Casa di risonanza
Il racconto dell’oggetto
di
Eugenio Tescione
Note scritte a proposito di una realizzazione dell’architetto Beniamino Servino 1
«Che io sia un oggetto della memoria è falso, almeno quanto è vero che la memoria sia fallace. Non sono neanche un oggetto di natura, sebbene alle sue implacabili leggi io sia sottoposto: essa infatti, implacabile e sospinta dal suo implacabile e lento connaturare, mi ha assorbito, mi ha trasformato.
Io sono un oggetto del pensiero che ha avuto la sorte di varcare la soglia dell’invisibilità e, diventato visibile e sensibile, è nato alle trasformazioni prodotte dall’area del vivente, quell’area che congiunge l’estremo della bassa probabilità a quello dell’assoluta certezza. In questa area della vita, ora, vedo rallentare il declinare verso l’estremo assoluto, poiché si sono presi cura di me.»
Che l’oggetto abbia parola è un fatto inscritto in quella categoria ampliata degli accadimenti che include la capacità d’ascolto del soggetto. La lingua dell’oggetto ha una grammatica e una costruzione sintattica legate da una fissità costituita, cioè interiore, nel soggetto che istituzionalizza, cioè rende esteriore, la certezza del legame significante-significato. L’oggetto ha parola poiché è e diventa contenitore di contenuti liberamente in esso riversati: i contenuti del soggetto che lo ha creato e del soggetto che lo ha usato, di quelli che lo vivono, lo riempiono immettendo in esso la loro vita individuale.
È dunque accaduto che, dimenticata come fosse stata rimossa la dinamica del vivente, il Padiglione e la sua Casa abbiano continuato a vivere su due livelli, i due soliti (e un po’ semplificati) collocati nello spazio che affianca le dimensioni del reale esteriore a quelle dell’interiorità soggettiva. E il rivederlo, verificare la sua vita svolta in autonomia, ha prodotto la visione della cesura esistente tra interno ed esterno, tra la fissità (comoda e fallace) della memoria e la dinamica di chi, messo al mondo, lo attraversa e ne è attraversato subendo e imponendo cambiamenti reciproci.
La memoria, quella fissata nel progetto della sua nascita come in un documento ritenuto immodificabile e certificante solo una sua genetica linguistica, è stata immediatamente sconfessata: in essa, così altera a difendere prerogative del soggetto creatore (in fondo arroccato sulla necessità di continuare a credere in sé per non diminuire la sua illusione narcisistica di creare il mondo), in essa, nella memoria, c’era la rappresentazione immobile dell’oggetto, una sua elevazione a monumento e dunque a una sua unica parola dotata di un solo significato. Essa, la memoria, così selettiva, aveva escluso la possibilità, anzi la certezza, che la vita, l’uso, la natura nelle quali la creazione deve collocare il creato, agissero inscrivendo l’oggetto nelle loro dinamiche.
Tutto è cambiato, intorno e dentro, tranne, per ora, la sua funzione. Ascoltare la vita vissuta dall’oggetto creato ha significato dunque seguire il cambiamento e precederlo, creare la trasformazione che la sua vita ha imposto e che la vita ha imposto ad esso. Non sono ritocchi da maquillage, che tendono a coprire con un trucco i segni della natura avanzante che si dispiega nello spazio e nel tempo. L’intervento, collocato sulla linea di un irrinunciabile, saggio e realistico rispetto della natura naturante, riguarda ciò che nel vivente, nello spazio e nel tempo, si modifica per ambientamento (adattamento) mediante le necessità, i bisogni, i desideri esprimibili solo nella raffinatezza aumentata di un linguaggio che meglio riesce a definirli.
L’Oggetto di Architettura quando si è mostrato, dopo tempo e spazio vissuti, ha parlato: aveva bisogno non di ripristinare (narcisisticamente) le esigenze del soggetto, ma di continuare ad usare la sua parola, la sua grammatica, evolvendola nella materia della sua natura, affinché questa sua materia creata non sfumasse come evoluisce in fumo ciò che si consuma, o come s’affievolisce nel silenzio una parola.
Il nuovo progetto non poteva snaturare interno ed esterrno, soggetto ed oggetto; doveva invece soddisfare l’esigenza di ripristinare la materia linguistica dell’oggetto, ricreare un legame con esso abolendo subdole istanze narcisistiche (che distruggono qualunque relazione) al fine di aumentare la sua capacità di parlare usando la sua propria vita, la sua esperienza del mondo reale. Come quando si corregge o si rassicura un bambino che, emozionato e impaurito, mostra sintomi di incertezza e teme di essere sopraffatto dalla realtà: gli si dice qualcosa con il suo linguaggio, e il suo linguaggio si amplia.
«Perché questa trasformazione è come una cura, è come un prendersi cura di me, e la cura è possibile solo nella tendenza a mantenere e rinforzare il legame; ora questa cura diminuisce la portata nefasta del caso, l’esito della mia immersione nella natura implacabile. Ora è placata poiché l’ho parlata e l’ho fatta mia: dalle finestre appare benigna, bello sfondo che spinge a dire che qui si può stare. Ora il caldo che consuma e il freddo che irrigidisce sono temperati, ora il buio non fa più paura: m’hanno fatto una coperta leggera, hanno steso un velo di luce.»
Nota
Pubblicato sulla rivista d’Architettura Abitare
Le fotografie contenute in questo articolo sono di Luigi Spina (1) e Vincenzo Caputo (2-3)
- 1999-2009 Casa con padiglione nella valle del fiume Volturno. Caiazzo [Caserta] con Barbara Cimino, Antonella De Lucia, Giovanni Ambrosio, Alfonso Dabanello, Angelica Di Virgilio, Giuseppe Corcione, Vincenzo Caputo, Luigi Tessitore. Caiazzo, centro di origine romana dell’entroterra casertano, sorge su una collina che degrada verso il fiume Volturno in una campagna fertile e verde. La edificazione estensiva della zona è riconducibile alla tipologia ricorrente della casa rurale in tufo con tetto a due falde con coppi; basamento in pietra e scale esterne. Il lotto, di quattro ettari, si sviluppa in leggero declivio ed è fittamente alberato in sommità. Il corpo di fabbrica della casa con padiglione si sviluppa in pianta su un rettangolo allungato [di 12 x 34 metri, 12 x 24 il padiglione e 12 x 10 la casa].↩
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vorrei inoltre segnalare a quanti di voi si trovassero a Mantova che domani,venerdì 11, alle 18:30 Aula Magna dell’Università Cherubino Gambardella, Beniamino Servino con Luca Molinari parleranno di PROGETTARE NUOVE CITTÀ A MISURA D’UOMO
effeffe
C’è una poesia nel testo e nelle foto, come memoria vissuta dell’oggetto.
Una foto mi piace moltissimo: sipario verde con ombra.
Grazie per “la belle promenade” a Caserta e dintorni
tra colori, tufo, spazio, interno e esterno.
L’architettura entra in musica con il paesaggio, non dovrebbe
ferire il paesaggio, ma sposare l’ambiente, essere nella tradizione
e puntare verso il futuro.