Il male minore

[più che volentieri pubblico questo pezzo uscito su La Stampa il 28 agosto “ispirato” – come mi annota nella email di accompagnamento l’autore – “alla vicenda del barcone dei migranti annegati e alla vicenda della legge ipocrita sulle badanti, penso all’Italia del male minore (e del terrorismo passato). G.B.]
eichmann-in-jerusalem

di Marco Belpoliti

Eyal Weizman è un architetto israeliano. Insegna a Londra alla University of London ed ha scritto un saggio, Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori) che ha fatto molto discutere, dedicato alla costruzione del Muro che separa Israele dai Territori palestinesi. In un piccolo librino, edito invece da poco da Nottetempo, intitolato Il male minore, Weizman ha invece posto un problema di grande attualità di questi tempi, la cui formulazione è: Se vi trovate di fronte a due mali, è vostro dovere optare per il minore. La questione del “male minore” l’ha sollevata in modo critico per la prima volta un’ebrea migrata in America per sfuggire al nazismo, Hannah Arendt, in una conferenza del 1964, dedicata a “La responsabilità personale sotto la dittatura”.
Pochi anni prima la filosofa tedesca s’era interrogata, nel corso del processo contro Eichmann, grande organizzatore della deportazione, sulle ragioni della cooperazione offerta dai Consigli Ebraici nelle nazioni occupate ai nazisti, atto rimosso da molti, e subito contestato alla Arendt: ebrei eminenti avevano collaborato con i massacratori con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, e per questo avevano lasciato che moltissimi di loro venissero deportati e gasati. Il male minore, appunto, argomento che circola anche nelle affermazioni del criminale nazista nel corso del processo: Siamo scesi a patti col diavolo senza vendergli l’anima. Oppure: Noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime. Come ci ricorda Hannah Arendt, chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta che sta scegliendo il male.
Weizman sottolinea come nella nostra post-utopica cultura politica contemporanea il termine “male minore” è diventato oggi un fatto quasi naturale, e viene invocato in contesti incredibilmente diversi tra loro: dalla morale individuale al diritto internazionale, dalle economie della violenza nel contesto della “guerra al terrore” agli attivisti umanitari dei cosiddetti “diritti umani”, portati a destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza – parola che sembra aver preso il posto precedentemente riservato al termine bene. Sono spesso proprio i totalitarismi a usare l’argomento del male minore, dice l’architetto israeliano, che cita un altro scritto della Arendt , “Le uova alzano la voce”, dove viene ricordato il detto di Stalin, il solo contributo originale del capo sovietico alla dottrina marxista: “Non puoi rompere le uova senza fare una frittata”. Ovvero, che non si può edificare il regime della vera giustizia tra gli uomini senza grandi sacrifici di vite umane. Una convinzione che ha portato anche da noi, in Italia, negli anni Settanta, diversi miei coetanei, ad accettare il principio dell’omicidio politico come strumento rivoluzionario – e a sostenerlo anche oggi come un portato inevitabile dell’epoca.
Mary McCathy, la scrittrice amica della Arendt, ha smascherato la fallacia del male minore: “Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice ‘Uccidi il tuo amico o io uccido te’, ti sta semplicemente tentando”. Quando nient’altro è possibile, scrive Weizman, “quando fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano”. Quando la filosofa tedesca aveva articolato questo tema non era ancora operante la razionalità dei computer, la logica del calcolo, che ha portato alle estreme conseguenze la questione nel capitalismo finanziario: introdurre il modello economico nei giudizi etici. Il calcolo e la misurazione dei beni e dei mali considerati come algoritmi – trend statistici delle scienze sociali, o aspetti di un problema computazionale – riducono di fatto la responsabilità personale e di giudizio. Weizman ci ricorda che quando le questioni vengono pensate in termini economici ed espresse in numeri, “esse possono essere cambiate e sviate infinitamente”. L’architetto ripercorre nel suo saggio la storia del “male minore” nel pensiero occidentale, attraverso Agostino che rompe con l’assolutismo del manicheismo (meglio le prostitute dell’adulterio, meglio uccidere un aggressore prima che questi uccida un passante innocente). Il male minore come prevenzione è un concetto che ha fatto molta strada presso di noi passando anche per il marxismo e i suoi interrogativi: il cambiamento deve comportare la riduzione o l’intensificazione della sofferenza? La politique du pire ha lastricato i sentieri di Utopia negli ultimi settant’anni sino ad arrivare agli ex maoisti francesi passati alla causa dei Diritti Umani degli anni Novanta, o alla “guerra al terrore” di Guantanamo, tutti esempi in cui il calcolo costi e benefici si modella non in relazione al male che si produce ma a quello che si previene.
Qual è dunque l’antidoto a questa politica della menzogna? La responsabilità, scrive la Arendt, che è sempre un fatto individuale e non collettivo. Qualcosa di assolutamente soggettivo che invece i regimi totalitari, e quelli che aspirano a diventarlo, cercano di negare annacquando tutto nel “collettivo” dei sondaggi e delle opinioni mutevoli. L’autenticità dell’atteggiamento soggettivo, dice la filosofa, “si può misurare solo dalla caparbietà nell’affrontare eventuali sofferenze”. Non ci sono dunque regole generali, ma a tutti verrà, prima o poi chiesto, come a Eichmann: Perché hai obbedito? Perché hai dato il tuo sostegno? Lì è il momento di verità di ciascuno, per quanto sarebbe sempre meglio non arrivarci. Per questo bisogna pur far qualcosa affinché la logica del “male minore” non trionfi oggi, qui tra noi.

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8 Commenti

  1. La logica del male minore sfugge anche alle domande, la responsabilità in che rapporto è con la sensibilità? Qualcuno potrà non rispondere alle proprie responsabilità, ma molti altri rispondendo potranno sempre dire non c’ero e non sapevo, non mi è stato detto o non avevo capito. In fondo Speer si è salvato sostenendo tesi simili (non sapevo). Non ci resta che convivere ognuno con le proprie responsabilità, ma basterà?

  2. non so.
    l’articolo è interessante.
    attenzione alla questione male/maleminore/bene: se la demarcazione bene/male fosse sempre chiara non esisterebbe dilemma etico.
    questo è almeno quello che mi è sembrato di evincere leggendo il lavoro di Marc Hauser.
    il dilemma etico e forse l’etica stessa si genera proprio nell’incertezza della scelta, nelle sfumature che si accompagnano sempre al percepire e all’agire.
    quindi se è vero che in epoca di “politica post-utopica” la scelta del male minore (a vantaggio dei dominanti) tende a farsi ideologia, è vero che l’abolizione delle sfumature porta al manicheismo, che forse è peggio.
    insomma.
    ecco.

  3. Il tema è profondo e denso. Per ora due o tre note.

    Innanzitutto non è imprevedibile che un uomo tenti di massimizzare i piaceri e minimizzare i dolori. Non è il caso certo di naturalizzare la psicologia utilitaristica, ma è un fatto noto e indubitabile che la maggior parte ragiona così. Nella vita quotidiana ognuno di noi si trova spesso a dover decidere tra due opzioni e la logica del male minore non è un espediente furbo di cinici e disinvolti, ma un’abitudine mentale di chi non fa che ridurre gli svantaggi possibili. Se non è agevole gettarsi nelle braccia di ciò che evidentemente ci conviene, pare ovvio propendere per l’opzione che presenta la minore quantità di ostacoli. Nella vita professionale, in famiglia o nella gestione del tempo libero, spesso altrettanto amministrato di quello di lavoro, tendiamo a distinguere nettamente bene e male, danni e utili, come se vedessimo il mondo colorato semplicemente di due colori. Che sia la natura umana o no non lo so. Mi pare che sia la nostra storia.

    Questa storia ci spinge a considerare un altro elemento. Le condizioni all’interno delle quali si esercita la nostra libertà ci consentono spesso uno spazio d’azione limitato, nel quale le scelte possibili non sono svariate e molteplici. L’organizzazione generale delle nostre esistenze, che spesso ci sfugge, ci incastona dentro contesti che chiedono non creatività e intraprendenza, ma adattamento e sacrificio. Ed il principio del male minore risulta allora un percorso inevitabile.

    E’ vero poi che questo principio viene adoperato nei contesti più differenti, sovente come copertura legittimatrice di abusi, violenze, crimini. Ma le uova rotte hanno il diritto di alzare la loro voce di protesta (rilevo tra l’altro che Belpoliti inverte il senso della frase: la rottura delle uova è il male minore che la produzione della frittata esige). Una voce di protesta simile a quella di Giobbe, che contesta la logica retribuzionista di chi associa peccato e sventura. Una voce analoga a quella di Kant, che dichiara il fallimento delle teodicee. Il male minore sarebbe uno strumento del bene universale, la macchia che fa risaltare la luce. Da qui la supposta necessità degli stermini del Dio veterotestamentario, delle guerre, dei martirii, delle alleanze con i poteri più laidi e barbari, mascherati nelle diverse fogge. Si tratta di un ragionamento che è servito, da Agostino a Leibniz, dalla Bibbia a Ratzinger, per legittimare il diluvio di male che inonda questo mondo opaco. E il nostro disgusto sa quante volte è stato trasformato nell’argomento delle mele marce, che salvaguardano l’interezza del frutteto. Il connubio tra la teodicea religiosa e l’utilitarismo economico produce mostri.

    Ora la nostra coscienza respinge risolutamente l’idea secondo cui un sopruso, una violenza o una morte possano SERVIRE a qualcosa. Ancora una volta saremo costretti a combattere contro chi accetta che la giustizia sia l’utile del più forte. E contro chi ritiene impossibile, come diceva Gustav Herling “restare umani nel disumano”. Socrate, prima di Cristo, disse che è meglio subire un’ingiustizia che commetterla.

  4. @l. tedoldi
    ritengo che non possa esistere un’organizzazione generale delle nostre esistenze senza un adattamento all’organizzazione generale delle nostre esistenze. L’adattamento dunque non (solo) come effetto ma (anche) come causa.

  5. Il Sig. Belpoliti è, come sempre, molto frettoloso nello scrivere, producendo strafalcioni non piccoli. “Non puoi rompere le uova senza fare una frittata” va corretto, infatti, così: “Non puoi fare una frittata senza rompere le uova”. Ah, se Peppino lo sentiva… altro che uova, gli rompeva sulla testa a Belpoliti…

  6. … mi sembra di avere letto un testo di dan diner in cui l’autore imputa alla arendt di non aver compreso la particolare logica del ghetto (una logica che è paradigmatica dello sterminio, anche più del meccanismo del lager) e di comportarsi poco lucidamente come i nazionalisti israeliani sul punto della collaborazione dei consigli ebraici. il testo, molto denso ma anche un po’ confuso è nella “storia della shoah” della utet, volume 1 …

  7. @Lenin

    “Egli (Stalin, ndr) trasformò la vecchia convinzione politica, e in special modo rivoluzionaria, espressa dal detto popolare che “non si può fare una frittata senza rompere le uova” nel dogma vero e proprio: “non puoi rompere le uova senza fare una frittata”. Questo, di fatto, è il risultato pratico del solo contributo originale fornito da Stalin alla teoria socialista. Reinterpretando la dottrina marxista, egli proclamò che lo “stato socialista” deve anzitutto diventare sempre più forte per poi “scomparire” improvvisamente, in un lontano futuro – come se a furia di rompere uova su uova dovesse improvvisamente e automaticamente prodursi la frittata desiderata” (Hannah Arendt, Le uova alzano la voce)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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