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Elogio dello stile reticente, disseccato, inorganizzato, ovvero dell’assenza di stile

di Mauro Baldrati

La questione dello stile è da sempre un elemento di pesatura rilevante per gli scrittori. Esistono pulsioni, risonanze, esiste, forse, il tempo; esistono concatenazioni di pensieri – siano essi coscienti, palesi, sinceri o menzogneri – che cercano di spiegare (ma anche di negare) la realtà. Scrivere produce un movimento forzato, più o meno lineare e indifferente ai mimetismi, alle reticenze, alle finzioni di chi scrive, che organizzando ordini e segnali cerca di mettere in contatto le concatenazioni, attraverso i flussi della narrazione. E produce verità, perché la natura della verità è di essere prodotta: la verità del canto, del conflitto, del segreto, del vuoto pneumatico. La verità del racconto. Questo movimento costituisce la condizione della sua comunicazione, attraverso la forma.

La forma – lo stile – diventa talvolta contenuto. Non per l’abbellimento (il cosiddetto “bello stile”), o per l’estetica fine a se stessa. Prendiamo per esempio la comunicazione non verbale: parliamo con una persona incontrata per strada, che con la voce ci sta comunicando un contenuto: è contenta di vederci, si informa sui fatti nostri ecc. Ma con gli occhi, coi movimenti delle mani – con lo stile – ce ne sta comunicando un altro: quanta fretta ha di continuare per la sua strada. E’ un contenuto non dichiarato apertamente, non descritto, un contenuto nascosto. Un contenuto spiegato e interpretato dallo stile.
Ci sono scrittori reticenti, che non dicono, che apparentemente rifiutano di comunicare contenuti, perché la loro frase contiene dei codici nascosti, dei silenzi, che lasciano intuire i punti di vista. Certi romanzi di Simenon sono così reticenti che l’economia stilistica sembra rasentare l’avarizia, ma è proprio dai silenzi di alcuni personaggi che si intuiscono verità possibili. Noi lettori possiamo scrivere quella pagina bianca che è l’angelo della morte Chigurh in Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy.

In un breve e prodigioso saggio del 1964, Marcel Proust e i segni, Gilles Deleuze scrive: “Lo stile di Proust non si propone né di descrivere né di suggerire: come in Balzac, è esplicativo, spiega con immagini. E’ un non-stile, perché si confonde con il puro ‘interpretare’, e moltiplica i punti di vista sulla frase, e all’interno della frase”.
Dal canto suo Proust in Contre Sainte Beuve definisce la scrittura del suo maestro “stile inorganizzato”: “In Balzac coesistono non ancora assimilati, non ancora trasformati, tutti gli elementi di uno stile a venire, che ancora non esiste”.
Dunque forse anche il suo stile è inorganizzato? I suoi periodi lunghissimi, senza punti, segnati dalle semi-pause del punto e virgola, scandiscono il senso di soffocamento causato dalla malattia, l’asma. Con la sua frase inimitabile – eppure così imitata – sembra volere acquisire, assimilare – lui, l’angelo della notte – i luoghi, i personaggi, i colori, gli odori, i fiori, i nomi, ma senza affermare, senza organizzare, semplicemente interpretando la voglia di luce, di aria fresca, di libertà del bambino recluso nella gabbia della famiglia borghese (dove bussano le potenze diaboliche di Kafka), una concatenazione di universi che non comunicano tra loro.

Stile apparentemente opposto, “stile disseccato”, come lo definisce il Wagenbach, quello di Kafka. Usa la lingua povera degli ebrei di Praga, minoranza sradicata dalla terra che ha subito una urbanizzazione forzata, quella lingua minore che dissecca dall’interno la “lingua di carta” maggiore – il tedesco imposto da un’altra minoranza dominante – per la sua macchina di scrittura totale, azionata da uno stile antilirico, antiestetico, antisimbolico, dove persino il Narratore, come noi lo intendiamo, sembra puntare alla propria estinzione: “Non ho neppure bisogno di andare proprio io in campagna, non è necessario. Vi mando il mio corpo vestito” (Preparazione di nozze il campagna).

Stili disseccati, stili inorganizzati, non-stili, stili reticenti: “In che modo l’assenza di stile può diventare la forza geniale di una nuova letteratura?” si chiede Deleuze. E se qualcuno obietta: ma come può esistere un’assenza? Come può uno stile essere un non-stile? si può riformulare così l’enunciato deleuziano: quanto può uno stile non digéré, non encore transformé essere trasversale, non autoritario, essere la voce narrante di quella “confusione terribile” incurante del tutto, dell’armonia, della pianificazione, della mediazione, cioè in che modo lo stile che non si cura della propria affermazione, della propria organizzazione, può divenire pura intensità?

In Italia uno scrittore reticente è Marino Magliani. Nei suoi romanzi liguri, Quella notte a Dolcedo, La tana degli alberibelli, la terra diventa personaggio con poche righe diffuse, non definitive, non descrittive, perché nessun significato è mai esplicito, e nessuna idea è definitivamente chiara. I racconti procedono per strati narrativi, come se ricalcassero gli strati geologici della terra. E i dolori dei narratori, Hans, Jan Martin, sembrano interpretare in maniera inconsapevole il dolore della terra saccheggiata e vilipesa dalla speculazione.

Se la scrittura ha la capacità di spiegare la terra, non lo fa descrivendola, ma interpretandola, perché la sua idea si nasconde in ogni silenzio, in ogni ombra.

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17 Commenti

  1. “In che modo l’assenza di stile può diventare la forza geniale di una nuova letteratura?” si chiede Deleuze.

    In una società priva di genio, governata, dall’assenza di stiile…

  2. Bella riflessione, Mauro.
    Però io sono convinto che non esiste il non-stile. Non solo: sono convinto perfino che non esistono il vuoto, il silenzio, l’assenza, il nulla: categorie convenzionali per esprimere speciali stati d’animo e particolari espressioni della natura.

  3. Io invece pensa che il non-stile è ampiamente diffuso in letteratura, mentre quando c’è si riconosce subito, s’intuisce, si percepisce chiaramente. Come quando si vedeva una squadra allenata da Nils Liedholm. Si riconosceva subito lo stile. Lo stesso si potrebbe dire delle squadre di Sacchi. Invece ci sono molte squadre senza stile

  4. Di Monaco, come è possibile escludere cosi nettamente quello che Sparzani definisce “non-stile? L’assenza, il vuoto non implica le dimensioni dello “spazio” e del “tempo”, possono invece iscriversi in quella dello “spirito”, dell’energia esistenziale, anche se sopita.

  5. A mio opinabile giudizio, questo intervento di Baldrati mi pare uno dei migliori pubblicati su NI delle ultime settimane. In qualche modo (paradosso?) ha un suo stile peculiare, a proposito di stile.
    Non sono argomenti nuovi, lo sappiamo, mi sembrano tuttavia interessanti alcune correlazioni, alcuni spunti. Come quello su M.Magliani, sì, lo credo anch’io, ho le medesime idee su di lui, o dovrei dire sensazioni forse.
    Già interpetrare lo stile è faccenda ardua, facile a digressioni e tangenti, nondimeno a paroloni e argomentoni scevri di contenuto reale (talora, non sempre, chiaro), figuriamoci l’interpetrazione del non-stile. Osservarlo dipende dalle lenti degli occhiali che uno porta, scrutarlo inerisce alla capacità di possedere già una certa formazione all’interno del non-stile. In qualche modo è fissare il vuoto apparente per convertirlo in un messaggio (reale, non fittizio, non immaginifico) che possa essere accessibile e comprensibile anche a coloro che quelle lenti – per formazione dicevo o per fase empirica della vita che talvolta offusca la vista – non le hanno.
    Quindi, i miei complimenti a Baldrati che si è inoltrato in un terreno che può essere assai fangoso nel confronto diretto con gli altri.

  6. Bello, mauro!
    Due cose su Kafka, giusto per rompere un po’ le palle:-)))
    Il tedesco da cui prende le mosse io non lo chiamerei “povero”. Si tratta di una lingua distinta dal suo essere parlata da una minoranza composita etnicamente, da una minoranza in una minoranza etnica (ebrei che parlano tedesco vs ebrei che parlano yiddish), e da quel che la distingue in termini di classe (borghese). Insomma il tedesco borghese degli ebrei praghesi da cui Kafka parte, può essere anche una lingua “ricca” in quanto colta e coltivata, bella e limpida in quanto gode degli effetti di quell’ insularità che la protegge dalle contaminazioni del parlato volgare (più o meno gli stessi che rendono splendido l’inglese di chi l’ha imparato nelle ex colonie e ci regala tanti speaker indiani alla BBC) e infatti questo traspare nelle scritture coeve di tanti suoi colleghi, bravi o meno bravi.
    Quello che la “impoverisce” o appunto la disecca è Kafka stesso. E’ lui che di quella lingua coglie il carattere doloroso di chiusura e di distanza, che ne smaschera la povertà. E al tempo stesso porta agli estremi la sua limpidezza in qualcosa che con una dimensione estetica in cui ci si possa autocompiacere (il bello stile, il parlar bene) non c’entra più niente. Che la conduce sul spietato terreno dove diventa misura di verità.

    Dopoddiché – forse dico una cosa rozza- io non so se la definizione di Deleuze del non-stile non sia in qualche modo una sorta di esagerazione paradossale che ha senso solo se si parte da un’idea di stile data e dominante in contesti dove predomina una concezione molto da letterati della letteratura e dello stile, come la Francia è non meno dell’Italia. Perché se Proust è non-stile, che cosa sarebbero allora Melville o Dostojevskij?

    Quindi secondo me va presa in questo senso, sennò stiamo inutilmente a discutere se posso o meno esistere veramente un non-stile.

    Sul punto basilare però sono d’accordissimo: la qualità profonda di un’opera letteraria e persino quella strettamente attinente alla sua scrittura, non coincide con le sue visibili qualità stilistiche, anche se si esaminassero con una lente più sofisticata del “bello stile” (che può presentarsi anche come il suo apparente contrario, come ad esempio avviene con le estetiche neoavanguardiste). Ma è qualcosa che ha a che fare, appunto, con la verità di quello stesso testo. E qui ….”sso cazzi”

  7. Sì, il concetto di non-stile è certamente soggetto a qualche interpretazione o fraintendimento. E’ Deleuze che l’ha tirato fuori, con una delle sue innumerevoli, geniali, provocatorie riflessioni: “E’ possibile affermare che Proust non abbia stile?” si chiede nel testo citato. Ma riprende a sua volta le osservazioni di Proust su Balzac, sulla sua non-unità, ossia di uno stile che diviene, che non si preoccupa della progressione codificata, del “progetto” stilistico; non stile quindi, o assenza di stile come superamento, come disinteresse alle scolastiche che stanno dietro alle letterature maggiori, rassicuranti, dominanti, le letterature dei padroni. Proust non ha certo uno stile lineare, pianificato. Inserisce delle espansioni che sembrano amplificarsi di continuo, per decine di pagine, e ci accorgiamo che non siamo più nel territorio solito, parlava di personaggi e stiamo leggendo pagine sui fiori, e quasi non sappiamo come diavolo ci siamo arrivati; e senza descrizioni, perché sta impersonando i fiori, li sta spiegando incrociando i punti di vista. Lo stile quindi come collegamento di frammentazioni, di macchine. In questo senso lo stile è “assente”, perché cerca di puntare all’intensità – e va detto che forse il modello ideale di questo stile-intensità per Deleuze è, credo, il Céline dei Guignol’s Band, concerto di “musichette” neanche orecchiabili, macchine diverse che procedono a velocità diverse, su strade disuguali.

    Tutto questo secondo me si giustifica se consideriamo lo stile di un’opera non solo come un mezzo per veicolare contenuti, ma come contenuto in sé, perché permette di trasformarsi a sua volta in contenuto, il contenuto del divenire, il contenuto dei contenuti taciuti, nascosti, segreti. Per dire: cosa si nasconde dietro ai dibattiti destinati al fallimento sullo Strega, sui “tradimenti” di alcuni scrittori, cioè dibattiti tutti interni a quelle logiche di potere che si vorrebbero contestare? Io credo che gran parte della letteratura sia fatta di contenuti nascosti, che viaggiano sulla forma.

    Interessanti le tue osservazioni sul tedesco di Praga, Helena. Mi pare che tu definisca quel tedesco non una lingua povera, ma limpida, quasi perfetta. In effetti “povera” forse è un termine che necessita di precisazioni. Non credo sia da intendersi come “inferiore” o scorretto, ma “altro” da quel tedesco straniante, “di carta” appunto, artificioso, che era imposto dalla minoranza dell’Impero. In questo senso credo che tu abbia perfettamente ragione, è Kafka che la dissecca ulteriormente dall’interno, e ne fa una lingua minore.

  8. Figurati, Mauro. avevo capito, condiviso e apprezzato.
    Mi sembrava solo utile contestualizzare e magari pure tirare un po’ più giù a terra il discorso di Deleuze. Non per svilirlo. E’ che lui spesso dice cose molto sensate e ancora utilissime con un linguaggio che può dare adito a fraintendimenti, fra cui quello su sti francesi talmente complicati che ti viene il dubbio che siano più fumo che arrosto.
    Mentre hai ragione che questo pensiero ci riguarda (vedi anche il bel montaggio di Francesco sul “divenire-negro, divenire-donna” ecc).
    Infatti la ricerca di uno stile come marchio è problematico, secondo me. Oggi va incontro a una fruizione tipo “brand” che peggiora le cose, ma la questione principale è che l’affermazione di potere dell’autore sul proprio testo, il “guarda come sono bravo io che scrivo”. E questo, per quanto abbiano entrambi uno stile riconoscibilissimo, non vale in effetti né per Kafka, né per Proust.

  9. Chiunque inizi a scrivere, sin dal primo rigo è obbligato ad avere uno stile. Anche se per paradosso non vorrà avere stile, lo avrà. Soltanto chi non scrive non ha stile. Dopo di che, un concetto di non-stile può esistere, ma espresso appunto attraverso uno stile. Non se ne esce. Lo stile rappresenta l’incarnazione dell’idea, la forma attraverso cui chi scrive vede il mondo: dunque lo stile è lo scrittore, perchè lo scrittore è chi dà forma alle idee. Lo stile rappresenta le impronte digitali, il DNA dello scrittore, anche se uno scrittore può cambiare stile – o forse meglio, registro. Il problema che si pone è semmai un altro: uno stile superiore al contenuto. Il primo esempio che mi viene in mente al proposito è Hemingway, sempre impeccabile stilisticamente (una volta che si accetti come impeccabile il modo in cui egli scrive, chiaro), non altrettanto contenutisticamente, dove talora risulta stanco o ripetitivo o bolso, specie nei romanzi, specie negli ultimi. L’affermazione di Deleuze, che Proust non abbia uno stile (anzi, che abbia un non-stile) è accettabile solamente nel senso adombrato da Baldrati, ovvero come un superamento di determinati schemi accademici, ed è quindi una boutade. Proust è lo stile in prosa per definizione. Kafka, il suo opposto, è una sorta di Proust passato sotto l’acido muriatico, e possiede anch’egli uno stile formidabile proprio perchè questo stile aderisce in profondità, alla perfezione, come una muta subacquea, all’essere/Kafka. Pensiamo a Wallace: la sua mente labirintica, ossessiva, dubbiosa, enciclopedica, è esternata alla perfezione dal suo stile. Pensiamo a Gadda, alla sua coltissima nevrosi. Pensiamo a Conrad, al suo girare in tondo. Pensiamo a Dostoevskij, alla sua “fretta”. Pensiamo alla maestosa, calma possanza di Tolstoj. Pensiamo alla ricchezza shkespeariana, alla sintesi dantesca, alla visionarietà di Rimbaud, alla lingua fratta di Celan, a quella ellittica di Emily Dickinson. Eccetera eccetera.
    ps: molti pessimi scrittori dei quali si dice che non hanno stile, in realtà purtroppo ce l’hanno: è uno stile brutto. Sarebbe bello, benché anti/democratico, se chi non ha stile (anche dopo molto esercizio e molti tentativi) non potesse scrivere, non potesse inquinare la lingua. Ma prima che mi metta ad assomigliare a Maroni, mi fermo qua.

  10. Non dici cose sbagliate, Enrico Macioci, anche se “stile” non è la stesso di “forma”. Quando viene prodotta la verità attraverso la scrittura, diventa forma. E ha diverse evoluzioni, diversi stili possibili. E non considero una boutade la ricerca di Deleuze. Non-stile può essere una forma che si esprime con intensità assoluta, come lui, per esempio, la vedeva nei Guignol’s Band; sono convinto che, se avesse ascoltato musica in tempi recenti e avesse avuto certi gusti, i suoi gruppi sarebbero stati i Trobbing Gristle, i PIL, i gruppi dell’albun No New York; non-musiche in un certo senso, per alcuni rumori, casino. Ma pure intensità musicali. Dirai, ma anche questi sono stili. Però non è una questione di definizioni. Può esistere una scrittura che non si preoccupa dello stile definito, compiuto, che non “afferma” che la sua missione è veicolare contenuti che abbiano una valenza di attualità, sociale, di denuncia, e non è interessata né a stupire il lettore, né a rassicurarlo, né a sfidarlo. Che è quanto produceva Kafka. Neanche voleva pubblicare, semplicemente “esisteva” come macchina totale (e queste sulla macchina sono tra le più belle pagine di Deleuze), non poteva neanche sposarsi, doveva essere scapolo perché il matrimonio avrebbe indebolito la macchina (e queste pagine di Deleuze sulla potenzialità rivoluzionaria dello scapolo in Kafka sono prodigiose). E tu di nuovo dirai: ma anche questo è uno stile! E io ti chiedo: ma perché dobbiamo avere questa ansia di affermarlo ad ogni costo?

    E vorrei anche raccogliere il tuo invito, Helena, a scendere un po’ sulla terra. Non è che dobbiamo concepire solo scritture complicate e mezzo illeggibili, periodi lunghi quattro-cinque pagine (come ce ne sono in Proust) per essere sperimentali. Kafka non scriveva certo così. Però nel pezzo ho fatto l’esempio di Magliani. Mi colpiva questo suo fare entrare il territorio ligure nei romanzi senza descrivere. Poi ho aperto il libro di Deleuze su Proust e ho letto che le sue non sono descrizioni. Perdio, una luce accecante. Volevo scrivere sui silenzi in letteratura, sul superamento di questa tendenza a offrire al lettore testi già letti (che è la base, secondo me, del best seller), a offrirgli contenuti palesi, per confortarlo, per non affaticarlo. Perché è già stanco, perché siamo tutti stanchi. Invece mi interessano le scritture che possono essere riscritte dal lettore, in parti, o in parte. E questo si può fare anche nei noir, Manchette, per dire, lo faceva. E si ottiene anche con uno stile personale, uno stile semplice, elegante, perché no, frutto di una lunga ricerca, di una lunga disciplina, non solo coi tre puntini di Céline; le ricerche di Deleuze non sono verità dogmatiche, anzi, sono pagine talvolta poco comprensibili, ma che mi accendono luci vivide, perché posso riscriverle. Mi aiutano e cercare del mio, anche se talvolta non capisco cosa diavolo sto scrivendo e perché.

    A quest’ora sono un po’ a brandelli per varie storie, e quindi non credo proprio di scrivere cose molto limpide, però vorrei concludere con una considerazione che sogno di fare da tempo, ma è così complicata, nella sua semplicità, che non mi decido a svilupparla in un articolo marziano: e cioè che la letteratura, questa letteratura, la nostra, del novecento, dell’ottocento, è un prodotto della nostra specie vivente in questo sistema; ora tutto sta arrivando alla fine, perché il sistema è fallito e il mondo se ne va verso la rovina. E’ un sistema che prevede che lo scrittore sia anche un professionista, o comunque uno specialista, e che possa o addirittura debba soffrire, perché alla base c’è una difficoltà psicologica di vivere la vita reale, gli affetti, l’amore, l’amicizia, la modestia, la semplicità ecc ecc. Ovvero, una sublimazione della realtà, che ha prodotto dei capolavori. Ma se cambieremo, se cioè punteremo alla vita, alla comunità, al nostro rapporto con gli altri, e con la natura, e allevermo i nostri figli in comunità e non al chiuso della famiglia: se cercheremo tutto questo, e quindi spariranno le guerre e nessuno guadagnerà più di quanto gli basta per vivere, la letteratura come la concepiamo oggi non avrà più senso di esistere. E lo scrittore non avrà più neanche un nome, una firma, un personaggio. A nessuno importerà più.

    Che è più o meno che quello che sognava Majakovskij quando girava per le fabbriche a declamare i suoi poemi nell’era iniziale dei Soviet, perché lui era come loro, era come gli operai, era un operaio.

  11. quella che lei definisce una considerazione in questo momento poco lucida, per la quale ci vorrebbe il coraggio di descriverla in un articolo marziano, credo sia la “cosa” tremenda che mi assale sempre più frequentemente quando leggo e rifletto sotto vari aspetti sullo stato della letteratura: mi pare di andare all’appuntamento con un funerale.
    per tornare allo stile: il non stile, l’assottigliamento della “presenza” dell’autore è secondo me uno stile molto potente. si spiega in parte con il fatto che il lettore non è più così tanto da educare com’era, sicuramente nell’800, e talora, a seconda dei diversi autori, come è apprso più di recente. io amo la scrittura spoglia, che mostra come delle insofferenze, delle dimenticanze, un’alzata di spalle dello scrittore che mi dice: veditela un po’ tu. non nel senso di “opera aperta”per cui mi invita a ricamarci su delle interpretazioni, ma nel senso montaliano: della stanchezza di fronte all’incomprensibilità. credo si tratti di stile quando questo “effetto” della scrittura produce comunque il piacere del testo. se non lo produce è fretta maldestra, è risposta a leggi di mercato. credo che l’aridità, la brevità possano coesistere con la potenza di forma e contenuto, possano essere gestite così bene ed elegantemente da costituire un tipo di estetica dei nostri tempi (peraltro manifestatasi a più riprese anche nel passato). diversa è la brevitas che non lascia segno. diverso è lo scrittore arido che non ha niente da dire, diverso ancora lo scrittore (apparentemente) reticente: questo è un vero professionista del non detto. questo è uno scrittore.

    l’articolo mi è piaciuto moltissimo. grazie.

  12. Confrontarsi con l’opera di Kafka non vuol dire trovarsi di fronte ai tradizionali modelli narrativi – che posseggono una corrispondenza strutturale fra contenuto ed espressione – ma piuttosto, come scriveva Baldrati, in presenza di una “macchina d’espressione”. Una macchina a sé stante, che sussiste in quanto autonoma, una macchina che diviene però “letteratura minore”.

    Secondo la definizione di Deleuze una letteratura minore non consiste nell’utilizzo di una lingua minore, ma nell’impiego che una minoranza fa di una lingua maggiore. Dunque Kafka non sceglie il ceco, nemmeno l’yiddish, ma il tedesco, lingua veicolare, lingua della burocrazia e del potere. Un tedesco che Kafka, secondo Deleuze, “trascina lentamente, progressivamente, nel deserto”.
    Ma questo cosa vuol dire? Provo a spiegare.
    Una letteratura minore segue uno sviluppo contrario e inverso a quello di una letteratura maggiore. In quest’ultima, scrive Deleuze, il processo creativo segue la direzione che va dal contenuto all’espressione: una volta trovato il contenuto si scopre la forma d’espressione che ad esso si adatta. Una letteratura minore, al contrario, nasce con l’enunciazione, e nasce priva di preoccupazioni legate a significati, metafore, simboli. Da questa scissione fra espressione e contenuto, probabilmente, emerge quello che potremmo definire un non-stile kafkiano, lo stile disseccato, la lingua del deserto. E questo è quello che scriveva Baldrati nel suo ultimo intervento.

    Ma c’è una motivazione dietro tale volontà espressiva?
    Per Deleuze, molto semplicemente, in una letteratura minore tutto è politica. Se nelle grandi letterature il fatto individuale tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali – mentre il contesto sociale serve solo da sfondo – per una letteratura minore assistiamo ad uno sviluppo differente: nessun aspetto di una letteratura minore fuoriesce dal grande sistema politico e sociale. Tutto è al suo interno e tutto si risolve nella collettività dell’enunciazione. Vale a dire che il momento in cui lo scrittore dice e scrive – anche se individualmente – costituisce già un atto collettivo, e di conseguenza politico. Da questi aspetti scaturisce la condizione rivoluzionaria di ogni letteratura minore e che Deleuze attribuisce soprattutto a Kafka: l’aggettivo “minore” non qualifica più il tipo di letteratura, ma le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura minore all’interno della grande letteratura. Il minore o la minoranza si pongono, secondo Deleuze, come la dimensione da cui diviene possibile ripensare, secondo modalità nuove, l’agire politico e le pratiche sociali – “servirsi della sintassi per gridare, dare al grido una sintassi” – in aperta opposizione ai sistemi di potere. É un grimaldello, insomma, che scardina dall’interno, un assalto al confine (come scrisse lo stesso Kafka), è l’aspirazione a raggiungere, attraverso il disseccarsi della lingua, un punto in cui il mondo sensibile e il suo stesso linguaggio smettono di essere un sostegno, ma spingono l’uomo verso l’indefinito e allo stesso tempo verso il pulsare del suo essere. Forse è proprio grazie a questo fattore rivoluzionario che Kafka continua a colpirci, a trascinarci nel suo vortice. La forza del suo non-stile, a mio avviso, sta proprio in questo.

    L’articolo mi è piaciuto molto e quindi ci tenevo ad intervenire, essendo oltretutto un affamato lettore di Kafka. Spero di essere stato utile, almeno un minimo. Saluti.

  13. Tutto viene letto da Deleuze in questa chiave rivoluzionaria, ma dov’è il riscontro a parte l’indubbia abilità di deleuze ad incantare con la sua indubbia cifra stilistica? Il Deleuze di Millepiani non è certo quello di Differenza e Ripetizione, dove ancora ci sono argomenti.

  14. “E’ un sistema che prevede che lo scrittore sia anche un professionista, o comunque uno specialista, e che possa o addirittura debba soffrire, perché alla base c’è una difficoltà psicologica di vivere la vita reale, gli affetti, l’amore, l’amicizia, la modestia, la semplicità ecc ecc.”

    nonscrittore (baldrati deleuze deluxe) divenire di-venire (come gli alberi che piangono quando lo studente guarda fuori l’albero che piange) e nonscrittore

    nonscrittore (minore mauro deleuze) deluso perché deluso contro l’icona pop-chic dello star-scrittore (vip -very important poet-
    )
    nondeleuze nei bestsellers (del corpo\\temporale che manda l’avatar e\o elettronimo in giro per la rete [dissocietà mediale] nonscrittore pret a lire (senza accento circonflesso) Prêt-à-lire délire délire – con verivari accenti.

  15. Un grazie – maggiore – a tutti :-]

    aparrag rock’n roll: non c’è delusione in realtà, direi piuttosto distanze preoccupate; e, nonscrittore (?!) what is?

  16. nonscrittore: è il ruminante super-patologico (che descrive non il soggetto ma ciò che fonda il soggetto e che è sempre qualcosa d’altro.)
    la macchina scritturale (sì) del s-oggetto (che scende al livello atomico o sale a livello galattico per farsi leggere lungo lo spettro del visibile e dell’udibile [in verità udibile è protesi all’invisibile e la vista interiore è protesi al non udibile] lungo salti quantici.)
    nonscrittore è insomma tutto ciò che è scritto ma non è scrittura.
    sembra tutto cerebrale, e infatti è anche cerebrale nel senso più stupido. prendi un bimbo che gioca coi pupazzi e (che) parla (da solo) ad alta voce la storia di quei pupazzi, registra la sua voce, riscrivi parola per parola: ci si avvicina alla nonscrittura.
    -ma trova un bambino che non giochi già con la videoscrittura, sennò quella è riscrittura-
    -poi c’è la scrittura tout court, ma quella non ti porta alla pazzia e quindi non è nonscrittura.-
    la nonscrittura, invece, può addirittura portare alla morte, ma non sempre, in genere il nonscrittore scrive dopo morto o al minimo di vita, nell’approssimarsi dell’agonia (sia dal feto alla vita \\ sia dalla vita al nulla.)
    comunque non è detto: quello che nonscrivi è come la mezza stagione, non c’è più, o meglio c’è al modo dell’assente

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antonio sparzani
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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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