Sullo Shema e il profeta martire
[Pubblico il saggio di un teologo dell’ebraismo apparso sull’ultimo numero della rivista Qui. Vi si toccano questioni importanti, come la guerra civile interna ai monoteismi, tra la religione costantiniana – la religione dell’impero – e la religione della comunità. Di questa guerra civile, in Italia pare che non ci sia traccia. In ogni caso, essa dovrebbe interrogare anche i non credenti, così come il concetto di martirio, il più estraneo dei concetti per una persona che, come me, non crede se non nell’unica vita. A I]
Una riflessione ebraica nel 26° anniversario del martirio dell’arcivescovo Oscar Romero
di Marc H. Ellis
Ogni mattina inizio la giornata pregando: un’eclettica serie di versetti tratti da preghiere tradizionali ebraiche. Concludo con lo Shema, l’affermazione che gli ebrei, che io, abbiamo udito la parola di Dio e Dio è uno. “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.”
Lo Shema è la cosa più vicina a un credo che gli ebrei abbiano; si trova in Deuteronomio 6,4-9. È un testo a fondamento dell’offerta dell’alleanza; sigilla l’alleanza nella memoria e nell’abbraccio. Come la maggior parte degli ebrei, lo recito da quando ero bambino. E oggi la mattina, quando i miei figli si svegliano, lo recito di nuovo con loro:
“Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.”
L’affermazione di Dio, l’affermazione dell’alleanza è anche, ironicamente, la preghiera del martire, la preghiera che gli ebrei recitano poco prima della morte. Essendo cresciuto all’ombra dell’Olocausto, ho saputo che lo Shema era la preghiera del martire prima di sapere dove trovarlo nella Torah; il suo contesto originario era in qualche modo trasposto in un tempo e un momento differenti. Questa preghiera mi fu insegnata come un atto in memoria di coloro che erano morti nell’Olocausto e qualora io, Dio non volesse, mi fossi trovato nella stessa situazione. Come per coloro che morirono nell’Olocausto, potrebbero essere queste le mie ultime parole sulla terra.
E non solo: io penso a questa preghiera come a una preghiera che sarà con me nel corso del mio cammino, che mi impegna alla giustizia e alla riconciliazione, anche a un costo personale. Anche per i miei figli penso alla preparazione a un impegno e alle sue conseguenze. Uno strano pensiero: preparare i propri figli a impegni che possono avere un costo.
Nel 1980 pensai a questa preghiera quando seppi che l’arcivescovo Romero era stato assassinato e, senza rifletterci, la recitai. A quel tempo mi trovavo nell’epicentro della teologia della liberazione in Nordamerica, la congregazione di Maryknoll, due religiose della quale erano state martirizzate in Salvador appena qualche mese prima.
La gente di Maryknoll conosceva bene quelle donne come compagne e amiche. Io avevo studenti in Salvador e alcuni di loro conoscevano l’arcivescovo Romero. Avevo appena incontrato Gustavo Gutierrez e altri che facevano parte del movimento. Iniziavo a immergermi nel mondo della teologia della liberazione, un mondo che poneva l’accento sul Dio della Vita.
Esso era anche un mondo di morte. C’era un Dio della Morte? Come alcuni hanno scritto, il Dio della Morte è un non-essere adorato dai potenti, una forma di idolatria. Il Dio della Vita, il Dio reale e vivente, era quello che spingeva i poveri e gli emarginati a lottare per una vita che fosse più vita e migliore. Coloro che morivano in questa lotta sfidavano la morte; erano abbracciati e fatti risorgere dal Dio della Vita; anche nella morte seminavano il mondo di più vita.
Lì a Maryknoll recitai la preghiera del martire come un bambino, come un lamento per coloro che erano morti e per la mia stessa vita, come un atto di memoria e di possibilità. Ma quale ebreo era preparato al sorgere del martirio nel nostro tempo e, cosa ancora più sorprendente, all’interno di una religione che per oltre mille anni aveva inflitto il martirio al popolo ebraico?
La difficoltà concettuale a capire questa drastica metamorfosi era controbilanciata dalla partecipazione alle liturgie per coloro che venivano ora chiamati martiri, liturgie presiedute e seguite da persone che li conoscevano.
Il vortice di pubblicità, la politicizzazione della morte delle suore di Maryknoll e di Romero, fu immediata in quei primi giorni della presidenza di Ronald Reagan e di escalation delle politiche di repressione in America centrale, sponsorizzate e finanziate dal governo degli Stati Uniti. Ben presto quelli di Maryknoll e altri preoccupati per il destino dei religiosi e del popolo del Salvador presero le distanze dalla politica. Dopotutto la Chiesa aveva il compito di predicare il Vangelo, non di fare politica. Altri, contrari alla nascente presa di posizione della Chiesa a favore dei poveri, parlavano criticamente dell’ingresso della Chiesa in politica. Presto la discussione vide contrapposti coloro che vedevano nelle suore di Mayknoll e in Romero dei martiri, e coloro che li consideravano dei sognatori utopisti che avevano oltrepassato la linea rossa della politica.
Non mi feci trasportare da questo dibattito. Mi interrogai invece sulle incredibili trasformazioni del cristianesimo negli ultimi decenni, prima riguardo agli ebrei, ora riguardo alla difesa dei poveri. Il cristianesimo costantiniano era stato semplicemente una fase della storia cristiana, una fase che, durata oltre mille anni, era parsa intrinseca alla sua stessa esistenza? Quella fase del cristianesimo era finita o ciò cui ci trovavamo di fronte ora era una nuova guerra civile in seno al cristianesimo, una guerra sul significato stesso della testimonianza cristiana? Fase o guerra che fosse, l’esito era incerto. Dopotutto, i governanti governavano; e coloro che stavano all’opposizione venivano celebrati come martiri.
Dio riceveva la loro testimonianza? Era, la loro, una testimonianza resa alla profondità della loro fede e all’umanità? Poteva il cristianesimo celebrare i propri martiri con lo stesso trionfalismo di quanti celebravano il cristianesimo nelle sue conquiste?
Il trionfalismo nella morte è un atto d’orgoglio praticato in prossimità dei potenti. I potenti ne sono di conseguenza screditati proprio mentre il loro potere può trovarsi ulteriormente consolidato. Il potere della morte del martire, almeno nella sua affermazione, è che il potere materiale e politico è transitorio, sempre instabile e destinato a crollare. Il martire è una testimonianza resa a questa idolatria che crolla, un segnale sulla strada piantato come una croce sulla morte dell’impero.
Seduto a messa a Maryknoll, m’interrogavo meravigliato su questo senso di trionfo. La certezza della resurrezione, la rivendicazione troppo facile della fedeltà di Dio toccavano un tasto sbagliato. Come se quelle morti venissero ripulite dalla brutalità a esse toccata: alle donne, stuprate, avevano sparato a bruciapelo; Romero era stato assassinato mentre invocava la protezione e la grazia di Dio.
I miei ricordi corsero all’Olocausto e alla domanda, nonostante la recitazione dello Shema, se, lì, c’erano state vittime o martiri. Dopotutto, si pensa che i martiri abbiano una scelta, nella testimonianza di fede, la possibilità di abiurare e persino convertirsi. Coloro che morirono nell’Olocausto non ebbero questa possibilità e furono uccisi che avessero fede o no. Furono uccisi perché erano ebrei. Era, Dio, con gli ebrei che morirono a milioni?
Era Dio con le suore e con Romero quando furono brutalmente assassinati?
Per Romero è chiaro; la sua visione religiosa lo guidò sino alla fine. Se Dio fosse con lui non lo sappiamo. Egli affermava, in modo meraviglioso, tragico, ossessivo, di sapere che Dio era con lui e con il popolo del Salvador. Lo aveva detto spesso nei suoi ultimi giorni: “Devo aggiungere che non credo nella morte, ma nella resurrezione. Se mi uccidono risorgerò nel popolo salvadoregno”.
Non era un pensiero vano, mistificante, che trasformava la morte in vita senza costi; non era un pensiero di seconda istanza. La premessa era, anzi, vigorosa, profondamente politica e nello stesso tempo religiosa, un’affermazione della sua autorità e dell’autorità della Chiesa: “Ammoniamo il governo a prendere sul serio il fatto che riforme ottenute a prezzo di tanto sangue non servono a nessuno. Nel nome di Dio, allora, e nel nome del popolo sofferente, il cui grido sale al Cielo ogni giorno più forte, io vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione”.
C’è mai stata un’affermazione più ossessiva di speranza in un mondo in cui le divisioni di classe e cultura cessino e gli imperi crollino mutandosi in una comunità presagita in alcune parti della Torah e del Nuovo Testamento? In queste parole non sembra esserci neppure divisione di religione; l’impero che il cristianesimo seguiva e benediceva è ripudiato. La storia è a un punto morto, anche il processo di riforma è chiamato a rendere conto.
È questo il momento dell’offerta dell’Alleanza, ripetuta e allargata in un tempo e un luogo diversi? O è il momento dell’Alleanza che non cambia mai, l’offerta di fedeltà sempre disponibile nel qui e ora? “Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore.”
“Li ripeterai ai tuoi figli.” Questa trasposizione: allora, gli ebrei martiri nell’Europa cristiana; ora, i cristiani martiri nell’America centrale cristiana.
Che cosa dire ai miei figli ora che i martiri sono cristiani, per la loro fede e per l’umanità, e gli ebrei, con il potere che abbiamo di recente ottenuto, stanno creando martiri?
La verità di ciò è chiara in Israele e Palestina; essa si stava appena affacciando in me all’epoca in cui iniziavo a conoscere la teologia della liberazione. La morte delle suore di Maryknoll e di Romero contribuirono, paradossalmente, al mio personale risveglio come ebreo. Viaggiando per l’America latina, l’Asia e l’Africa negli ambienti della liberazione cristiana, fui riportato al significato della testimonianza ebraica oggi. Non avevamo abbracciato noi, ora, un costantinianesimo che aveva infettato il cristianesimo, portando in ultima istanza al martirio di cui oggi sto parlando? Era arrivato un ebraismo costantiniano, anche se le parole per descriverlo sarebbero venute più tardi.
Il martirio delle donne e di Romero era in stretta prossimità con l’ebraismo costantiniano. Mentre iniziavo a scrivere ciò che sarebbe divenuto Toward a Jewish Theology of Liberation (“Verso una teologia ebraica della liberazione”), divenni consapevole del ruolo a livello militare e di forze di sicurezza di Israele nelle dittature delle Americhe. E scoprii anche lo stretto rapporto di Israele con l’apartheid sudafricano, all’interno del quale Israele e il Sudafrica studiavano e sviluppavano insieme armi atomiche e nucleari.
Scoprii queste alleanze mentre svolgevo ricerche sulle origini dello Stato di Israele, la cacciata dei palestinesi e la continua espansione israeliana dopo il 1967. Se rivelare questi fatti imbarazzanti a metà degli anni Ottanta era difficile, a posteriori essi appaiono un’epoca quasi innocente. Oggi l’espansione di Israele è sul punto di farsi completa, come il Muro che segmenterà, circonderà e ghettizzerà il popolo palestinese. Gli anni Ottanta erano prima della politica della potenza e del pugno duro, prima dell’uso degli elicotteri da combattimento che prendono di mira paesi e città indifesi, prima della espansione e stabilizzazione degli insediamenti, prima che la speranza di una vera soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese svanisse. O ero io, nonostante tutto ciò che avevo da poco imparato, a essere semplicemente ingenuo?
Negli anni Ottanta visitai inoltre più volte Israele, e fu allora che iniziai a muovermi fra i palestinesi. La vita palestinese sotto l’occupazione era segnata dalla violenza perpetrata da ebrei in Israele. L’establishment ebraico in America legittimava tale violenza con una narrazione di innocenza e redenzione ebraiche. Era la stessa innocenza e redenzione che i cristiani avevano usato come scudo per la loro violenza contro gli ebrei europei ma anche nella conquista, tra altre regioni del mondo, delle Americhe?
Fui portato, a Gaza e nella West Bank, in case dove avevano perso dei bambini, uccisi da soldati israeliani per avere lanciato pietre, per avere resistito alla demolizione delle case o persino per avere urlato contro l’uccisione di un familiare. Lì mi sedetti con le famiglie, spesso numerose e povere, circondato dai ritratti incorniciati dei figli, uccisi – e, sì, martirizzati – da Israele. Mi chiesi se quelli che i palestinesi chiamavano martiri erano martiri anche per me. Erano inscritti nella mia storia, parte della narrazione ebraica che professo, tanto che ora la separazione fra ebreo e palestinese è preclusa?
Stava tutto accadendo nello stesso momento: le suore di Maryknoll e Romero; il mio rendermi conto di una svolta radicale nella vita ebraica; i martiri palestinesi. La trasformazione del cristianesimo e dell’ebraismo in direzioni opposte; la guerra civile, emergente all’interno del cristianesimo come dell’ebraismo, tra coloro che perseguono l’impero e coloro che lottano per la comunità; l’estendersi del martirio e quindi della fedeltà a una tradizione più ampia di fede e di lotta. Questa tradizione più ampia includeva coloro che, lungo la storia e oggi, lottavano, con e senza fede, contro l’impero e per un altro modo di vivere. Era questa la tradizione cui davvero appartenevo, una tradizione che comprendeva induisti, musulmani, buddisti, cristiani, agnostici ed ebrei? Era questa la mia tangibile particolarità, quella che avrei trasmesso ai miei figli?
“Li scriverai sugli stipiti.” Sullo stipite della mia porta, la mezzuzah [il rotolo di pergamena con iscritti i versetti del Deuteronomio che gli ebrei appendono in un piccolo astuccio allo stipite della porta di ingresso] contiene tutto lo Shema, e riporta così all’Esodo, a quando le case degli israeliti furono contrassegnate perché si passasse oltre, e la morte mandata da Dio agli egiziani li lasciasse indenni. Quando, entrando e uscendo da casa, passo e tocco la mezzuzah, sono ammonito a essere giusto e compassionevole; le porte della mia casa sono segnate da questo intento. Nel mondo dell’impero devo tendermi verso lo straniero, la vedova e l’orfano, il povero e l’emarginato, come segno dell’Alleanza e segno della presenza di Dio. Devo muovere verso la comunità insieme ad altri che muovono nella stessa direzione: questa è la mia comunità.
Coloro che perseguono l’impero, qualunque sia la loro appartenenza, cooperano anch’essi a uno sforzo congiunto. Anch’essi attraversano confessioni e religioni. Anch’essi sono parte di una tradizione, una tradizione che produce martiri, ancora una volta trasversali rispetto ai confini religiosi ed etnici. La divisione grande, fondamentale, direi fondativa, viene ora chiamata per nome. La questione del perché ci abbiamo messo tanto tempo per discernere queste divisioni autentiche, e del perché abbiamo accettato così a lungo l’unicità istituita di fede e nazione è un mistero, coperto dal sangue dei martiri.
Eppure, a prescindere da questo riconoscimento della più ampia tradizione di fede e di lotta, la Croce resta per me un simbolo di violenza; rabbrividisco quando mi si avvicina. Ora anche la Stella di Davide, ornamento di un esercito che soggioga un altro popolo, provoca lo stesso brivido nei palestinesi, e in me.
Qui sta il grande crimine di coloro che perseguono l’impero in nome della religione. Gli stessi simboli che producono significato e nutrono un popolo, anche e soprattutto nella sua sofferenza, sono sviliti nel ciclo di violenze e atrocità da essi generato. Quegli stessi simboli, la Croce e la Stella, divengono infetti di atrocità. Così funziona la religione costantiniana, nella sua variante cristiana, ebraica o musulmana.
Salvano, i martiri, questi simboli e quindi la tradizione da tale infezione, allontanando il virus dalla religione e restituendo così quest’ultima alla salute e al benessere? Un altro sviluppo: coloro che uccidono lo fanno in nome di quella religione; uccidono anche i dissidenti al loro interno, o li consegnano, o li riducono al silenzio nel nome di quella stessa religione.
I martiri sono i profeti tacitati, circondati da violenza, condannati. Il profeta condannato è un altro modo di guardare alle donne cattoliche e allo stesso Romero, o al profetico incarnato in loro, in lotta per formulare una verità che continuerà a vivere nella storia, nella storia del popolo, come un seme per le generazioni di profeti ancora a venire.
Lo comprese bene Martin Buber, grande figura religiosa ebraica, che parlò del cerchio di profeti che si muove a spirale nella storia, circoscrivendo una storia alternativa che si identifica con la sofferenza e con la speranza che un giorno il mondo ruoterà attorno alla giustizia e alla comunità, invece che alla violenza e all’impero. Come i testimoni del fallimento di Israele vivono per vederne la visione e la missione, i profeti hanno lottato contro l’inerzia, l’avidità e il cedimento. Attraverso le epoche, essi continuano a tenere alto un destino iscritto su Israele dall’inizio, quello di un popolo liberato e liberante e un Dio che è con Israele in questa lotta per un nuovo tipo di comunità.
Prima di morire Martin Luther King definì tale visione la comunità amata. Il suo linguaggio era bellissimo, nella sua fiducia in un universo il cui arco tende verso la giustizia.
Attraverso il fallimento e il martirio?
Le comunità ebraiche tedesche e più in generale europee da cui Buber proveniva e che serviva sono state annientate. La Palestina in cui egli entrò da profugo fuggendo il nazismo, la patria ebraica che lì cercò di edificare accanto agli arabi stava già fallendo nel corso della sua vita. La visione di King di un’America fondata sui valori e sul carattere invece che sulla razza, un’America smilitarizzata che incarnasse la giustizia e la libertà di cui parlava, era, nel corso della sua vita, messa duramente in discussione da un razzismo radicato e dalla guerra americana in Vietnam. L’assassinio di King fu il toccante sigillo di questo senso di fallimento.
Il profetico come fallimento, allora. Il fallimento del profetico diviene più profondo nella morte?
Per certi versi sì. Per altri no.
Sì nel senso che la vita che incarna il profetico non è più; la visione fattasi chiara è sospesa, per così dire, a metà della frase. Le parole che vogliamo e abbiamo bisogno di udire, la presenza che tanto illumina il nostro proprio destino, possono essere trovate ora solo in immagine, immagine che rappresenta il profeta che non è più.
No perché la vita che si è spenta è anche salvata dal rischio dei momenti successivi, una durata frustrante nella sua ordinarietà e nel fatto che la visione profetica non riuscirà a passare. Vivo, il profeta sente il dolore del suo impegno, dato che ogni soluzione sarà parziale, limitata, contenuta e revocata. Vivo, il profeta può persino scorgere la terra promessa quale diverrà davvero.
Così nella morte al profeta martire è risparmiato il futuro e forse anche la sua perdita del profetico. Immaginate oggi Buber con gli elicotteri da combattimento con la Stella di Davide che pattugliano i territori palestinesi. O King con la vittoria dei diritti civili così parziale e, a suo modo, conforme al potere. Immaginate King con il suo successore, Jesse Jackson, e la delusione che proverebbe. Immaginate le suore di Maryknoll e Romero con un Salvador allo stesso tempo mutato e immutato.
Nel martirio è risparmiata al profeta una realtà che taciterebbe e inaridirebbe la sua anima.
Le suore di Maryknoll e Romero, Buber e Martin Luther King, e cristiani ed ebrei e musulmani di coscienza, di ogni fede e comunità in tutta la storia, sono la voce dei profeti condannati e del profetico che non morirà mai. Ricordarli come sono stati e sono consegnati da ogni autorità politica e religiosa per essere disciplinati, derisi e giustiziati è una necessità. Rappresenta il nostro contributo alla voce profetica e il fondamento della nostra chiamata.
La nostra chiamata a essere profeti? Nel corso della storia sono stati solo pochi a poter essere davvero detti profeti. Perché alcuni sono profeti è un mistero. Sono chiamati? È il loro un destino che hanno sentito in se stessi? Se è così, da dove viene questo destino? Come emerge? Li separa dal resto di noi? O è semplicemente che, all’ora fissata, essi resistono mentre altri indietreggiano?
Forse in altri momenti essi stessi si sono tirati indietro o lo faranno in futuro. Il punto è che hanno resistito, per un momento o per tutta la vita, per cause o persone invise al potere, qualunque sia. I profeti che dicono “no” al potere ingiusto e per questo muoiono, dicono insieme “sì” a un altro tipo di vita. La loro morte è un momento profetico, un martirio, una testimonianza resa alla vita.
Eppure, a ergersi soli, i profeti martiri non sono nulla, e non si ergono né lo possono soli. I profeti martiri vengono da tradizioni che, per quanto profondamente illividite e abusate, rimangono come memorie sovversive; memorie di una chiamata e di un destino, memorie di un’altra via.
Queste memorie sono quelle della comunità, e in questo modo chiamano altri a quella chiamata e a quel destino. Sempre, si raccoglie attorno al profeta martire una comunità, testimone al di là della sua morte. I suoi membri si uniscono per portare avanti la missione.
Forse c’è ancora un altro legame che ci accompagna, anche se, per ora, privo di chiara espressione. Se la morte in una parte del mondo del profeta martire proveniente da una specifica tradizione rispondesse a e avviasse la guarigione di una sofferenza in un altro tempo e luogo, o addirittura precorresse un tempo futuro in cui sarà necessaria una guarigione, o le basi di un’altra nella stessa linea?
Penso qui in Italia a Primo Levi che, nella sua lotta e nella lotta del suo popolo, ha vissuto un rovesciamento di speranza così terribile che persino lo Shema non poteva essere recitato immutato. Da qui la sua ossessionata poesia, Shema:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi.
Da una parte, lo Shema di Levi funge da celebrazione retrospettiva della vita del martire. I morti non sono ripuliti; essi restano senza nome e speranza. Qui la memoria è la narrazione che non ha trasformato il racconto o la morale. Il racconto è da narrare; invece di un rinnovato coraggio d’azione nel futuro, s’invoca soltanto una punizione per non raccontare la storia. Lo Shema di Levi rifiuta una resurrezione e una simbolica semina della terra. Il sangue è sangue; la lotta per una crosta di pane resta; gli occhi sono vuoti.
Romero avrà mai letto lo Shema di Levi?
Ne dubito.
Romero non crede nella morte. La sua resurrezione è all’interno della storia del suo popolo, ma questa storia, almeno nella sua visione, sarà diversa: sarà redenta. In effetti la morte di Romero, accanto a quella delle donne di Maryknoll e di migliaia di altri salvadoregni, è una preparazione a tale momento di redenzione. In questo senso i morti sono già redenti, il profeta martire fra loro.
Lo Shema di Levi ferma la resurrezione di Romero? La resurrezione di Romero aggiunge una strofa alla poesia di Levi, un finale non diverso da Giobbe? O Romero e Levi si ergono semplicemente fianco a fianco, senza commenti o teorie?
Decenni dopo, c’è chi lotta ancora. La nostra fedeltà è alla loro visione, una visione che dovrebbe essere scritta su tutti gli stipiti delle nostre porte. Lo Shema dentro la mezzuzah, la mezzuzah ora estesa a includere i testi di tutti i profeti, anche le parole di Romero: “Io vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione”.
E’ un testo veramente importante anche per il non credente perchè ci restituisce la condizione tragica dell’uomo nella storia in un’epoca in cui di questo ordine di problemi si tende a parlare, se se ne parla, con uno stile piuttosto Disneyland.
Due considerazioni tra le molte che mi affiorano: l’atroce dialettica del cristiano o dell’ebreo che vede rovesciare il proprio simbolo di redenzione in un simbolo di persecuzione e potere è caratteristica non solo delle religioni, ma di tutte le grandi idee/ ideologie. E questo testo può essere uno stimolo per una riflessione più seria sul rapporto tra idee e potere.
Leggendo queste righe, mi nasce spontaneo un confronto tra credente e non credente nell’atteggiamento di fronte alle macerie della storia. Il credente, anche quello in un dio nascosto come mi sembra Ellis, ha il vantaggio di un fondamento extrastorico che rende sempre possibile trovare un senso, anche quando come in Giobbe non si trova segno della presenza di Dio, che ha un fondamento nel mistero della vita ( e della fede). Il non credente vive una più radicale solitudine, un non senso assoluto, ma in questa situazione può scoprire un attaccamento alla vita, a quell’unica, e alla terra che è la fonte in coloro che sono di questa terra della ogni volta rinnovata domanda di giustizia a dispetto di ogni rovina della storia.
@andrea,
scusa se intervengo con un mezzo off-topic (o forse non lo è). mi interesserebbe capire se nel testo originale (questa ovviamente è solo una traduzione) sia presente realmente il termine “olocausto”. Ho questo dubbio, forse nell’originale c’è spesso o sempre “Shoà”? Anche la specifica “teologo dell’ebraismo” è un’espressione al quanto dubbia. Non esiste teologia nell’ebraismo né filosofia della storia. Si sembra impossibile che l’autore si definisca tale.
Mi sai dare dei ragguagli in merito – magari è una scelta del traduttore quella di utilizzare un termine greco-occidentale invece di Shoà (anche se olocausto e shoà non significano perfettamente la stessa cosa)? Insomma, forse è un inghippo dovuto alla traduzione dall’inglese? Si può trovare un link con il testo originale?
Mi perdonerai per questo panegirico dell’inutile, spero.
Invito i lettori interessati a consultare il link di wikipedia italia: http://it.wikipedia.org/wiki/Olocausto , anche se la trascrizione SHOAH è errata (e non tutto mi sembra corretto). In Italiano la forma etimologicamente corretta, per tutta una serie di motivi che non sto a spiegare, è “shoà” (proprio perché è italiano e non inglese). D’altronde anche Torah dovrebbe essere “Torà” (se solo i quotidiani in Italia non continuassero a utilizzare questi termini con una trascrizione impropria prendendoli dalle traduzioni inglesi, come tante altre riviste non curate a dovere oppure insospettabilmente disattente – persino nei testi Einaudi si possono trovare “legalizzate e rese canoniche” queste imprecisioni). Le stratificazioni ellenico-cristiane (tant’è che olocausto è un calco terminologico cristiano fatto dalla religione sociale greca) e il disinteresse per la precisione, secondo me aprono un reale problema semiologico. Sempre se a qualcuno interessa. Sempre se.
caro angelo,
spero che il tuo non sia un panegirico dell’inutile, visto che ci hai dedicato tempo e scrittura. In effetti, anche a me ha sorpreso il termine Olocausto, sotto la penna di Ellis. La cosa migliore è che tu segua il link della rivista, e potrai accedere sia alla versione inglese sia alla mail del diriettore Massimo Parizzi, a cui puoi chiedere direttamente lumi.
Quanto alla formula “teologo dell’ebraismo”, è mia, ma non solo, visto che la usano anche gli ebrei italiani e i filosofi. Quale dovrebbe essere secondo te l’indicazione più appropriata?
Bella domanda Andrea,
sinceramente non mi ero mai posto il problema. La teologia è appannaggio della cultura occidentale, e figurati che il primo a nominarla in quanto tale è Platone (io penso: il padre di tanti mali) – il Tanak diventa teologico solo quando viene tradotto in greco con mille trasmigrazioni di significato nei suoi termini principali, ovvero diventando “Pentateuco”. Il momento in cui un ebreo praticante modello si ponga di discettare cosa HaShem(*) sia, e non cosa voglia (e come La voglia), è un momento così raro che non ha senso porsi il problema. Tutto è molto più materiale e meno astratto di quello che un occidentale riesca ad immaginare. Non a caso, anche il pezzo da te postato, non ragiona in astratto su quello che HaShem sia, ma si pone il problema dell’ebreo di fronte al suo martirio, rispetto alla preghiera e all’avvenire, rispetto alla storia e forse, anche rispetto alla concezione cristiana del martirio, religione del dominio occidentale (e ora evito di sciorinare il mio anticristianesimo poco moderato), domandandosi tante altre cose intimamente legate alla sofferenza.
Dunque, come ho già accennato, a mio avviso, e secondo tanti altri (sicuramente molto ma molto più preparati di me sull’argomento e non solo), non esiste una teologia ebraica e dunque un teologo ebraico. È un altro concetto terminologicamente improprio e spurio se lo si vuole far indossare alla cultura ebraica. Quindi, per lo stesso motivo, gli stessi argomenti usati dai sostenitori di una teologia ebraica a me sembrano sbagliati e poco “ebraici”.
D’altronde, e consentimi la battuta, gli anglosassoni tendono a fare molta confusione su ciò che non era appeso agli alberi 2000/3000 anni, ed insieme a loro certi ortodossi seguaci delle mode culturali, anche e soprattutto italiani e filosofeggianti. Ricordate che non c’è categoria più disprezzabile di quella dei filosofi in Italia, che vengono solo dopo i politici – lo dico senza fare demagogia, pur facendola.
Tornando alla teologia ebraica, l’impressione è che si parlino dunque lingue lontanissime e si cerchi di farne una sola per comodità, per imprecisione, per disinteresse – in una grottesca amalgama di segni e significati (quello che poi è il cristianesimo come forma mentis). Intendo dire: tutti per comodità sono cristiani, ma ne sanno qualcosa del cristianesimo come prodotto storico o della sua teologia come prodotto storico e politico in mano a pochi eletti, e per giunta nazisti? (qui qualcuno se vuole può anche digrignare i denti..)
Allo stesso modo, mi sembra che questo uso dell’espressione “teologia ebraica” sia un altro prodotto storico, una convenzione inadatta ad esprimere il concetto, anche se innocua.
Specifico: non mi reputo un esperto enciclopedista di questi argomenti, ma almeno credo di avere le idee chiare in merito a certe imposture.
Per rispondere alla tua domanda Andrea, in italiano mi viene solo in mente “pensatore ebraico”, termine assai generico, ma almeno non falsificatorio.
Spero di non essere stato troppo contorto nella mia esposizione.
*nemmeno questo andrebbe scritto così, ma per limiti tecnici, in questo caso, mi arrendo.
2000/3000 anni fa..
insomma, parlare di teologia ebraica è peccato di cristianocentrismo…
a dire il vero, io non sono più simpatizzante dell’uno o dell’altro dei monoteismi, quindi da un lato l’indicazione impropria non mi disturba troppo, dal momento che permette di orientare adeguatamente il “nostro” lettore – il tipo di riflessione di Ellis, da noi, si etichetterebbe come teologica; dall’altro ti ringrazio, perché ora sono consapevole che esiste una dizione più adeguata al caso (“pensatore ebraico”)
caro Andrea,
io non sarò Harold Bloom, ma il peccato “cristiano-centrico” lo vedo nella vita di ogni giorno.
il mio punto di partenza è quello di un ateo materialista che, dovendo fare i conti con una razionalità non sempre incline a salvarmi dai dispiaceri dell’esistenza, subisce (e non solo passivamente) la fascinazione delle mitologie, e della letteratura che ne consegue. E, in effetti, se simpatizzo per l’uno e guardo con sospetto l’altro è per una questione di relazioni pratiche con me stesso, per quella ricchezza e libertà che queste mitologie affermano ogni giorno nel mio percorso o cercano di negare.
L’ebraismo non vuole convertirTi e non contempla di punire l’eresie altrui né le miscredenze (anche “eresia” è un termine inesistente e improprio, ahah)
Il cristianesimo lo farebbe se potesse, e ancora in qualche modo limita la nostra libertà di non credere alle sue superstizioni. E l’islàm sì che ce ne dà di dolori, senza allarmismi – mitologie del rimbambimento più totale, i paraocchi del servo che non vuole essere sovrano; l’opposto del celebre “io sovrano” in Bataille – Moi, j’existe – suspendu dans un vide réalisé – suspendu à ma propre angoisse. Un’angoscia che, come non fregava lui, non frega nemmeno moi.
Voglio dire, so anche che simpatizzare è sempre unpolitically correct in questo vuoto di verità, soprattutto se si parla di ebraismo (giudaismo e sionismo sono due separate vocazioni spesso complementari) l’equivoco è dietro l’angolo – ma questo non c’entra niente. Così non ne parleremo.
ad angelo
“L’ebraismo non vuole convertirTi e non contempla di punire l’eresie altrui né le miscredenze (anche “eresia” è un termine inesistente e improprio, ahah)”
sicuramente, ma mi sembra che il pezzo di Ellis individui anche nell’ebraismo il suo versante costantiniano, di religione dell’impero. E’ proprio questo rapporto da lui stabilito che mi sembra tra i punti più interessanti del saggio.
In ogni caso, ti ringrazio per le osservazioni che hai fatto e che dovrebbero dare elementi di contesto per chi legge.
@Andrea,
ho spesso l’impressione che spesso, quanto ci scriviamo in questi post, venga meno la giusta respirazione (soprattutto da parte mia), una concentrazione lenta, ironica, che punti verso il vuoto senza descriverlo, per vivere attraverso una grande “igiene” i significati possibili di quello che sperimentiamo.
Ebraismo come religione d’impero, è questo il punto (alludiamo sempre al conflitto israeliano-palestinese, con lepida ipocrisia): “Qui sta il grande crimine di coloro che perseguono l’impero in nome della religione. Gli stessi simboli che producono significato e nutrono un popolo, anche e soprattutto nella sua sofferenza, sono sviliti nel ciclo di violenze e atrocità da essi generato. Quegli stessi simboli, la Croce e la Stella, divengono infetti di atrocità. Così funziona la religione costantiniana, nella sua variante cristiana, ebraica o musulmana” (ipse dixit).
Senza offesa Andrea, nel precedente commento, ho accennato ai possibili “equivoci ebraico/sionisti” e al problema serio e mostruoso delle mode culturali che, ahimè, ci travolgono e privano di ogni libertà, assoggettandoci al loro codice che ci allontana dalla comprensione del famoso “elemento sfuggente” (tutti citano Foucault a sinistra, ma nessuno l’hai mai letto, e questo è un vero dramma – così capziosamente mi prendo questa libertà pure io).
Ai tempi di Pasolini, la sinistra “critica” in Italia inneggiava ai Kibbutz, te lo ricorderai immagino, facendone modello di umanità e bellezza esotica (che forti quegli israeliani!): ora, a poche generazioni di distanza, gli stessi sono diventati imperialisti sanguinari e, sempre e comunque, “in nome della religione” [marxismo ed ebraismo si fondano entrambe sulla fede in un libro]. A quel tempo, l’idea degli stermini nei campi di concentramento era troppo d’impatto, troppo efficace e fresca; un aneddoto (che non essendolo più) era fondante, dacché ne conseguiva la modaiola simpatia per i superstiti e per i loro figli (storia a mille episodi). Il pezzo di terra che volevano coltivare i kibbutzim era, comunque, sempre lo stesso, ora come allora. Solo che adesso, al posto della comune, ci sono dei palazzi di venti piani.
Tuttavia, lasciando perdere le simpatie, razionalmente sono d’accordo con te, Andrea, e in maniera al quanto simpatetica, ti posto quello che proprio ieri un’utente (una figura sìmica – lo dico perché l’ho conosciuto sul serio, ho anche recensito un suo libro recentemente, capirai.. il libro di uno di quegli anglosassoni di cui ti dicevo) ha messo in giro sul web (sul social network che tutti adoriamo) con la motivazione di proporre “un invito alla riflessione” un post intitolato “Parole sante”, per altro depauperando e decontestualizzando un testo stra-conosciuto, un libricino spesso utilizzato a fini didattici nelle scuole medie in Italia, un bel pezzo di letteratura askenazita, senza dubbio (che sembra quasi non esserlo più, perché nelle scuole non lo dicono). Cito “Reunion” del povero Uhlman: “La pretesa di riprendersi la Palestina dopo duemila anni gli sembrava altrettanto insensata che se gli italiani avessero accampato dei diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai romani. Era un proposito che avrebbe provocato solo immani spargimenti di sangue”.
Uhlman aveva ragione? Questo non lo so. Forse Ellis, che vive in Florida al caldo, ha la risposta.
Peccato Andrea che questa discussione è una commedia a due, e che nessun altro vuole metterci bocca.
il secondo “spesso”, nel secondo rigo, è *spesso*.
Gentile Angelo,
accolgo il suo invito a discutere degli argomenti da lei proposti, sebbene il testo di Ellis sia per me più stimolante come riflessione sui rapporti tra religione e potere nel senso che dicevo nel mio commento.
In linea generale qualsiasi religione, comprese quelle laiche a cui lei alludeva, possono vivere un processo costantiniano o se preferisce i termini blochiani una divergenza tra religione del regno e quella dell’esodo. Mi sembra di capire che lei vede invece questa possibilità come esclusiva del cristianesimo e ritiene che viga a proposito di Israele una confusione tra sionismo ed ebraismo ( non mi è chiaro se lei ritenga che questa confusione sia presente in Ellis o sia soltanto un cascame delle mode culturali). A me sembra che questa confusione viga invece in Israele, specie nell’Israele degli ultimi anni sempre più distante dal sionismo laico dei padri fondatori e non in Ellis che vive la sua religiosità al caldo della Florida essendo un cittadino statunitense di religione ebraica. Ma non voglio nascondere la questione solo dietro i numerosi partiti della destra religiosa israeliana e sulle interessanti conseguenze costituzionali della loro attività per i cittadini israeliani di altre religioni. La confusione tra ebraismo e un’ideologia secolare come il sionismo nasce dal fatto che qualisasi cittadino di religione ebraica di qualsiasi paese del mondo può chiedere la cittadinanza israeliana, dunque dal fatto che è la religione a detrminare la nazionalità. Penso che la nascita di uno stato ebraico modifichi il modo di vivere la religione ebraica dei padri, anzi delle madri, con la sua radicale moralità, di cui trovo una traccia vitale nelle righe di Ellis e mi sembra comprensibile che Ellis veda e viva un contrasto tra religione del regno e religione dell’esodo.
Giorgio,
prima di tutto la ringrazio per l’attenzione – e poi veniamo al dunque.
Quando ho accennato alle mode o alle religioni (più o meno simpatiche dal mio punto di vista – anche perché: “la logica non ha estetica”, quindi evito d’infilarci tutti e due i piedi in un sol colpo), non mi riferivo né a una qualsiasi lettura sociologica della storia delle religioni né tanto meno a una lettura politica del conflitto israeliano-palestine: mi riferivo, con un impianto teoretico molto meno solido, al semplice malcostume e al menefreghismo individuale e collettivo che mi sembra si nasconda dietro al rapporto che tende ad unificare – da parte del grande pensiero populistico democratico occidentale (gli stessi che ieri a Venezia applaudivano Chavez) – il sionismo all’ebraismo (*ebraismo* inteso come stato etico ancora prima che come “credo”).
Dice: “non mi è chiaro se lei ritenga che questa confusione sia presente in Ellis o sia soltanto un cascame delle mode culturali”. Le rispondo d’emblée, (“cascame” è stupendo): la confusione, d’altro genere, è presente in Ellis per una questione terminologica (l’Olocausto è un’offerta a Dio, e non la “distruzione” Shoà del popolo ebraico – ho controllato il testo originale sulla rivista “Qui” per essere sicuro che non fosse una scelta del traduttore), e nelle mode culturali per il fatto stesso d’essere “vox dei” rispetto alle orecchie da mercante di certi media.
caro angelo,
faccio fatica a seguirti, sarà senz’altro un mio limite; mi sembra che il testo di Ellis sia chiaro sul ruolo che egli assegna alla religione ebraica nel colonialismo dello Stato israeliano e nei suoi crimini. Ma il discorso è ben più ampio che questa denuncia, come Giorgio ha già sottolineato.
caro angelo,
faccio un po’ fatica a seguirti, sarà senz’altro un mio limite; mi sembra che il testo di Ellis sia chiaro sul ruolo che egli assegna alla religione ebraica nel colonialismo dello Stato israeliano e nei suoi crimini. Ma il discorso è ben più ampio che questa denuncia, come Giorgio ha già sottolineato.
caro andrea e gentile giorgio,
ero convinto d’essermi espresso con chiarezza nel *particolare* e in generale. Il pezzo di Ellis continua a non convincermi. E come avete entrambi ricordato, il discorso è molto più ampio di quando si possa sviscerare in pochi post.