie a Parigi.
    Il personaggio narratore ha una vista creativa, quella di un uomo
    che sa scavare il grigio per vedere un’altra realtà, l’envers du décor dell’albergo “Hôtel du Nord”, mi sembra,
    l’envers della strada,
    la solitudine di un semaforo, come l’allumeur des réverbères du petit prince.

    Mi piace l’occhio miope. Ho la fortuna di essere miope, non ho occhiali, ma lenti, e mi è accaduto di uscire senza lenti, al rischio di essere strappata da una macchina, si vede una realtà strana: l’immaginazione occupa la forma. Il colore resta, solo la forma è come immersa in un sogno, anche un volto familare diventa straniero.

    Aspetto la lettura.

    PS le Canal Saint Martin fa parte del luogo che mi piace a Parigi, con la sua malinconia, la sua acqua un po’immobile, già in fuga verso l’Oise.

  2. altro che flanerie! questo e’ l’anti flaneur per eccellenza. ancora piu’ simpatico per questo.

  3. Mi è piaciuto, come tante altre cose dell’autore lette qui, quindi ho poco da dire, anzi nulla. Anzi no, posso solo dire di essere un’ammiratrice, nel complesso, della complessità semplice dell’autore e della sua capacità di farmi ridere – anche facendomi continuamente e continuamente pensare – e che egli potrà far conto, ogni volta che pubblicherà, che più o meno, penserò (senza scriverlo, a meno che io non veda un cambiamento radicale e per me non auspicabile, ma che potrebbe pure essere interessante, sia per l’autore, sia per me che leggo) sempre la stessa cosa positiva, sentendomi anche personalmente molto limitata nel giudizio. Fortunatamente, anche ciò, in questo caso, mi rallegra. :-)

    Segnalo refuso “uasono”, nella frase: Qualche sera uasono assembrati in circoli serrati, ecc.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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