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Come sul ponte

come sul ponte_small

di Davide Vargas

Come sul ponte di una nave sotto un’unghia di luna, una stella qua e là tra la nuvolaglia notturna scossa dal vento potente che solleva polveri d’acqua sui dorsi bianchi delle onde e le sparge come i semi del contadino, e da un chiarore laggiù ad oriente arriva un canto come un azaan, o è un’eco di altri orizzonti, oltre l’approdo e la barriera aguzza di nuvole svelata dal bagliore di un’alba. Come sul ponte, il viso sopravento stretto nel bavero della giacca, gli occhi rivolti alla lunga costa dell’isola o promontorio o terra che accompagna la navigazione fino al punto del distacco, linea parallela che fugge nella direzione opposta e tu sai invece che è massa immobile sopra le onde di tanto mare, come accade in tutte le stazioni del mondo: quando il treno si allontana i pilastri le pensiline le panchine i cartelli le persone fingono di correre via, e sai anche che nulla è veramente immobile, le rocce e le pietre meno che mai. Come sul ponte, la coda dell’occhio che indugia sul pulsante rosso sotto la scritta UOMO IN MARE, le scalette in ferro bianco che portano al ponte di coperta dove rumoreggiano le macchine, le ringhiere vuote come i sedili, gli idranti antincendio, un velo rugginoso su ogni cosa, la mano che passa sul bordo della murata a cercare le scrostature della vernice, gli schizzi d’acqua, il velo di umidità, un istante e ritornano gli occhi arrossati alla costa, non quella ancora lontana della meta, ma quella parallela e distesa, il grande show, la trama di una vicenda che si mostra e subito passa oltre. Come sul ponte, fino a scoprire che piega dopo piega, anfratto dopo anfratto, dopo ogni roccia e ciuffo di mirto e lentisco e rosmarino e agave e euforbia, quello che scorre via, che tu lo voglia o no, che tu ne colga o no una voce o uno svolgimento tra le maree e il caso che ti fa stare lì ad ascoltare quell’istante e non un prima e non un dopo, quello che scorre via non è altro che la tua esistenza rappresa o dilatata, un’opera adagiata sull’acqua, fino alla fine della terra, questa terra scura e galleggiante che la luce battezzerà visibile, e dopo sarà solo mare. O nulla. O un tutto immenso. Non è altro che la tua esistenza. Come sul ponte, lo spettacolo va avanti mentre la nave avanza oltre l’ultima parola che il vento ti nasconde, oltre il volto che non si gira in tempo, oltre il gesto della storia che si nasconde dietro il folto di erica che in questo lampeggiare dell’inizio appare verde come un sangue vivo, oltre tutto quello che sfugge a te spettatore trascinato via. Tornerai? Ripasserai a riallacciare la trama? Non ti è dato sapere mentre le onde in basso allo scafo sono bianche come neve in un mare grosso e nero. Come sul ponte, cogli i frammenti, sono più i vuoti tra una messa a fuoco e l’altra, le visioni svanite, così le persone, le incroci, le tocchi, le vivi e poi le perdi, le vedi allontanare nella propria esistenza fino a quando un giorno nei segni di un volto appassito riconoscerai forse le labbra di un bacio scambiato tanti anni prima, o sperato, forse, forse, o crederai di riconoscere e sarà lo stesso, così le voci, hanno un suono che poi perdi tra le folate del vento che corre via e quando i mulinelli un secolo dopo, o un istante, spargeranno altre parole un suono tra i tanti ti parrà familiare fino a credere di riannodare un senso perduto, così i luoghi che avrai vissuto fino alle fibre più interne dell’appartenenza per poi abbandonarli inseguendo nuove nenie. Così sono le occasioni che dopo averle perse le cercherai scolorite e inutili. Come sul ponte, cogli gli spigoli di un costone, i fuochi di una luce, la traccia di un sentiero, gli spiragli di un fogliame, il riflesso di un’acqua. Come sul ponte, oltre il mare la realtà: il nulla o l’immaginazione. Il nulla o il caos, l’immaginazione o il sogno. Come sul ponte, cerchi unità. Cerchi il filo che trattiene, una ragione. Senti l’impotenza. Dovresti tornare indietro, no la scena vorresti che rallentasse, che si fermasse, ti manca un dettaglio, un’espressione, un gesto, non ti accontenti del senso intermittente che puoi decifrare, chiedi un sottotitolo, una didascalia, vorresti chiarezza. Vorresti una messa a fuoco definitiva. Come sul ponte, non sai più un cazzo. Ma se guardi bene tra le crepe della terra e tra le sfoglie delle rocce scopri che è anche l’altra esistenza. I punti delle scelte rimandate, il suolo delle orme mai impresse, gli angoli degli incontri evitati, i nascondigli, i silenzi e le parole mute, i pericoli mai corsi, il petto mai offerto, il coraggio e la viltà. Gli amori perduti. Ti è più cara. Lo sai e sai il perché. I sogni. Un’altra terra. Un altro cielo. Quelle fughe leggere come i vapori di un sudore sulla fronte. Niente di più. A volte è bastato, nel dormiveglia o nel solco che precede il sonno l’immaginazione di un’altra esistenza nell’attesa del nuovo attacco. Te lo sei concesso. A volte è bastato. Lo sai e sai che nell’ultimo istante sarà questa che ti chiederà il conto. Come sul ponte, ti accorgi in un momento che non c’è più tempo, e guardi e sei guardato.

Isola d’Elba, 18 luglio 2009

[il disegno nell’immagine è dell’autore.]

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9 Commenti

  1. Uno straordinario monologo poetico. Da recitare con accompagnamento musicale. Pura poesia fatta di ritmo, classe, eleganza, la cui struttura è una trama leggerissima di linee interne al testo, scandite da rime appena accennate, grazie a un grande lavoro di lima e di ricerca delle parole: una misura notevole, nella migliore tradizione della prosa poetica. Direi un Massimo Bontempelli scarnificato dell’autocompiacimento, della letterarietà. Qui tutto funziona come qualcosa appena sgorgato da una fonte, in realtà c’è un grande lavoro di controllo, un dire sorvegliato e attento: armonia e musicalità, architettura della parola, tessitura di ritmo e di suono. Cos’altro?

  2. Bellissimo, la scrittura ha la precisione dei punti leggeri sotto chiarore di luna. Una pura meraviglia. Un sospiro trattenuto, un’oscillazione, un viavai tra il nave e il litorale, ricordi sbocciando nel cuore del rosmarino, del mirto, del lentisco.

    Leggendo, sono nella suggestione poetica.

  3. Basta un briciolo di sensibilità. Ne basta proprio poca per poter accedere, come password democratica, al mondo di te che il mondo apri, Davide. Non è difficile per te essere ascoltato e compreso. Tutte le persone sensibili hanno scrigni preziosi davanti a sé, ma non possono ricordare la combinazione magica per la loro apertura. Solo i poeti_scrittori come te ne hanno, ferma, la memoria. E schiudono, a quegli uomini comuni ma sensibili, doni da questi prima solo immaginati.

  4. E’ come diceva Proust? – Se un pò di sogno è pericoloso, ciò che ne guarisce non è sognare meno ma sognare di più, sognare tutto il sogno.- O forse i sogni, come è fisiologico che sia, vanno custoditi, anche se nel mondo parallelo, vanno preservati, il più a lungo possibile, vanno trasmessi, come raro succede ora. Dite voi, amabili lettori.
    Più che sensibilità ci si sente necessità, un interrogare, spingendosi fino a chiedere indizi al mondo in/animato come un arsenio montaliano.
    Del resto la musica del testo è certo più fragorosa di un claire de lune.

  5. e’ bello rileggere se stessi attraverso cio che gli altri scrivono
    ci si sente meno soli
    e avvolti in una copertina di pensieri che si fondono ci si sente al sicuro

  6. ormai hai cambiato l’obiettivo con cui osservi le cose
    o meglio
    l’obiettivo è lo stesso
    hai trovato nuovi strumenti di descrizione

    come la scrittura anche l’architettura rielabora la reltà e la rappresenta
    attraverso la deformazione dell’io narrante…

  7. riesci a far riemergere dal profondo
    luoghi,fatti e cose
    voci sepolte riaffiorano graziosamente e viaggiano con me .
    Grazie per il bel racconto

  8. è un testo poetico, più che un testo, una poesia complessa.
    Leggo. Nelle mie pause colgo cento, mille poesie.
    Leggo a voce alta. Il ritmo è incalzante, cerco virgole e punti che fermino la corsa quando mi manca il fiato.
    Di questa “poesia complessa” conservo come un vento quelle suggestioni naturali che diventano poco a poco suggestioni personali, quella dolce sofferenza, quello stato che non sta qua, ma nemmeno ancora là, che è stato e che non sarà più.
    Quel mondo di passaggio, che mi permette di aprire la mente e viaggiare sul ponte.
    Il ponte, che diventa per me metafora di una condizione, ed allora leggendo rallento un pò.
    Me lo concedo.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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