Note Pop per la Letteratura: Beppe Sebaste
Per la seconda puntata di questa mia nuova rubrica ho chiesto a Beppe Sebaste di pubblicare un capitolo – una traccia? – del suo ultimo libro Oggetti smarriti e altre apparizioni (Laterza Contromano, 2009) , ottimamente recensito qui su NI da Chiara Valerio. E lui ha accettato. effeffe
“Come se venissimo scacciati nei boschi” *
di
Beppe Sebaste
Vorrei cominciare da una passeggiata.
Domenica 15 giugno sono uscito di casa dopo mezzogiorno. L’idea era di sedermi a leggere da qualche parte, e magari mangiare qualcosa. Sulla strada ho comprato il Corriere della Sera, avevo con me un quaderno e il libro di appunti di Walter Benjamin su Parigi. Devo fare in questi giorni un programma di ricerca per sollecitare un nuovo credito in forma di borsa di studio, consacrato come quello precedente alla letteratura intima ed epistolare, in particolare di alcuni autori romantici. Ho pensato che leggere gli appunti di Benjamin sulla flânerie mi avrebbe dato delle idee: anche la lettera è un vagabondaggio.
Ho scartato l’Île Rousseau, dove ho spesso studiato, perché il bar è troppo caro e di domenica troppo affollato. Ho pensato alla vieille ville, col sole e gli alberi. Del Café Papon, nella terrazza che si affaccia sul parco dell’università, ho il ricordo di un buon posto dove leggere il giornale.
Ma hanno cambiato l’arredo, e quando arrivo trovo dei tavoli grandi e inospitali, buoni per mangiare la pizza in comitiva (l’accento dominante tra i clienti è americano). Giro intorno al bar indeciso, quando accanto a un albero scorgo un piccione morto, forse decapitato, con del sangue raggrumato intorno. Mi esce una breve esclamazione di disgusto, più che altro rivolta all’inconsapevole indifferenza dei clienti sudati che mangiano lì vicino, e del personale di servizio. Alla fine scelgo di sedermi a un tavolo vicino all’entrata del ristorante, all’ombra e lontano dal piccione. Appena mi siedo faccio uno starnuto, mi guardo intorno per comandare qualcosa e sul muro di fianco, a un palmo dalla mia testa, vedo un buco tra i mattoni in cui galleggiano su delle ragnatele, in un disordine amorfo, vari detriti, tra cui una chewingum masticata. Questa visione mi fa più schifo della precedente, perché non è possibile alcuna redenzione, e brontolando mi alzo seguito dallo sguardo di una coppia. Inizio così una peregrinazione sotto il sole, il libro voluminoso di Benjamin in mano, da un bistrot all’altro, ogni volta respinto da una minaccia diversa. L’ultimo posto puzzava di fonduta al formaggio.
Eppure, penso, l’aria è bella e pulita, il cielo è azzurro e bianco, c’è il sole e ho voglia di sedermi a leggere. Mi fermo sulla Terrazza Agrippa d’Aubigné, dopo aver percorso la rue Calvin e costeggiato la cattedrale. Da una fenditura tra gli edifici guardo il lago, il getto d’acqua bianca e spumeggiante che spunta sopra i tetti, le onde e le barche a vela. Le case intorno sono sobrie e color crema, dalle finestre intravvedo qualche interno e mi viene voglia di trovarmi a Parigi, così, per vedere delle case. Del lago, in fondo, non mi importa più di tanto. Così mi accorgo, accendendomi una sigaretta, di non avere nessuna premura, e appoggiandomi al muretto decido di sfogliare il mio giornale. E’ morto Borges. Allora vado a pagina tre, che è tutta consacrata a questo evento. Il primo articolo che appare è di Claudio Magris, “La letteratura non salva la vita”.
Spesso mi sono riferito a dei libri. Le letture fanno parte della mia sfera di esperienza a pari titolo (forse addirittura a maggior titolo, mi rimproverava un’amica) di altri miei atti o stati del mondo. Non solo le letture: voglio dire i libri, anche quelli non letti. Di conseguenza anche i loro autori. Sono sempre stato piuttosto sicuro nel riferire frasi tratte da libri, enunciazioni che potessero sostenere le mie idee (dunque mi capitava di avere delle idee da sostenere). Ad esempio citavo Gilles Deleuze, più spesso senza nominarlo: letteratura minore, letteratura di idee, movimenti, macchine astratte, esilio, stare sempre nel mezzo come l’erba, visagéité (voltità), muro bianco e buchi neri, l’ape e l’orchidea, essere stranieri nella propria lingua (cercare di esserlo), linee di fuga, concatenamenti, divenire sempre, non diventare mai, metamorfosi vs metafora, ecc. Naturalmente altri concetti e parole chiave si sono aggiunte alla lista: opacità (contro la trasparenza), racconto breve, soggettività, narrare vs romanzo, diluendosi in un territorio così vasto che la libertà mi è sembrata alla fine totale, e ogni morale provvisoria, un po’ come quella frase di Giorgio Manganelli che un mio amico ama citare, “le vie della salvezza letteraria sono infinite”; e che mi potrebbe anche far comodo, se non fosse che, della salvezza letteraria, non mi importa assolutamente nulla.
La provvisorietà della morale letteraria (che non comporta la rinuncia a un’etica) ha preso per me questa forma, di volere situare quello che scrivo in un luogo o in direzione di un luogo. Non mi interessano soltanto le coordinate, per così dire, geopoetiche di quello che scrivo o che leggo, ma vorrei riportare nella scrittura l’effettualità e la coscienza aurorale che si trovano nell’esperienza quotidiana e nell’esperienza dello spazio. Per questo forse faccio fatica, oggi, a dire la mia sul narrare, o sul racconto, come se fosse possibile enunciare qualcosa che non sia in sé narrazione, come se si potesse dare una riflessione che già non si racconti, e viceversa.
In questo mio desiderio di reportage (si tratta in fondo di questo) c’è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Parlo dell’abitare. Sono stupito dell’abitabilità. Più ancora del mistero della luce, il fatto di abitare da qualche parte, che la gente abiti qui o là e che spesso affronti il problema della casa con quieta sicumera, mi turba e mi affascina: sia che si tratti degli invisibili abitatori di quelle ville allineate sul lago, tra Ginevra e Losanna, immersi nella nebbia sei mesi all’anno, sia dei pescatori di tonno dell’isola di Lampedusa. Forse perché mi sembra questa la finzione più grande, la più misteriosa – abitare una casa, un luogo, un genere, una forma, avere delle abitudini, di fronte a cui le mie reazioni sono mutevoli e contraddittorie: nostalgia, identificazione, desiderio di essere come gli altri; oppure repulsione, scetticismo, cercare una via d’uscita o di fuga.
Alla ricerca di un gesto, di una consuetudine, ho appreso nel cuore della città vecchia di Ginevra della morte dello scrittore Jorge Luis Borges. “Devono essere tutti fioriti gli alberi del cortile del Liceo Calvino, a Ginevra, adesso che Borges è morto, a due passi dalla scuola dove andò da ragazzo”, intonava un corsivo del Corriere. Allora mi volto, è vero, sono tutti fioriti da un pezzo. Dopo mi sono sentito più calmo. Ho letto sulla flânerie in un baretto qualsiasi, poi ho scritto sul quaderno una traccia di questo mio intervento a partire da quella “coincidenza”: scrivere sui luoghi (la scrittura deve dare delle forme per vedere il mondo; uno di quelli che oggi mi piacciono di più è James Ballard); passeggiata nella vieille ville (incidenti, piccione morto, odore di fonduta e morte di Borges – uno scrittore che ho amato – proprio nei luoghi in cui mi trovo in questo momento); questo apologo non ha una morale, e forse non è una storia, difficile è estrapolarne i nessi, ma non è la mia preoccupazione; infine, che di Borges mi piace soprattutto il gusto per gli avvenimenti semplici, effettuali, eventuali, e insieme il fatto che la sua opera non è che una serie di frammenti, di testi molto brevi e sparsi, come ha detto lui stesso.
Borges ha soprattutto insegnato che non c’è differenza tra pensare e raccontare, e ha introdotto una possibilità nuova, anche se evidente: fare il riassunto di una narrazione più lunga, di quel romanzo che si è troppo stanchi, o pigri, o scettici, per scriverlo e abitarlo.
Esiste una bellissima storia, raccontata dai chassidìm, che mi viene ora in mente, e che mi sembra molto adatta a rilanciare un’idea etica del raccontare, oltre che a chiudere questo testo. La cito a memoria come l’ho letta tempo fa in un libro sulla mistica ebraica.
C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere”, e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva”, e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni.
Per concludere devo aggiungere una telefonata.
La sera di domenica 15 giugno mi ha telefonato un amico da Parma. E’ un bravo poeta, in questo periodo non compra i giornali, sta molto in casa e sta ultimando una raccolta di poesie. Mi ha letto qualche suo verso, poi mi ha annunciato che, di lì a poco, gli avrebbero tagliato il telefono. Poteva quindi indugiare più a lungo del solito. Nel corso della conversazione mi ha letto una frase di Kafka tratta da una sua lettera, non so quanto nota. Non so neanche se essa faccia parte delle coincidenze, o anche solo della storia, né se sia possibile situarla in un tempo. Ho però trovato importante trascriverla. Eccola:
“Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci colpisce duramente, come la morte di qualcuno che amavamo più di noi stessi, come se venissimo scacciati nei boschi, via da tutti gli uomini. Come la notizia di un suicidio, un libro deve essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi”.
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oddìo, grazie, ma mi fa effetto, perché è il testo più “antico” del libro, datato 1986 – mi sembra di doverlo dire….
I like Beppe, e Beppe lo sa, qui e in genere, senza delusioni, mai;
specie la divina pulizia della scrittura che funziona da sola, per noncuranza padronanza, e libertà, come l’l’eleganza. SIC. Maria Pia Quintavalla
cara pia, quel “senza delusioni, mai”… – grazie, un sorriso. antico e senza tempo.
…, una stupidata, ma insomma ascolto la partita IV di JSB e mentre leggo il pezzo sopra sento -un momento non preparato che mi invia splendidamente nel nuovo giorno-, emozioni.