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Note per un libretto delle assenze: livraisons (librazioni)

libri2

di Francesco Forlani

Molti sono i casi più o meno legittimi di esproprio, ma in uno solo si realizza l’esperienza che diremo del furto reciproco e consapevole e che solitamente accade alla fine di una lunga storia d’amore. Perché nelle storie delle separazioni fioccano racconti come micosi, di pezzi, forchette e coltelli, sottratti alle argenterie comuni, delle librerie, mobili scomposti, smodulati, leggendo a ritroso il libretto delle istruzioni, dal secondo Vangelo Ikea e ricostituiti altrove monchi di una cassettiera o di un piano di lavoro. Eppure lo sai che il vero furto, compiuto in modo consapevole riguarda i libri di chi si è amato, e sempre si amerà, al momento in cui si preparano gli scatoloni – in genere alla letteratura si riservano quelli recuperati al supermercato sotto casa, dei pelati e della frutta e verdura – e non si sa bene come, pur non ignorandone il perché, ci si appropria indebitamente dei libri che non sono i tuoi, ma i suoi. In genere non è il titolo a fare gola quanto la collanina, la matrice grafica della casa editrice e sicuramente un posto di primo piano lo occupano le adelphiane e a seguire le bianche einaudi. Così quando l’antico amato ti invita nel suo nuovo appartamento la prima cosa che ti viene di osservare non è la presenza sul comodino di una nuova fotografia, “la faccia sovrapposta a quella di chissà chi altro, oh oh” ma se tra i suoi libri dovesse spiccare un titolo che ti appartiene magari con dedica a sancirne la proprietà.

Si rubano, da veri lettori forti, non tanto i libri che non si sono letti quanto quelli amati condivisi, scoperta avvenuta durante il magnifico momento della messa in comune delle librerie. Quando si rivelano i doppioni – i libri come gli amori non sono mai atti unici – con un certo orgoglio da lecteurs avertis,, così Bachmann, Bachtin, Broch, – lei li sistemava in ordine alfabetico tu per casa editrice – ed ecco allora che si ruba, si prende inavvertitamente la migliore edizione delle due, lasciando l’ édition de poche o taroccata, all’altro. Talvolta invece vince la curiosità, il piano di lettura di opere che da anni aspettavano di essere lette, esattamente come il corpo così a lungo desiderato e non conquistato come si sarebbe voluto, e bisogna fare attenzione a che l’altro non abbia in mente la stessa playlist e quindi si ravveda più facilmente dell’ammanco.

Ma i veri libri rubati sono quelli che ti porti dentro senza nemmeno sentire la necessità di possederne l’involucro, la carta. Sono fatti di personaggi e frasi che ormai ti abitano e che se pure ti sfiorasse l’idea di restituirli, non puoi, perché dovresti raschiare a fondo, strapparteli dalle corde vocali, dall’anima. Come se fosse possibile restituire carezze e baci della prima notte trascorsa insieme, magari all’addiaccio! Sono quei libri che fanno dei tuoi occhi lo sguardo di un ladro e vi osservate a lungo, voi amanti precari, nel corridoio che vi divide dai destini diversi, dalle camere separate, accennando ad un breve sorriso, come di colui che è stato colto con le mani nel sacco, anzi negli scatoloni e quasi ti sussurra: C’est la vie… E già, la vita, sempre quella.

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37 Commenti

  1. Molti sono i casi più o meno legittimi di sottrazione indebita .

    Nini, se la sottrazione è indebita, come possono esserci casi più o meno legittimi di essa?

  2. Scopro un testo magnifico su la separazione sovente descritta nei romanzi, ore dove l’appartamento vissuto a due diventa ricettacolo vuoto
    del ricordo. Si racconta storia di separazione degli ogetti.

    I libri sono altri che oggetti come dice Effeffe, sono anime. Nelle pagine lette a due, nel abbandono del libro su un divano, su un letto, nell’ombra
    di chi leggeva, nelle mani accarezzando la copertina.

    E i libri dentro rubati all’altro, che magnifica idea.

    Non so che significa la realtà di una separazione in una vita insieme, ma so che i libri delle amori è ancora in me, continuano a danzare, a essere la musica, come mi rammento il volto degli uomini che ho amato, in una luce dolce, meno viva, mai dimenticata.
    Grazie a te, effeffe per la poesia e la delicatezza che tu fai cantare
    in ciascuno dei tuoi testi.

  3. a ben pensarci esproprio, per il suo significato anche politico suona meglio, mah mo vediamo…
    effeffe
    ps
    nini, espressione molto usata qui in Piemonte, si tradurrebbe in napoletano ‘o fra(te)

  4. Uè pistolotto, sono io a ringraziarti per averti come lettore. Per il prossimo trasloco ti do una mano. Anzi visto che ci siamo mi sai dire se è uscito in italiano il saggio di Stevenson, Les porteurs de lanterne (ed.française)? (OT)
    effeffe

  5. una comune amica mi consigliava di rivolgermi a te che sei un mago
    effeffe

    ps
    che non sia nei meridiani

  6. Forlani, non ho capìto un tubo. Chi è Stevenson? Che lanterne? (O è forse l’amica tua ad aver bisogno di una bella sgombratina, ai piani alti?).

  7. uè Chris’, non farti sentire che gliel’ho rubato, però non c’era il saggio che mi interessava, ovvero i lanternai. ricorda che mi devi una cena (anzi CI devi una cena)

    funza
    come ti sembra la traduzione? Chi l’ha curata?
    effeffe

  8. posso chiederti un piacere per la causa? riusciresti a mandarmi solo il primo capitoletto (paragrafo) che finisce con “e di esultare e cantare per ( il semplice) fatto di saperlo:
    effeffe

  9. No.. è che cercavo di capire in che stato emotivo fosse l’autore quando ha scritto il pezzo ^__-..

    Sei molto bravo FF.

  10. comunque il pezzo fa parte di quei libretti rubati in rue du commandant Lamy anno 2002. l’ultima volta che ho avuto una libreria che potesse contenere tutti i libri. letti e quelli da leggere. Libri che vagano per parigi da circa quattro anni in scatoloni sparadrappati e incolonnati nelle cantine generose di amiche e amici che sono rimasti sulle barricate d’oltralpe. le cose si scrivono sulla pelle, piccole cose, si intende, e poi magari urtando un mobile o grattandoti, le ritrovi e le trascrivi

    effeffe

  11. La più grande separazione, fra me e loro ( i libri), accadde nel febbraio 2008. Avevo perso il lavoro di sempre: Una libreria che mi doveva dei soldi, per delle ore da addetto vendita, chiudeva i battenti all’improvviso.

    Dovetti mollare una grande casa in piazza statuto, torino, e trasferirmi in un monolocale di 28 metri quadrati. Spazio da dividere con un cinese che per campare distribuiva giornali ai semafori.
    Guardai i miei libri. Non ricambiarono il mio sguardo.
    “E’ questo che volete di me? volete un uomo che dopo anni di fedeltà, solo per causa vostra è costretto a non saper fare altri lavori?”
    I libri non risposero nemmeno a quella domanda tanto triste.
    Li raccolsi tutti, 1200 circa, e li chiusi dentro scatole anonime raccolte nel retrobottega di un ristorante sardo.
    Libri pressati dentro scatole, contenitori umidi usati in precedenza come ricovero di mozzarella filante di qualità scadente. E abbandonati nel garage di un vicino di casa semi-sconosciuto.
    Questa è l’ultima immagine-ricordo amaro che ho di loro.
    Poi tutto è andato veloce, forse troppo, come in una vecchia vhs mandata avanti…quando si cerca la faccia di qualcuno, la forma di qualcosa. Partenza per Berlino. Freddo. Fame. Pochi soldi. Tanto lavoro.
    Sesso a rischio. Birra rubata. e… tanta tanta solitudine.
    E loro? Dov’erano i miei London,Charms,Ortese,Wallace,Carver,Celati, Pynchon,Fante e altri? Lontano da me. In un altra vita.
    E io? io non ero più io. Venduti i libri, finito in giro per Berlino a cercare una stanza e un lavoro, ero caduto dentro un libro degno del miglior Fante.
    Un anno terribile quel 2008; perchè io non ero Bandini. Non ero Martin Eden. Io ero un pirata, senza nave in una città con un mare coperto dai pezzi del muro di Berlino.
    I miei libri? Tutti, ho poi saputo da un amico, finiti su una bancarella.
    Ancora li cerco. li chiamo. li sogno. E loro? si negano. come sempre.
    Perchè ad un pirata ignorante come me i libri non concedono nulla.
    Brindo a quei libri… a chi li ha (s) venduti.
    Io rimango -solo- un pirata che legge libri.

  12. Anfiosso,

    Ti ho fatto passare una bella giornata, mi pare. Una bella occasione di ridere. Confessa che sono il tuo bersaglio preferito.
    Non penso che effeffe abbia come obiettivo che trovo bello( vale per un altro lettore) il suo testo, vuole condividere la sua passione dei libri.
    Dopo il tuo commento su la mia ignoranza di Montesano e il commenti di oggi, sono perplessa.
    Lascia perdere non sono un bersaglio interessante; o allora crederei che tu mi vuoi bene sul serio.

    Sans rancune.

    véronique

  13. in un tragico trasloco scavalcai il cancello della mia ex casa e da un mucchio di libri riuscii a tirar fuori un solo libro gli assassini sono tra noi
    è tutto quello che mi resta
    c.

  14. Puoi spiegare, caro anfiosso? sai che non sono propio intelligente..
    Che vuoi dire con la Madonna?

  15. shhhhhhhhh! li sentite i fogli che si consumano? la carta, bianca, poi gialla, e grigia, nera che la fiamma illumina e spegne, il calore che ne viene fuori, qui brucia perfino la linea d’ombra…
    effeffe

  16. Scusi, ma mi sembra difficile che la traduzione di Di Sangro sia meglio di quella Mondadori. Più che copiarle l’incipit, le venderei volentieri il libro.

  17. es proprio bello sottrarsi allo sguardo che sottrae il libro che ha occhi invece che lettere e puntigli invece che numeri ai piedi di pagine es proprio bello l’amore autistico che si può fare con la carta

  18. Questi ragazzi si radunavano ogni autunno in un certo villaggio di pescatori sulla costa orientale, dove assaporavano con una qualche liberalità la gloria dell’esistenza. Il luogo era stato evidentemente creato allo scopo di divertire i giovani di buona famiglia. Una strada o due di case, per la maggior parte rosse e spesso coperte di tegole; un certo numero di alberirigogliosi assiepati attorno al presbiterio e al terreno circostante, a trasformare la strada maestra in un viale ombreggiato; molti giardinetti risplendenti di fiori più del normale; reti ad asciugare e mogli di pescatori che rimbrottavano sul retro; un odore di pesce, un benefico odore di alghe; sbuffi di sabbia ammonticchiata dal vento agli angoli delle strade; negozi con palle da golf e bibite in bottiglia; un altro negozio con dei favolosi sigari e il «Lodon Journal», che mi era caro per le sue illustrazioni conturbanti, e alcuni romanzi, cari per i loro nomi suggestivi: tali, se la memoria non mi inganna, erano gli ingredienti della cittadina. Questi dovete figurarveli attaccati a una lingua di terra tra due baie sabbiose, qua e là costellate di villette in numero sufficiente perché i ragazzi vi alloggiassero coi loro genitori di scorta, ma non abbastanza (non abbastanza tuttora) per stravolgere l’ambiente: un porticciolo tra le rocce di fronte: di fronte ad esso, una fila di isolotti grigi: sulla sinistra, infinite dune e cocuzzoli di sabbia, una plaga di tane rese vive da conigli curiosi e gabbiani che spiccano il volo; sulla destra, una serie di dirupi che si allungano verso il mare, uno strapiombo dopo l’altro; i ruderi di un’antica fortezza sul ciglio di uno di essi; spiaggette tra l’uno e l’altro ora piene di fascino nella quiete assoluta, ora percorse dai fischi del vento e dal clamore dei marosi in frantumi; i rifugi e gli anfratti protetti olezzanti di timo e di macchia mediterranea, l’aria sul ciglio degli strapiombi pungente e pulita, fresca per il mare, di fronte a tutto lo Scoglio del Branzino, curvo verso il mare come un bagnante esitante, circondato di bianca spuma e con le sule che volteggiano intorno alla sua cima come un’enorme e luccicante fumata. questo raro pezzo di costiera era, per di più, sacro ai naufraghi; e lo scoglio, per chi lo guardava con occhi immaginifici, recava ancora i colori di re Giacomo; e per chi ascoltava con gli orecchi dell’immaginazione gli archi di Tantallon risuonavano ancora per i ferri dei cavalli e echeggiavano per i comandi di Bell-the-Cat.

    Non c’era niente che potesse guastare i giorni di un ragazzo che trascorresse l’estate da quelle parti se non l’imbarazzo del piacere. Volendo si poteva giocare a golf; ma sembra che io avessi di meglio da fare. Era possibile appartarsi nella Passeggiata della Madonna, una valletta alberata senza sole, tutta rivestita di muschio umido, verde come erba e punteggiata qua e là da un torrentello che correva tra pareti ripide e senza tetto, fresche dimore degli eremiti. Per prepararsi alla vita e in particolare per acquisire l’arte del fumare, era più che naturale per un ragazzo gettar l’ancora in questo posto; e si poteva trovare un unico sigaro gigantesco, diviso onestamente in parti uguali con un coltello spuntato, disseminato nella vallata insieme a questi apprendisti. Ancora era possibile venire a pesca con noi e starsene appollaiati come tante sule, una banda di pescatori in erba, ragazzi e ragazze che si lanciavano le esche di sopra la testa con un grande arruffo di lenze e perdita di prede con relative stridule recriminazioni — stridule da far invidia alle sule. Invero, se tutto si fosse risolto in questo, si poteva ripetere la cosa più volte; solo che, anche se la pesca si puà considerare non male come passatempo, il merlano nero non può certo passare come una grande leccornia per la mensa; ed era un punto d’onore che un ragazzo dovesse mangiare tutto ciò che aveva pescato. Eppoi si poteva scalare il Picco della Legge, dove una mascella di balena sfidava il vento ululante e da lì contemplare il volto di molte contee, il fumo e i campanili di molte città e le vele di navi lontane. Si poteva fare il bagno, negli sprazzi di bel tempo che noi pateticamente chiamiamo la nostra estate, presi in una tempesta di vento, con la nebbia che ti sferza la pelle nuda, le vesti strappate da sotto alla pietra messavi a custodia, la spuma dei grandi cavalloni che ti getta a capofitto prima di averti sommerso le ginocchia. Oppure si poteva esplorare le rocce scoperte dalla marea, soprattutto nella bassa primaverile, quando le stesse radici delle colline venivano per l’occasione messe a nudo; giocare a scimmiottare ciò che fa chi è in testa passando da un gruppo all’altro, facendosi strada nello scivoloso garbuglio verso i relitti delle navi, inoltrandosi nelle pozzanghere dietro alle abominevoli creature del mare e sempre con un occhio alle spalle a controllare l’avanzata della marea che minacciava il percorso della ritirata. Eppoi si poteva giocare alla Robinson Crusoe, una parola che abbraccia tutto il mangiare all’aria aperta: magari a scavare una casa sotto il bordo delle dune, ad accendere un fuoco fato di cose lasciate dal mare, per cuocervi le mele — se si trattave di vere mele, perché qualche volta ho avuto il sospetto che il venditore si sia preso gioco di noi dandoci della frutta non buona o coltivata in loco e capace di dissolversi, avvicinata a un fuoco, in mera sabbia, fumo e iodio; o magari, spingendosi fino a Tantallon, era possibile pranzare con dei bei panini e visioni di cortili erbosi, mentre il vento bofonchiava nelle torrette in rovina; oppure arrampicandosi su per la costa, mangiare le marasche (le peggiori, suppongo, di tutto il mondo) di un avventuroso ciliegio selvatico che aveva messo le sue radici sotto un dirupo, dove veniva sconvolto dalla febbre malarica del vento dell’este e argentato dal sale durante le burrasche, crescendo così estraneo al suo ambiente circostante, per cui mangiare la sua produzione era di per sé un’avventura.

    Fra i tanti ricordi raccapriccianti vi sono mescolati alcuni che furono felici. Della moglie del pescatore, ad esempio, che si era tagliata la gola a Canty Bay; e di come corsi con gli altri ragazzi su in cima alla piazza a vedere una squadra di gente silenziosa di scorta a un carro e sul carro, legata a una sedia, la gola bendata, e le bende tutte insanguinate — orrore! — proprio la moglie del pescatore, che ha continuato da quel momento in poi a popolare di incubi i miei pensieri e perfino oggi (mentre ricordo la scena) incupisce la luce del giorno. Fu messa nella piccola e vecchia prigione sulla strada maestra; ma se morì lì oppure no, preso da un saggio terrore per il peggio, non l’ho mai chiesto. Aveva preso a bere; fu una tragedia schifosa; e sembra strano e difficile da comprendere che, dopo tutti questi anni, la povera ragazza peccatrice debba ancora venir messa alla berlina sul suo carretto nel brogliaccio della mia memoria. Né mi dimenticherò con facilità di una certa casa sulla piazza in cui morì un visitatore e una oscura vecchia continuò a viverci da sola in compagnia del corpo del morto; né di come questa donna prese a odiare me e dei miei cugini e nella temuta ora del crepuscolo, mentre davamo la scalata al muro del giardino, aprì una finestra in quella casa di morte e ci maledisse con una voce stridula e con una quintessenziale scelta di linguaggio. Furono due monelli molto incolori quelli che scapparono giù per il vicolo, lontano da questa raccapricciante esperienza. Invece ricordo con un sentimento più incerto, fatto di paura e di esultanza, il vorticare delle tempeste equinoziali; sonore burrasche, scrosci di pioggia battente; le barche con le vele quadre terzaruolate che si dirigevano velocemente verso l’imboccatura del porto, dove stava il pericolo, perché era difficile infilarla quando il vento proveniva da est; le mogli che si stringevano negli scialli svolazzanti sulla punta del molo, da dove (se il fato era contro di loro) potevano vedere barca, marito e figli — tutta la loro ricchezza e tutta la loro famiglia — sparire tra i flutti sotto i loro occhi; e (cosa che ho visto solo una volta) una schiera di vicini che sospingeva una di quelle sfortunate verso casa, e lei che strillava e si dibatteva in mezzo a loro, una figura che aveva ben poco d’umano, una tragica Menade.

    Queste sono cose che ricordo con interesse; ma ciò su cui la mia memoria indugia di più l’ho tenuto in serbo per tutto questo tempo. Era un’attività tipica del posto, più particolarmente di una settimana o giù di lì della nostra vacanza di due mesi. Forse è ancora fiorente nel suo luogo di origine; dato che i ragazzi e i loro passatempi sono soggetti a forze periodiche, imperscrutabili per l’uomo; per questo motivo trottole e palline di vetro ricompaiono quando torna il loro tempo, regolari come il sole e la luna; e l’arte inoffensiva del nocchino ha testimoniato della caduta dell’Impero Romano come della nascita degli Stati Uniti. Può darsi che sia ancora fiorente nel suo luogo d’origine, ma in nessun altro luogo, ne sono convinto; perché personalmente ho cercato di introdurla su nel nord e sono stato vergognosamente sconfitto; ha un fascino che è squisitamente locale, come un vino di contadino che non si può esportare.

    Il futile meccanismo di questo gioco era il seguente.

    Verso la fine di settembre, quando si avvicinava la riapertura delle scuole e le notti erano già scure, prendevamo a dipartircene dalle rispettive residenze, tutti muniti di una lanterna di latta con lente sporgente. La cosa era talmente nota che veniva segnata nell’attivo della bilancia commerciale della Gran Bretagna; e i droghieri, quando si approssimava l’epoca, prendevano ad addobbare le lor vetrine con la nostra marca preferita di luminarie. Le portavamo appese ai fianchi a un moschettone e sopra, tale era il rigore del gioco, un cappotto abbottonato. Mandavano un odore orrendo di latta rovente; non bruciavano mai del tutto, anche se ci bruciavano sempre le dita; la loro utilità era nulla; il piacere una pura questione di immaginazione; eppure un ragazzo con una lanterna a lente sporgente sotto il cappotto non avrebbe desiderato altro. I pescatori usavano delle lanterne sulle loro barche ed era da loro, suppongo, che avevamo preso lo spunto; ma le loro non erano lanterne a lente sporgente, e poi non giocavano mai a fare i pescatori. I poliziotti le portavano alla cintura ed in questo noi li avevamo semplicemente copiati, anche se poi non pretendevamo di fare i poliziotti. Agli scassinatori potevamo in effetti aver dedicato qualche assillante pensiero, e avevamo, come no, davanti agli occhi i vecchi tempi in cui le lanterne erano più comuni, nonché certi libri di racconti in cui avevamo scoperto che esse giocavano un ruolo essenziale. Ma tutto considerato, la cosa aveva in sé un piacere superlativo; essere dei ragazzi con una lanterna a lente sporgente sotto il cappotto a noi andava benissimo.

    Quando due di questi somari si incontravano c’era un ansioso «Ce l’hai la lanterna?» e un compiaciuto «Sicuro!». Questa era la parola d’ordine, del resto molto necessaria, dato che era obbligatorio tenere l’oggetto della nostra soddisfazione al coperto e nessuno poteva riconoscere un lanternaio, se non (come per la puzzola) dall’odore. Talvolta in quattro o cinque ci si arrampicava nella pancia di un bragozzo da dieci persone, coi soli banchi dei rematori al di sopra — visto che la cabina era di solito chiusa a chiave; oppure sceglievano qualche anfratto fra le dune dove il vento ci passava sulla testa ululando. Lì i cappotti venivano sbottonati e le lanterne messe allo scoperto; e in quelle isole di luce fioca, nell’enorme antro ventoso della notte, confortati dall’abbondante vapore della latta surriscaldata, questi fortunati giovani di buona famiglia si rannicchiavano uno contro l’altro nella fredda sabbia delle dune o nelle sentine piene di scaglie di pesce dei pescherecci per starsene allegri con discorsi strampalati. Mi piange il cuore a non saper qui riportare qualche campione — alcune delle loro intuizioni circa la vita, oppure le profonde investigazioni circa i rudimenti dell’uomo e della natura, discorsi così accalorati e così innocenti, così ricchi nella loro stupidità, così romanticamente giovani. Comunque il chiacchierare non era altro che un condimento e queste riunioni nient’altro che meri incidenti nella carriera del lanternaio. L’essenza della sua felicità consisteva nel camminare soli nella notte scura; la slitta chiusa, il cappotto abbottonato; neanche un raggio che sfuggisse, a guidare i passi, a rendere pubblica la gloria nascosta; un mero pilastro di tenebra nel buio; e nel cuore, essere consapevole di avere alla cintura una lanterna a lente sporgente, esultare e cantare intimamente per tale sensazione rassicurante.

    (Traduzione di Roberto Birindelli)

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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