Combattenti per la pace: un viaggio in Palestina (seconda parte)
Testo e fotografie di Lorenzo Bernini. La prima parte è stata pubblicata qui il l’8 settembre.
l’enorme insediamento ebraico di Gilo circondato dal muro
un militare israeliano di guardia su un tetto a Hebron
bandiere palestinesi presso il mausoleo di Yasser Arafat a Ramallah
Come ti ho anticipato poco fa, l’impressione che ho tratto da questo viaggio in Palestina e Israele non è stata soltanto di una situazione estremente intricata, ma anche di una realtà inimmaginabile per un europeo, a cui io stesso stenterei a credere se non ne avessi fatto esperienza diretta. Un’esperienza che mi ha costretto ad abbandonare ogni immagine stereotipata della guerra intesa – alla maniera dei teorici della guerra giusta della prima modernità – come combattimento tra eserciti regolari. Il conflitto israelo-palestinese non soltanto miete nella maggior parte dei casi vittime civili (come la maggior parte delle guerre asimmetriche contemporanee) ma è un conflitto combattuto in gran parte dai civili, che investe quotidianamente, “microfisicamente” la vita di uomini e donne qualunque, potenziali vittime in ogni momento della loro esistenza di soprusi e di violenze, oltre che di proiettili, ordigni esplosivi e attentati suicidi.
A sorprendermi sono state anche le divisioni che percorrono quello che nell’immaginario della sinistra italiana è rappresentato come un unico popolo palestinese: per tutta la durata del viaggio è sembrato che l’assedio di Gaza fosse una realtà presente soltanto nelle nostre menti. Nessuno (a eccezione di Mustafa Barghouti, di cui ti dirò tra poco), né i rappresentanti delle associazioni in difesa dei cittadini arabi israeliani, né le autorità governative e le organizzazioni non governative che abbiamo incontrato in West Bank, ha menzionato di propria iniziativa la condizione dei palestinesi di Gaza. È difficile azzardare previsioni su quale sarà il futuro della West Bank: la condizione attuale, di un territorio percorso dal muro, diviso da 93 checkpoint (75 permanenti e 18 temporanei) e da 97 cancelli, punteggiato da 48 basi militari israeliane e da 149 insediamenti abitati da 300.000 coloni, rende molto difficile immaginare uno Stato dotato di integrità territoriale. Però la speranza non deve morire: i sindaci e i governatori che abbiamo incontrato sono concordi nel sostenere che negli ultimissimi tempi, forse anche in virtù delle dichiarazioni di Obama, la pressione dell’esercito israeliano si è fatta meno violenta. Su un punto tuttavia mi sembra che Israele abbia già vinto: vittime di un’efficace politica del “divide et impera”, ognuno dei tre gruppi in cui si trova scomposta la popolazione palestinese – cittadini israeliani, abitanti della West Bank governati dal partito nazionalista laico Fatah e abitanti della Striscia di Gaza governati dal partito islamico integralista Hamas – sembra troppo occupato dai propri immediati problemi di sopravvivenza quotidiana per poter pensare alla causa di un unico popolo. Difficilmente sanabile sembra essere soprattutto il conflitto tra Fatah e Hamas, che nel 2007 – quando Hamas ha assunto con la forza il controllo delle Striscia di Gaza e in West Bank è stato espulso dal governo e messo fuori legge – ha preso la forma di una vera e propria guerra civile tra gruppi dirigenti.
Salam Fayyad, Primo Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese
A Ramallah ci ha ricevuti il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Salam Fayyad, appartenente non a Fatah ma al partito centrista “La terza via”. A suo avviso dal 2007 la West Bank, o almeno i territori della West Bank che per gli accordi di Oslo sono amministrati dall’ANP, sta gradualmente rifiorendo: “Negli ultimi mesi abbiamo portato l’elettricità in alcuni villaggi tra Betlemme ed Hebron. A Nablus sono stati aperti un cinema e un centro ricreativo. Sono piccoli passi verso la fine dell’occupazione militare. Nei prossimi due anni il governo intende consolidare le istituzioni dell’ANP e progettare lo Stato palestinese: uno Stato progressista, culturalmente aperto al mondo, ispirato ai valori dell’uguaglianza e della tolleranza”. Anche Fayyad non fa cenno ad Hamas e ai palestinesi della Striscia di Gaza. Fino a quando non gli rivolgiamo una domanda diretta, a cui risponde: “L’occupazione israeliana deve finire, a Gaza come in West Bank. A Gaza 1.400.000 persone vivono in uno stato di prigionia. In seguito agli accordi di Oslo, l’ANP deve dimostrare la propria capacità di autogoverno e di costruzione di istituzioni, ed è quello che sta facendo. Israele invece non rispetta i propri impegni, in particolare quello di fermare gli insediamenti in West Bank. Occorre sperare nel processo diplomatico internazionale che sembra essersi aperto negli ultimi tempi, ma prima ancora è necessario che siano fermati gli insediamenti. Per quanto riguarda Hamas: il prossimo gennaio dovremmo avere nuove elezioni: è un diritto costituzionale che deve essere esercitato. Almeno su questo punto, spero, dovremo trovare un accordo”.
Parole di speranza, quindi. Che però non tutti condividono. Il giudizio di Mustafa Barghouti, Segretario Generale del partito di sinistra Al Mubadara – Palestinian National Initiative, è ad esempio molto pessimista: “Vi assicuro che non mi sarei espresso con queste stesse parole venti anni fa: oggi il popolo palestinese – tanto in Israele, quanto in West Bank, quanto ancora nella Striscia di Gaza – vive sotto un feroce regime di apartheid e subisce violente pratiche di pulizia etnica a opera dello Stato di Israele, con la complicità di fatto della comunità internazionale. E oggi è complice di Israele anche l’ANP, che contribuisce a reprimere la resistenza palestinese. È una situazione paragonabile a quella del regime collaborazionista di Vichy, instauratosi nel 1940 in Francia sotto l’occupazione nazista”.
Mustafa Barghouthi, Segretario Generale di Al Mubadara
Anche la popolazione israeliana, del resto, è segnata da fratture e contraddizioni. All’atavica contrapposizione tra ebrei aschenaziti e sefarditi e alla tradizionale subordinazione sociale della minoranza degli ebrei etiopi, si aggiungono oggi nuovi problemi di integrazione conseguenti alla nuova massiccia ondata di immigrazione dalla Russia e nuove tensioni sociali causate dall’integralismo religioso (il 2 agosto, mentre a Gaza Hamas celebrava un matrimonio collettivo costringendo le giovani vedove dell’operazione Piombo fuso a riprendere marito, a Tel Aviv un uomo con il volto coperto, armato di una mitraglietta, ha fatto irruzione nella sede dell’associazione lesbica-gay-trans Agudah: ha ferito 18 persone e ucciso una ragazza di 17 anni e un ragazzo di 26. Già durante il gay-lesbian-transgender pride di Tel Aviv del 2005, del resto, tre manifestanti erano stati pugnalati da estremisti ebrei ultraortodossi). Dominata dalla paura del lancio dei razzi Qassam e degli attentati suicidi (l’ultimo dei quali è avvenuto nel 2005), secondo il giudizio di Paola Caridi, “la società israeliana ha oggi perso i propri cardini morali. Ma non dovremmo essere noi a stupirci dell’ampio consenso ricevuto dall’operazione Piombo fuso (approvata dal 91% dei cittadini israeliani). Gli israeliani hanno votato Netanyahu e Lieberman e sostengono le loro imprese militari, gli italiani hanno votato Berlusconi e Bossi e gradiscono le loro politiche sull’immigrazione. Ma in Israele come in Italia non si può costruire la democrazia sulla sicurezza”.
Dello stesso avviso è Zvi Shuldiner, intellettuale ebreo noto in Italia come corrispondente del manifesto: “Per analizzare il voto del popolo israeliano non si può prescindere dal sentimento della paura: il voto è determinato esclusivamente dalla questione palestinese, non dalle politiche economiche dei diversi partiti. L’attuale governo non è in realtà molto diverso dai precedenti, se non per il suo radicalismo anti-arabo, per il suo dichiarato razzismo. Come in Italia, in Israele è in corso una legittimazione culturale del fascismo. L’opinione pubblica è più avanzata della leadership politica, ma al tempo stesso è segnata da un’evidente schizofrenia: secondo i sondaggi un’ampia maggioranza di israeliani è favorevole alla soluzione ‘due Stati per due popoli’, ma al tempo stesso vorrebbe ‘allontanare’ il popolo palestinese dalla terra di Israele. La verità è che a nessuno è simpatico il proprio nemico, ma se si è in guerra e si vuole la pace è con il nemico che si deve trattare. Questo vale oggi anche per Hamas, che rappresenta una parte importante della società palestinese: non è pensabile una pace con Fatah che non coinvolga anche Hamas”. Al conflitto arabo-israeliano sono state applicate molte differenti letture in differenti momenti storici: negli anni della guerra fredda la Palestina/Israele è diventata anche una posta in gioco del tentativo di controllo del mondo arabo da parte del blocco liberale e del blocco socialista, dopo l’11 settembre 2001 ha acquisito un’importanza geopolitica centrale nel cosidetto “scontro di civiltà”. Tuttavia, come ci ha spiegato Morgantini, il conflitto arabo-israeliano resta innanzitutto un conflitto “locale”: “Il problema fondamentale è la mancanza di un reciproco riconoscimento. Palestinesi e Israeliani non si incontrano, non si conoscono. Ad esempio – a parte rare eccezioni, come Shuldiner – sono pochi gli accademici e gli intellettuali israeliani che studiano seriamente il mondo arabo. In generale sono pochi gli israeliani che dialogano con i palestinesi e i palestinesi che dialogano con gli israeliani. Sono pochi e rappresentano un punto di vista minoritario, ma esistono: e questo basta perché meritino tutta la nostra attenzione e il nostro sostegno”.
Yehuda Shaul, fondatore di Breaking the Silence.
Lo stesso Shuldiner, ad esempio, appartiene all’associazione Taarabut (insieme), in cui arabi israeliani ed ebrei comunisti militano uniti contro le politiche economiche liberiste dello Stato di Israele, nella convinzione che “Netanyahu ha già realizzato in Israele uno Stato per due popoli: i ricchi e i poveri”. Esistono poi gruppi giovanili non violenti, associazioni di avvocati democratici, persino un gruppo di rabbini pacifisti, Rabbis for Peace, che dialoga con gli Imam moderati per favorire la pace, sfidando l’interpretazione delle Scritture data dai coloni ebrei ortodossi. Ebreo ortodosso, con barba e kippah, è però anche Yehuda Shaul, fondatore di Breaking the Silence, l’organizzazione di veterani israeliani che da cinque anni denuncia le violazioni dei diritti umani operate dal proprio esercito. Di recente Breaking the Silence ha pubblicato un opuscolo di testimonianze sull’operazione Piombo fuso in cui 54 soldati, per buona parte di leva e spesso tuttora impegnati nei territori palestinesi occupati, hanno rivelato le regole d’ingaggio ricevute durante l’offensiva condotta da Israele nella Striscia di Gaza: non fare differenza tra combattenti e civili, bombardare anche aree densamente popolate, utilizzare munizioni al fosforo bianco (bandite dalle convenzioni internazionali sulle armi chimiche), demolire abitazioni civili anche prive di importanza strategica. Denunce come queste, pur venendo screditate da una certa stampa israeliana per il carattere anonimo delle testimonianze, hanno una grande importanza per il consolidarsi del movimento dei refusnik, riservisti ma anche soldati di professione israeliani che scelgono il carcere piuttosto che il servizio nei territori occupati. Particolarmente significativa è poi l’esperienza di Combatants for Peace, associazione nata nel 2004 anche grazie all’iniziativa di Morgantini. Attualmente è composta da 600 persone, in maggior parte refusnik israeliani ed ex combattenti palestinesi che hanno abbandonato le armi e ora lottano assieme per la pace, organizzando veglie di solidarietà per le vittime del conflitto, manifestazioni non violente, conferenze nelle scuole e nelle università. Due di loro, Bassam Aramin, uno dei fondatori palestinesi, e Avner Wishnitzer, attuale coordinatore della sezione israeliana, ci hanno raccontato le loro storie.
Per aver tentato di aggredire un soldato israeliano, per 7 anni, dal 1985 al 1992, Aramin è stato in carcere: “È lì che ho maturato una posizione pacifista. Prima non conoscevo nulla del popolo ebraico. Ad esempio non sapevo nulla della Shoah: me ne hanno parlato i miei carcerieri israeliani. La prima volta che ho visto un film sui campi di concentramento nazisti ho provato un senso di rivalsa. Oggi invece comprendo il dolore degli ebrei, ma so anche che i palestinesi non ne hanno alcuna colpa. I palestinesi sono vittime di un popolo di vittime, ma il messaggio che voglio dare al mio popolo è che dobbiamo essere forti abbastanza per non essere più vittime di nessuno. L’8 febbraio 2007 mia figlia Abir è stata uccisa da un proiettile israeliano mentre usciva da scuola ad Anata (Gerusalemme Est). Aveva 11 anni. Mia moglie mi disse che per lei la politica della pace era morta assieme a nostra figlia. Non avrei potuto continuare a militare in Combatants for Peace senza il sostegno di mia moglie… Le ho chiesto, allora: ‘Che cosa devo dire ai nostri fratelli israeliani in veglia fuori dall’ospedale?’. La sua risposta è stata: ‘Hai ragione: loro sono nostri fratelli. Ma gli altri israeliani no’. Io so che quel soldato non voleva uccidere mia figlia: voleva uccidere un palestinese qualunque. Non voglio vendetta, perché so che se anche il colpevole fosse ucciso, la sua morte non avrebbe nulla a che vedere con il mio dolore. Non voglio vendetta: voglio giustizia”. Prosegue Wishnitzer: “Io ero lì, a vegliare per Abir. La sua morte è stata la nostra più grande sconfitta. Ma coltivare la sua memoria ora significa continuare a difendere le ragioni della pace. Sono cresciuto in un kibbutz, non avevo mai conosciuto persone palestinesi prima di aver compiuto 18 anni, quando ho fatto il servizio militare. Se allora avessi incontrato Bassam, avrei sparato. A lui, come a qualsiasi altro combattente palestinese. Semplicemente allora non pensavo, come la maggior parte degli israeliani non pensano e lasciano che la propaganda pensi per loro. Ma nel 2004, assieme a due mie amici, ho rifiutato di servire di nuovo nell’esercito nei Territori occupati. Mi sono reso conto allora che non si tratta di una situazione alla pari: i palestinesi sono vittime dell’occupazione israeliana, e gli israeliani sono incommensurabilmente più forti. Ma anche se sono vittime, non per questo i palestinesi non hanno responsabilità. So che molti israeliani mi considerano un traditore, ma io al contrario mi considero un patriota. Se milito in Combatants for Peace non è solo per altruismo o generosità: lo faccio per la mia società. Combatants for peace non è un gioco a somma zero”. Gli fa eco Aramin: “Non schieratevi con un popolo o con l’altro. Non prendete parte per gli israeliani o per i palestinesi. Prendete parte per l’umanità. E per la Palestina libera”.
Bassaam Aramin, tra i fondatori di Combatants for Peace.
L’appello a un comune senso di umanità ci è stato rivolto più e più volte dai pacifisti palestinesi e israeliani e dai volontari internazionali che abbiamo incontrato. “Restiamo umani” è anche il titolo di una raccolta di articoli di Vittorio Arrigoni, volontario dell’International Solidarity Movement e corrispondente da Gaza per il manifesto durante l’operazione Piombo fuso, che molti di noi avevano letto per prepararsi alla missione. “Prendiamo parte per l’umanità”, dunque, “restiamo umani”: questi sono stati gli imperativi che hanno accompagnato il nostro viaggio. Imperativi di cui mi è chiaro il significato, ma sulla cui forma ho qualche dubbio. Che cosa significa infatti essere umani? È sufficiente preservare la propria umanità per operare una scelta pacifista? La storia dell’umanità, di cui il conflitto israelo-palestinese è uno dei tanti dolorosi capitoli, non è forse da sempre una storia di guerre? E in fondo quale carattere è specifico dell’umano, se confrontato agli altri animali, più della capacità di organizzare lo sterminio sistematico dei propri simili? La vendetta, la volontà di sopraffazione, il sadismo perfino, non sono forse sentimenti propri dell’umano?
Al tempo stesso l’umano è anche quell’essere dotato di senso morale che, di fronte ai propri simili, si pone la domanda “che cosa è giusto che io faccia?”. Umana è quindi anche la possibilità della giustizia: non solo della giustizia intesa coma “riparazione di un torto” – quella a cui pensavano i teorici cristiani della guerra giusta – ma anche di quella giustizia che mai potrebbe prendere la forma della guerra, perché consiste nell’astenersi dalla violenza sull’altro, e addirittura nel dedicarsi alla cura dell’altro. L’umano è un essere fragile e vulnerabile, esposto alla ferita dell’altro e assieme capace di ferire l’altro, potenzialmente soggetto e oggetto di omicidio. Proprio per questa ragione ogni essere umano è chiamato a una scelta tra violenza, indifferenza o cura ogni volta che incontra la vulnerabilità dell’altro. Ad esempio quando è in corso una guerra ogni singolo deve scegliere se negare l’umanità del suo nemico e godere delle sue sofferenze, oppure compiangere la perdita di ogni vita umana, superando la distinzione tra amici e nemici, come è stato capace di fare Avner vegliando Abir e portando conforto a Bassam e a sua moglie. Operare una scelta radicalmente pacifista (come Avner, come Bassaam, come Luisa e Barbara e molti altri e altre che abbiamo incontrato nel nostro viaggio) significa attribuire valore all’esistenza di ogni essere umano, ritenerlo meritevole della nostra cura non solo e non tanto quando ci è facile riconoscerlo uguale a noi, ma soprattutto quando lo riconosciamo diverso da noi, non solo e non tanto quando proviamo per lui un’istintiva simpatia, ma soprattutto quando suscita in noi un’istintiva diffidenza (l’antipatia verso il nemico di cui ci ha parlato Shuldiner). A caratterizzare l’umano sono, quindi, tanto la violenza, quanto l’indifferenza, quanto ancora la cura. La domanda sulla giustizia (“che cosa è giusto che io faccia”?) si pone a ogni essere umano ogni volta che incontra un suo simile, ma la storia insegna che la scelta della giustizia, soprattutto nelle situazioni estreme di conflitto, non è affatto comune tra gli umani. Optare per un’etica pacifista, fare della non violenza e della cura delle regole di condotta non equivale quindi semplicemente a “restare umani”, ma significa al contrario rinunciare a parte della propria umanità, attribuendo un valore aggiunto a ciò che ne resta.
Nel XVI secolo, quando gli ebrei furono perseguitati dall’Inquisizione cattolica e cacciati dalla Spagna, il rabbino Isaac Luria, rileggendo le Scritture, sostenne che la creazione del mondo fu un evento traumatico che turbò l’ordine dell’infinito. Esito del trauma fu l’avvento del male. Secondo la tradizione (cabala) inaugurata da Luria, il popolo ebraico sarebbe stato scelto da Dio appunto per riparare l’ordine dell’infinito: non nel senso di riparare i torti subiti dal popolo ebraico nella storia, ma nel senso di riparare tutto il male della storia umana, di cogliere nella persecuzione del popolo ebraico l’occasione per superare il male nella direzione di un’evoluzione spirituale. Nel XX secolo, dopo la Shoah, il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas affermò che ogni essere umano è massimamente responsabile non solo del male che compie, ma anche e soprattutto di quello che subisce: la vittima è sempre responsabile della scelta tra vendetta e giustizia. Il messaggio universale contenuto in quell’eresia dell’ebraismo che è il cristianesimo non mi sembra poi molto diverso: il cristianesimo invita l’intero genere umano a “porgere l’altra guancia”, a seguire l’esempio di Gesù, morto per riparare il male, “in remissione dei peccati”. Analogamente l’islam prescrive a ogni fedele nel mondo lo sforzo (il jihad, nel suo significato originario) verso la perfezione morale: entrambe le religioni hanno quindi esteso a ogni essere umano uno degli insegnamenti che la tradizione ebraica riservava ai soli appartenenti al popolo eletto. Come sa ogni fedele, le tre grandi religioni monoteiste, che hanno offerto e continuano a offrire mille pretesti per la guerra, contengono in verità un comune imperativo di pace. Per chi crede in Dio, si tratta di riconoscere l’elemento divino presente nella propria umanità, di assecondarlo nel tentativo di divenire “giusti” o “santi”. Ma io non credo in Dio. E tuttavia ritengo che a chi voglia comprendere lo scenario politico contemporaneo, soprattutto se è uno studioso di filosofia, occorra prendere le ragioni della fede molto sul serio. Con serietà posso allora dirti che da sempre, e ancora di più in seguito all’11 settembre 2001, anche se non credo in Dio, quell’imperativo di pace ha risuonato in me nella sua immediatezza e universalità ogni volta che ho incontrato un volto umano. Astenersi dal male, fare il bene. Di fronte alla vulnerabilità dell’altro, non assecondare la propria umanissima pulsione al sadismo o all’indifferenza, ma adoperarsi piuttosto per la cura. Di fronte alla violenza subita, non assecondare la propria umanissima pulsione alla vendetta, ma trasformare l’indignazione in desiderio di giustizia. Riconoscere l’altro anche a costo di mettere in discussione parti importanti di sé – l’appartenenza a un popolo, l’adesione all’educazione ricevuta, l’obbedienza a quelle che si riconoscono come le proprie autorità.
Agli albori della filosofia occidentale, Aristotele definì l’umano come “animale politico”: a partire dalla nascita, infatti, gli esseri umani hanno bisogno della cura dei propri simili, sono coinvolti in relazioni di potere, dipendono per la loro sopravvivenza da una comunità politica che li protegga dalle altre comunità politiche. Per Aristotele non gli esseri umani, ma solo le bestie brute, oppure gli dei, possono fare a meno di un’appartenenza politica. Per Aristotele non gli esseri umani, ma soltanto gli esseri impolitici – in questo caso, gli dei – possono fare a meno della logica di guerra che sembra essere iscritta come un destino nella storia dell’umanità. Su questo punto filosofia e religioni possono quindi trovare un accordo: ai fini della pace non è sufficiente restare umani, ma occorre essere disposti a sacrificare parte della propria umanità: sforzarsi, ogni volta, di diventare “altro-che-umani” pur sapendo di non essere altro che umani. È un compito arduo, e tuttavia possibile: questo mi ha insegnato chi, in Palestina, nonostante tutto, con coraggio e determinazione “combatte” per la pace. E questo, cara lettrice, caro lettore, è il messaggio che sentivo l’urgenza di portare anche a te.
Un aquilone con i colori della pace, un simbolo di speranza per le strade di Hebron.
fine
Altri articoli di Lorenzo Bernini su Nazione Indiana
Link:
www.shovrimshtika.org/index_e.asp
http://guerrillaradio.iobloggo.com/1789/restiamo-umani-di-vittorio-arrigoni
http://coalitionforjerusalem.blogspot.com/
www.almubadara.org/new/english.php
http://rete-eco.it/it/home/archivio/1085-israele-palestina-un-po-dottimismo.html
http://invisiblearabs.blogspot.com
www.reteblu.org/adesso/pezzi/SOCIETA’%20E%20CHIESA/INTERVISTA%20PADRE%20IBRAHIM.htm
La seconda parte del diario di viaggio di Lorenzo Bernini, pubblicata oggi qui sopra, non è stata a lungo visibile a causa di un problema editoriale (il formato delle didascalie [caption] delle fotografie in wordpress).
Me ne scuso con l’autore e con i lettori.
E’ un articolo che fornisce informazioni e considerazioni interessanti – come per es. parere di Barghouti, che condivido.
Condiviso inoltre lo spirito che lo guida, l’esigenza del pacifismo.
Mi limito quindi a evidenziare alcuni distinguo tra quanto scritto nel post e quel che “vedo” io di Israele e Palestina.
Credo che il Restiamo umani di Arrigoni, molto semplicemente, si riferisca al fatto che le condizioni in cui vivono i palestinesi da almeno 42 anni – ma in verità occorrerebbe risalire al 1947-48, quando metà circa della popolazione palestinese è diventata profuga per la pulizia etnica israeliana – non possono essere accettate da chi voglia dichiararsi umano. Sono condizioni disumane, o al massimo sub-umane. E Israele, e l’Occidente, con la complicità almeno in parte dei Paesi arabi, ha dimenticato cosa sia l’umanità con i palestinesi.
Non c’è un riferimento all’agire pacifista, nel Restiamo umani, a mio avviso. Non nel senso che Arrigoni non sia pacifista ma nel senso che il significato della frase si “ferma prima”.
Sulle parole “intricata” e “conflitto israelo-palestinese”.
Credo che la situazione in Israele-Palestina sia solo in apparenza intricata. E credo che usare la locuzione “conflitto israelo-palestinese”, così come il termine guerra, sia rischioso – rischi di complicare la comprensione della situazione.
Non mette in evidenza il fatto che non ci sono due popolazioni o due stati in guerra ma una occupazione militare funzionale a un sistema di apartheid perseguito con la pulizia etnica. C’è cioè il dominio territoriale di una popolazione-stato su un’altra popolazione, che è stata concentrata e controllata in un’area a parte, secondo gli schemi dell’apartheid – quella oltre il Muro.
L’affermare la condizione di dominio di una popolazione su un’altra penso esprima meglio dei concetti di guerra o conflitto la situazione asimmetrica che si è venuta a creare in Palestina.
Segnalo un importante evento, informativo soprattutto, che si terrà a Torino il 18 Settembre, trasmesso in diretta web anche in inglese.
Saluti.
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ROMPIAMO L’ASSEDIO AI DIRITTI DEI PALESTINESI
Organizzato dal movimento PER IL BENE COMUNE
* ore 21:
Proiezione video realizzato durante la Carovana della Speranza entrata in Gaza nel mese di maggio ’09.
Collegamento con la città assediata di Gaza, da cui parleranno Vittorio Arrigoni della Ong I.S.M. ed il Ministro Osama Al-Esawi.
* ore 22:
Interventi di
Elvio Arancio, coordinamento PBC;
Gianni Flamini, scrittore e giornalista;
Mohammad Hannoun, Presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia;
Gerry MacLochlainn, del Sinn Fèin, vice capo della carovana europea;
sen. Franco Turigliatto, di Sinistra Critica;
Presiede Monia Benini, Presidente PBC
Ospiti d’onore i componenti della delegazione italiana che ha partecipato alla Carovana della Speranza per Gaza. Sarà in distribuzione un DVD con il filmato sulla Carovana e il materiale documentario che verrà utilizzato da un comitato internazionale di giuristi per portare il governo e l’esercito israeliani di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia.
Il link:
ROMPIAMO L’ASSEDIO AI DIRITTI DEI PALESTINESI
http://www.perilbenecomune.org/index.php?mod=blabla&menu_id=&news_id=166&myaction=read_news
Ringrazio di cuore Giusi e L. Tedoldi per le belle parole con cui hanno commentato la prima pare di questo mio articolo e in generale il mio lavoro.
Segnalo che questa notte alle 0.14 su rai 3 andrà in onda un documentario sull’operazione Piombo fuso.
E segnalo anche il rapporto ONU sull’operazione Piombo fuso, presentato ieri a New York, in cui si condannano tanto l’esercito israeliano quanto i guerriglieri palestinesi di Gaza che lanciano razzi quassam sui civili Israeliani per “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”:
http://www.repubblica.it/2009/08/sezioni/esteri/medio-oriente-54/rapporto-onu/rapporto-onu.html
Sono d’accordo con Lorenzo Galbiati riguardo all’asimmetria che caratterizza questo conflitto. (Anche nell’articolo ho cercato di fare emergere la differenza tra una potenza occupante e una popolazione occupata).E devo dire che anche a me convince il giudizio di Mustafa Barghouti. Ma resto convinto che l’unico atteggiamento utile e sensato contro lo stato di fatto attuale sia quello pacifista (anche Mustafa Barghouti esprime una posizione non violenta), unito alla ferma condanna la violenza sugli inermi quale che sia la parte da cui provenga.
Riporto qui di seguito il parere, a mio avviso interessante, del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Žižek, che mi è capitato di leggere in questi giorni:
“Quando qualunque protesta pubblica contro le operazioni delle forze di difesa israeliane nella West Bank viene sistematicamente denunciata come espressione di antisemitismo e – almeno implicitamente – messa sullo stesso piano di quanti difendono la Olocausto, quando cioè l’ombra della Olocausto viene continuamente evocata per neutralizzare qualunque critica delle azioni militari e politiche di Israele, non è sufficiente insistere sulla differenza tra antisemitismo e contestazione di particolari misure dello Stato di Israele. Si dovrebbe invece fare un passo ulteriore, e affermare che in questo caso è lo Stato d’Israele che profana la memoria delle vittime dell’Olocausto, manipolandole con cinismo, strumentalizzandole per legittimare le attuali misure politiche. Ciò significa che si dovrebbe rifiutare sistematicamente l’idea stessa che ci sia un legame logico e politico tra l’Olocausto e l’attuale situazione di tensione tra israeliani e palestinesi: si tratta di due fenomeni completamente diversi, uno parte della storia europea della resistenza di destra alle dinamiche della modernizzazione, l’altro invece che si configura come uno degli ultimi capitoli della storia della colonizzazione. D’altro canto, l’obiettivo più difficile per i palestinesi è accettare l’idea che il loro vero nemico non siano gli ebrei, ma gli stessi regimi arabi che manipolano le loro condizioni proprio per impedire questo passaggio, per prevenire cioè la radicalizzazione politica al loro interno. ”
“La scelta per i musulmani non è quella tra fondamentalismo islamo-fascista e doloroso passaggio al “protestantesimo islamico”. Esiste una terza possibilità che è già stata tentata: il socialismo islamico. […] esiste quindi una “questione araba” quasi allo stesso modo in cui c’è una “questione ebraica”. La tensione arabo-israeliana è la prova lampante che la “lotta di classe” prosegue nelle forme differite, falsate e “postpolitiche” del conflitto tra il “cosmopolitismo” ebraico e il rifiuto musulmano della modernità. Detto altrimenti, non potrebbe essere che i rigurgiti antisemiti del mondo odierno siano la conferma della vecchia lezione di Marx che l’unica “soluzione” di questa “questione” è il socialismo?”
(Slavoj Žižek, “Benvenuti nel deserto del reale”, pp. 135-136 e 136-137).
Mi fa piacere il tuo commento,
@Lorenzo Bernini
e noto che siamo ancora più d’accordo di quanto pensavo, visto anche il pezzo di Zizek che hai trascritto (nell’articolo sei più giornalistico e vien fuori meno la tua opinione).
Quindi di nuovo mi concentro sui punti critici, di possibile dissenso.
Che sono… uno. Hai citato il rapporto ONU dove si parla tra le altre cose di crimini di guerra e forse contro l’umanità sia da parte di Israele che di Hamas.
Vengo da un altro blog dove ho contestato proprio questo modo di sintetizzare il rapporto ONU. A cosa serve dire che entrambe la fazioni hanno compiuto quei crimini? Fare un rapporto dettagliato per poi dire: crimine A sì, crimine B anche, da parte di entrambi?
A dare l’idea di una guerra tra pari.
Eppure noi sappiamo che invece è stata una carneficina di un popolo pianificata per motivi elettorali e compiuta deliberatamente colpendo in gran parte i civili, ambulanze, scuole Onu, magazzini alimentari, cortei dei funerali compresi. La parte offesa, già rinchiusa da tra anni entro un muro cui si accede sotto controllo israeliano, era in stato di catastrofe umanitaria già prima dell’attacco (oltre il 50% di bambini anemici, mancanza di medicine di base ecc.). Ora, se questa parte reagisce col lancio di razzetti artigianali (tanti, ok) che causano in totale 4 morti e che non possono neanche volendo colpire obiettivi militari vista la loro natura, come possiamo poi livellare tutto e limitarci a dire: entrambe hanno commesso gli stessi crimini? Non ti sembra un depistaggio, una grande ingiustizia, un modo per non capire quel che è successo?
Io mi sono convinto che quei rapporti ONU, come quelli di Amnesty non servano a nulla.
1. Non fanno seguire sanzioni a chi fa i crimini
2. Mettono i crimini della vittima sullo stesso piano di quelli dell’oppressore, dato che arrivano a conclusioni del tipo: c’è stato il crimine, sì o no? senza quantificare, senza distinguere tra chi il crimine ha commesso premeditatamente e chi ha reagito al crimine sì con un altro crimine ma di portata infinitamente minore e senza poter far altro tipo di azione di guerra né potendo contare su altri per essere difeso.
Insomma, l’assurdo è che con questi termini del diritto, è un crimine contro l’umanità fare un genocidio ma anche sparare un razzo su civili da chi il genocidio subische. Insomma, è tutto un crimine un conflitto armato. E allora se è così questi rapporti servono a chi è forte e commette soprusi.
Forse sta a noi quindi evitare di riportarli limitandoci a dire – inevitabilmente – che tutt’e due le parti hanno commesso quei crimini.
Maglio riportare i pezzi dove fanno i distinguo sull’agire delle due parti, non credi?
@lorenzo galbiati
in effetti su questo punto siamo in dissenso, almeno parzialmente.
mi spiego: allo stato attuale credo anch’io che la comunità internazionale, e l’ONU, siano di fatto complici della situazione in atto.
ritengo però che sia necessario condannare ogni uccisione di civili, da qualunque parte venga, perché non condannarla equivarrebbe a giustificarla.
esistono mezzi con cui la comunità internazionale potrebbe attivamente esprimere il proprio dissenso contro le attuali politiche di Israele: forme di boicoattaggio che alcuni paesi stanno già attuando.
la giustificazione degli atti terroristici di Hamas, il distinguo tra il terrorismo palestinese e quello israeliano, a mio avviso non contribuisce affatto alla pace, me rischia al contrario di fare il gioco della destra israeliana che, come sai, già accusa di antisemitismo e di odio anti-israeliano chiunque prende le difese del popolo palestinese.