La Gilda del Romano
appunti sparsi – e scritti di getto – di Gianni Biondillo
Dato che per me, umile scribacchino, la forma “è” il contenuto, ho trovato davvero irricevibile il testo di Gilda Policastro, proprio per la sua forma inconsistente, friabile. Irricevibile per il tono profetico apocalittico che non ammette repliche; per gli esempi e le pezze d’appoggio portate; per la vaghezza, in fondo, delle sue tesi; per, peggio di tutto, quel discorso sottotraccia per iniziati, per addetti ai lavori, per gli amici degli amici, indifferente al farsi chiaro, al farsi palese anche a chi sta fuori dal cerchio comunitario. A chi ha scritto Gilda Policastro? A noi o a Giglioli? Se è a lui, bastava una email, se è a noi ci deve dare tutti i riferimenti e gli esempi per capire la sua tesi. E quelli palesemente mancano.
Però non mancano le frasi scolpite nella roccia. Giglioli non cita nomi. Il sospetto di Gilda Policastro è che quei nomi “non siano celati per provocatoria indicazione di metodo, ma che proprio, invece, non esistano affatto”. Wow. Ora me lo dimostra, penso. No. Niente. Lo devo accettare così, tout cour. Verbo. Oro colato.
E comunque anche se esistessero quello che si vede è “il solito paesaggio culturale contemporaneo: il perdurante dominio postmodernista dell’interpretazione sui fatti.” Cioè? Dimostrazione, nomi, testi, luoghi…. ma va’, che bisogno c’è? Ci siamo capiti, no? Dobbiamo star qui a perder tempo sul fango degli scrittori? (Tutti. Tutti insieme. Indifferentemente).
Anche perché non dobbiamo perdere di vista “la manifesta, prevaricante superiorità intellettuale (per formazione, consapevolezza teorica, orizzonte comune) dei critici sugli scrittori.”
Dove s’è manifestata, in quale funzione religiosa, qualcuno me lo dice? In cosa s’è manifestata? In chi? Come puoi affermare una cosa del genere senza uno straccio di argomento, di prova, facendomela ingoiare come ostia transustanziata?
In fondo siamo alla “separazione ormai conclamata dei ruoli”. Assì? E chi lo dice? Romano Luperini, è la risposta. Che stigmatizza “tanto l’operato dei “critici-critici” quanto quello degli “scrittori-scrittori” attuali”. Che categorie sono, qualcuno me le spiega? Con chi ce l’ha per davvero?
Ovviamente Gilda Policastro sfodera il solito mantra degli intellettuali degli anni ’70 (che bella cosa la nostalgia dei passati mai vissuti) che questa divisione mai l’avrebbero accettata (ma oggi, noi, buoi portati la macello, la accettiamo senza batter ciglio).
Ora: l’avete letto, per caso, l’articolo, così fondamentale, implicitocitato (ché fra di noi non serve chiarezza, ci si capisce, siamo fra amichetti della parrocchietta) da Gilda Policastro? No?
Bene, eccovelo. Dal Corriere della Sera (mica pizza e fichi) del 19 luglio, eccovi la violenta requisitoria luperiniana. Con alcune parentesi da me lasciate strada facendo:
Ferisce il livore con cui molti critici formatisi negli anni Ottanta e che ora hanno fra i 35 e i 50 anni parlano di Roberto Saviano.
(premetto che ovviamente il problema per me non è Roberto, che reputo come un fratello. Qui è il “procedimento Luperini” che mi interessa. Prima domanda: a chi fa riferimento il critico? Di chi parla? E quando parla di critici intende quelli letterari o chi critica tout cour Saviano, anche se fosse uno scrittore o un intellettuale o un giornalista?)
Lo accusano di essere «un fenomeno mediatico», di avere ceduto alle lusinghe dell’industria culturale, di scrivere male.
(Chi? Nomi e cognomi, please)
Nella prefazione a La bellezza e l’inferno (Mondadori) Saviano parla degli «addetti ai lavori » che lo criticano perché vorrebbero che uno scrittore si limitasse a «limare le parole». Costoro «non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare», «vivono nel privilegio delle loro vite disilluse e protette» e nell’attività di scrittore di Saviano «vedono solo una manovra furba » per avere successo. Il fatto è che la vita e la scrittura di Saviano rappresentano una smentita non solo della loro concezione della letteratura, ma della intera loro esistenza.
(ma di chi parla, si può sapere? Chi sono questi oscuri mostri da operetta? Io che sono un cazzutissimo lettore del Corriere, che apro questa pagina e leggo questo articolo, vorrei una cazzo di informazione: un nome, un cognome!)
Costoro sono dei letterati, mentre Saviano è un intellettuale. Sono narratori-narratori o critici-critici, concepiscono l’attività letteraria come settorialità specifica e separata.
(Esempi? Chi è uno scrittore-scrittore? Chi è un letterato-letterato? E’ esasperante: di chi minchia sta parlando Luperini? Sottintende? Lo sanno lui e i suoi quattro amici? E’ un gioco fra iniziati? E lo viene a fare qui, sul quotidiano più letto d’Italia?)
Saviano invece è un narratore-saggista, che fa sempre un discorso sul mondo; è ancora un intellettuale, un erede di Pasolini e di Sciascia,
(è l’unico, dunque? Non ce n’è altri in tutto il panorama contemporaneo? Nessuno nessuno? Sì o no?)
anche se ormai, di necessità, nella nuova situazione storica, non gode più del privilegio della centralità di cui gli intellettuali hanno usufruito sino agli anni Settanta.
(di quale centralità parla? Esempi, per piacere. Era un profluvio di dibattiti culturali per strada e nelle balere negli anni ’50-’60-’70? Quali, dove?)
Saviano è un intellettuale delle periferie (cosa vuol dire?). Se ha accesso alla Tv, è come «personaggio » e come «esperto» della camorra; non come intellettuale complessivo.
(perché invece Fortini impazzava in RAI? O forse, addirittura, era uno degli autori di Rischiatutto? Stiamo parlando di quella televisione fatta a pezzi proprio dal succitato Pasolini – tv clericale, parafascista, monocolore?)
Lui lo sa, e accetta la sfida (perché non dovrebbe farlo?). Costoro (chi?) sostengono che ormai si vive in una società in cui il trauma è impossibile o perennemente differito a causa della mediazione massmediologica. Dicono (chi?) che la realtà non esiste più e che si vive nella post-realtà: scambiano (chi?) un effetto ideologico, la derealizzazione, con la scomparsa della realtà. Si raccontano (chi?) una loro storia vittimistica e autoconsolatoria. Trasformano (chi?) la vicenda di una generazione di abitanti privilegiati dell’Occidente in ideologia e in visione del mondo complessiva. Non importa se accanto a loro (chi?) ci sono i migranti che attraversano il Mediterraneo o le famiglie travolte dalla crisi economica. Loro (chi?) appartengono alla razza di chi non conosce il trauma. Non possono che detestare Saviano (chi, cazzo, chi???), che il trauma glielo sbatte in faccia. Costoro si sono formati in anni di ilare nichilismo.
(Ma porca miseria! Se non mi dice di chi parla pare che TUTTI siano così! Tutti quelli che hanno dai 35 ai 50 anni. E cazzo, no! Io ne ho 43 e non sono per un cazzo così. E non lo sono i miei amici scrittori, critici, intellettuali, artisti, musicisti! Non lo sono i miei compagni di strada architetti, non lo è mio cugino imbianchino. Questa è una cazzutissima generalizzazione. Generazionale tipica dei vecchi tromboni. VOGLIO NOMI E COGNOMI! Voglio prove, documenti, fatti, non sottintesi, ammiccamenti, strizzatine d’occhio).
Saviano è venuto dopo: appartiene alla generazione dei precari, dei giovani disperati senza futuro, che hanno molto in comune con i marginali e i migranti appena giunti nel nostro Paese.
(dunque l’intera generazione dopo (“dopo” cosa?) è, tutta insieme, salva, redenta?)
Come possono capirlo quanti si barricano dietro una cultura italica da anni Trenta (cosa vuol dire?) e ripetono nei confronti di Silvio Berlusconi e del berlusconismo le stesse posture che i letterati italiani misero in campo contro Benito Mussolini e il mussolinismo? (Chi, cazzo, chi? Nomi e cognomi! Con chi ce l’ha, mi dia uno cazzo di appiglio, uno straccio di prova. Eviti banali generalizzazioni!) Ripropongono il vecchio strumentario di sempre del letterato italiano: la protesta politica ridotta a battute di spirito (fatte circolare, ora, via internet),
(esempi, per piacere. Io non le ho mai ricevute queste mail. Chi frequenta Luperini? Ha la certezza che siano sempre i 35-50enni a mandargliele? E soprattutto: non ce l’ha un antispam?)
la chiusura in piccole cricche (quali?), il formalismo (cioè?), la difesa di una vecchia idea di letterarietà, la torre d’avorio di una presunta purezza che eviterebbe qualsiasi contaminazione con il mondo dei media. Sono dei provinciali.
Ma porca puttana: di chi cazzo stai parlando, Luperini? È questo il coraggio della critica militante? È questo l’affondo nelle carni della società letteraria? È questo l’esempio della manifesta superiorità della critica rispetto alla letteratura?
Be’, Gilda, non te ne avere a male se non riesco neppure a terminare di leggere il tuo articolo. Giglioli vale Luperini, per me. E a questo punto scegliere l’uno per dare addosso all’altro è senza valore critico. Luperini m’ha frantumato le palle col suo non dire, col suo ammiccare. Io non ho nulla da imparare da chi ha a disposizione la più diffusa pagina culturale nazionale e la usa per farsi aria alle ascelle. Fortunatamente Saviano non ha bisogno di lui per portare avanti la sua battaglia. Chiediti però se tu hai bisogno di Luperini per mettere le pezze al tuo articolo già di suo fatto di una visione della letteratura contemporanea che appare ideologica, piuttosto che, se me lo passi, innamorata. Come vorrei fosse lo sguardo di chi, come tutti noi, dedica la vita alla letteratura.
Sarà anche irricevibile, ma il suo interventazzo s’è buscato commenti nell’ordine numerico delle centinaja, e due post due di chiose. Ha risposto con burbanza a un pajo di interventi all’inizio, in modo da dar fuoco alla miccia di una discussione nella quale chiunque sa che cosa dire, dato che è solfa strasuonata, rancida e imbozzolata nella botrite, ed ecco che un intervento stupido, ritrito, insignificante, inutile, nojoso diventa la pietra d’inciampo per tutti i gonzi indiani.
Io dico: GRANDE Policastra; BRAVA, Policastra, che hai messo tutti nel sacco ricicciando due vaccate ammuffite!
Questo è scrivere.
Bella donna, peraltro.
Luperini sembra uno che s’è imparato il discorso quando “qualcuno era comunista” (come direbbe Gaber) e c’era il popolo, e i padroni, e i servi dei padroni e i servi del popolo. Adesso che ci sono solo i Simpson lui va avanti con l’unico discorso che sa, come un disco rotto. Ma tant’è, dev’essere più vecchio di me e persino più rincoglionito. Il grave è che una giovanotta fresca e piacente come la Policastro segua a ruota (ma è lei quella della foto? bellina proprio).
La Critica? Ne conosco solo di tre tipi:
pedagogia della lettura (es. Bachelard)
ricostruzione estetico-filosofica dell’atto creativo (es. Bachtin)
elaborazione di un canone, ovvero distinzione dell’opera grande e innovativa dall’artigianato di maniera (es. Bloom)
La sociologia NON E’ MAI STATA critica letteraria, soprattutto quando interessata a distinguere tra pubblico e pubblico più che tra opera e opera. La cosiddetta critica marxista è stata un’equivoco pluridecennale: oggi in mancanza di una pedagogia rivoluzionaria può solo prestarsi a equivoche operazioni editoriali (visto che gli Unni di ieri oggi siedono sui cadregoni delle più grandi case editrici).
Agli scrittori si devono chiedere occhi nuovi per guardare le cose, non di roteare lo sguardo qui piuttosto che là: gli scandali della cronaca o i misteri d’Italia diventati barzelletta sono meno interessanti per l’arte della sedia di Van Gogh, anche se ammantati della categoria dell’epico, come vuole il mio amico Wu Ming1.
A che vale la storia e la metastoria se sono recitate da marionette che declinano la medesima psicologia dei serial televisivi? Se la letteratura deve salvare il mondo non lo farà con categorie antropologiche trascritte dall’epoca antidiluviana, ma tirando fuori per i capelli l’uomo che galleggia in una sottocultura fatta di determinismi sociologici e mediatici che anche il marxismo ha contribuito a veicolare.
al volo… una cosa che mi ha infastidito oltremodo… passi una volta, ma due…
Binaghi scrive qui: https://www.nazioneindiana.com/2009/08/28/critica-letteraria-di-nomi-e-cose/#comment-118189
“Questa Policastro, che magari ha trent’anni ed è un bel pezzo di figliola, non sembra la sorella nubile ed estratta dalla naftalina di Muscetta e Salinari?”
Domanda: perché proprio nubile… non potrebbe essere la sorella in naftalina ecc e basta? E se la Policastro non avesse avuto trent’anni e non fosse “una bel pezzo di figliola”, la cosa ti avrebbe scandalizzato meno?
e in questo post:
“Il grave è che una giovanotta fresca e piacente come la Policastro segua a ruota (ma è lei quella della foto? bellina proprio).”
E se la Policastro non fosse stata “fresca e piacente”, allora la cosa è meno grave? Che collegamento c’è fra l’eventualità d'”essere fresca e piacente” e il seguire a ruota uno studioso di letteratura?
sarei curioso di sapere da Binaghi: se a scrivere l’articolo incriminato fossi stato io, trentacinquenne maschio non sposato, avresti utilizzato gli stessi argomenti fallocratici? Non mi stupisce che la studiosa non ti risponda. Patetico!
Biondillo mi trova d’accordo. Il sessismo gratuito e patetio di certi commentatori decisamente no. Sono un tizio di 38 anni, per inciso.
*patetiCo.
Ma non è stato Binaghi il solo patetico. Anche effeffe, e lo stesso Biondillo, molto probabilmente, le hanno dato tutto ‘sto peso solamente perché è un gran pezzo di ubalda. Altrimenti, come si spiega questo interesse? Certo non con il pezzo che ha scritto, che è, si può dirlo tranquillamente, una farragine di inconsistenze messe insieme alla cacchio.
Comunque concordo: bella donna veramente.
Devo ancora capire come si possa impostare una critica avendo come parametro Saviano, che non è uno scrittore ma, sino ad oggi, un reporter originale e innovativo. Ciò conferma quello che dicevo nell’altro post, che oggi sembrano proprio mancare le categorie ermeneutiche. Ciò che afferma Luperini è risibile, ciò che afferma Policastro incomprensibile, e la rabbia di Biondillo sarebbe giustificata se egli sapesse a propria volta, decostruito il fragile castello luperiniano, costruirne uno proprio – cosa di cui dubito. Domando infatti a Biondillo: secondo lui è giusto considerare Saviano un intellettuale e uno scrittore centrale? Solo un intellettuale? Solo uno scrittore? E la rabbia impotente (tutti quei cazzo…) che egli prova leggendo i fumi critici di Luperini, non dipenderà dalla consapevolezza che oggi a tutti noi innamorati della letteratura sembra molto più facile distruggere piuttosto che costruire? E il fatto che sia più facile distruggere che costruire, dipende da un’impossibilità reale o da una pigrizia mentale? In altri termini: in quale era ci troviamo? I cento e passa post (di cui due miei, mea culpa mea culpa) sul pezzo della Policastro hanno condotto a un’enorme confusione soltanto per colpa della nebulosità della Policastro, oppure la confusione aleggia già nell’aria? E la nebulosità della Policastro non è forse pressoché fatale in un contesto in cui – torno a ripetere – vengono a mancare molti punti d’orientamento che fino a pochi decenni (anni?) fa ancora (r)esistevano? A chi dovremmo guardare, oggi (posto che ce ne freghi qualcosa): all’obsoleto Eco? All’astioso Berardinelli? All’ideologico Asor Rosa? Al santo protettore di Faletti D’Orrico? A Citati, che non fa altro che narrare e rinarrare inseguendo lo scrittore che non è? E perchè critici giovani e validi (ne cito due, Cortellessa e Ficara), non godono più, come un tempo, d’un credito vasto e consolidato? Perchè è tutto parcellizzato, monocellulare, autoreferenziale? Perchè la Policastro sembra vagare nel deserto, quando tutto lascia pensare che lei faccia il proprio lavoro con passione e serietà? E ancora: i blog, strumento per alcuni versi meraviglioso, hanno frantumato i luoghi d’incontro materiale d’un tempo (i mercoledì a casa Einaudi, ad es.), oppure i luoghi d’incontro si sono frantumati e quindi sono arrivati i blog? E via andare, fino a riveder – si spera – le stelle.
… non sono un critico nemmeno uno scrittore sono un nonscrittore in crisi continua
… con policastro ho dovuto scrivere un bel pò (lo ammetto non sono ferrato nello scrivere e nel ben argomentare non sono un cavallo di vocaboli nemmeno un treno di nomi e circostanze letterarie o letterare secondo alcuni però conosco molti pusher) per capire di aver sentito male e che il lettore non ero io no ecco il lettore simbolico non è uno come me
… ora sento meglio, il lettore simbolico continuo a non essere io (le poche nozioni di critica [lo dico con un pizzicorio di vanità] le ho acquisite all’università durante le lezioni di francesco orlando) ma immagino di poter almeno esprimere un parere tipo Sì, biondillo ho capito
… e per esempio (ma non c’entra molto) tra genna e busi io preferisco busi anche rispetto a saviano preferisco busi e per quanto riguarda la critica sono fermo a carmelo bene (ma questo non c’entra)
… e poi c’è questo che biondillo non è arroccato nella sua cas(t)a se no non usava il telemedia internet
… e poi la totale assenza di sessismo maschiocentrico lo rende uomo e di significante dispotico lo fa condivisibile anche da un alletterato e inalfabeta come me (ma con il fallocentrismo non c’entra policastro quanto uno dei commentatori preparatissimi e precedenti)
… beh grazie biondillo
@ Gianni
Ogni volta che leggo coglionate (ebbene sì, nomina sunt consequentia rerum, come la signora Policastro si picca di ricordarci, a noi che evidentemente non abbiamo fatto il liceo), resto basito dallo spessore logico del ragionamento. Un circolo vizioso inattaccabile: se Monna Policastro ha ragione, io, te e chi più ne ha più ne metta non siamo “veri” scrittori, non siamo all’altezza del mandato assegnatoci dalla Storia (ma dio, che hegelismo di bassa lega, di quelli che scivolano via Papini e Marinetti fino al crapone di Predappio!): e allora, a che titolo potremmo intervenire? Se invece ce la caviamo, insomma qualcosa siamo in grado di combinare (alcune centinaia di spanne al di sotto di McCarthy e Foster Wallace, ma non proprio rasoterra), allora l’intera policastrista costruzione della policastratrice Policastro si scioglie come una medusa sugli scogli, dopo aver urticato altrettanto: e allora, a che perdere tempo a risponderle? Perché la fatica di rimandarla a settembre con un minimo di popperismo, quando possiamo liquidarla con la pernacchia di Edoardo? Che abbiamo i meglio da fare: famiglie a cui badare, libri da leggere e ogni tanto da scrivere, barbe da farci, acciughe da spinare, brufoli da spremerci, culi da grattarci…
… il problema è che non siamo usi ragionar per rizomi e paradossi e come dire non sappiamo essere profondamente stupidi e cincischiamo tra chiaro e oscuro tra tutto e nulla tra uno e zero il digitale sono due stampelle tutto il resto è divenire-folli e insomma ma la letteratura è\e la critica è fatta da esseri umani che la mattina fanno la cacca come tutti gli esseri umani e allora saranno influenzati dal mondino italiano in cui ancora di picchiano i gay (per esempio) oppure lo scurati me lo vedo a notte alta e sono sveglio (da marzullo) e il mio chiodo fisso è la pedofilia prima l’anoressia di giordano e poi il precario che non trova lavoro fisso (ma chi se ne fotte del lavoro e chi se ne fotte del pane cosa è questa fregola di sottovivere anziché morire decentemente) e allora il loro corpo è stato abusato e il loro scrivere è divenire-traumatizzato mi domando e se io giovane sconosciuto gay voglio scrivere o criticare una categorie omosessuali o transessuali siamo preparati? e se poi arriva la non rappresentabilità dell’opera e l’inefficace della critica -critica di che del divenire-scrittore mi domando- e perdo il filo perché è giusto che sia così siamo la lapide di noi stessi avanti non roviniamoci anche gli epitaffi…
@ Francesco Sasso
Ne ho scritte di cose, e tu solo questo ti sei appuntato?
Fallocratico? L’ultima volta che ho udito pronunciare questo termine senza ridere era l’82 o giù di lì. Un chierichietto del populismo femminardo mi mancava. Esci dalla naftalina e fatti due risate, figliolo, che ti vedo male.
.criticare con categorie.
@Binaghi,
Sì certo, Papi, due risate con un chierichietto in naftalina… wau, sei un grande, la sai lunga tu…
quoto quel vecchio segaiolo di vbinaghi
Pensare che ho rischiato di fare il critico letterario.
Che bello aver cambiato carriera.
A proposito: nel cambio di carriera ha avuto una parte anche Luperini.
1) Valter,
non t’arrabbiare, ma concordo con Francesco Sasso. Le battute sessiste, anche se lievi e innocenti, mi indispongono sempre. Ché nessuno qui ha mai detto che Luperini è un gran pezzo di manzo, o minchiate così. Il genere sessuale e l’eventuale avvenenza del mio interlocutore non mi interessano in questa sede. Mi interessa quello che scrive. Se passassimo dalla critica delle idee alla diatriba personale (e all’insulto, allo sputo) avremmo perso. E purtroppo qui suoi blog capita troppo spesso. Quindi mi scuso io personalmente con Gilda Policastro delle inutili battute (vedi Anfiosso) che sono state fatte in questo treadth. (parliamo, invece, delle tue tipologie di critica proposte, Valter)
2) Diamante,
la mia, ovviamente, è una modalità retorica. Mica sono arrabbiato per davvero. Pensa che dopo che ho pubblicato il pezzo sono uscito di casa, ho fatto una passeggiata, ho incontrato alcuni amici, abbiamo cenato fuori, etc. etc. e sono tornato solo ora (vado a letto sempre molto tardi, ho il fuso orario interno sballato). E non sto mica mettendo in dubbio l’intera carriera accademica di Romano Luperini, che mi dicono essere un’ottima persona, tra l’altro. Ma come al solito io parlo dei testi, non delle persone. Tu mi pare, invece, che parli di me come persona quando dici che sospetti non abbia la capacità di costruire un mio proprio castello teorico. In nome di cosa avvalli il tuo sospetto? Conosci le cose che faccio da anni? O sei, involontariamente preventivo? Te lo dico senza acrimonia, ché il problema vero è che a furia di dirci che tutto va male non vogliamo mai vedere quel poco di bene che forse c’è, per abitudine, per inerzia (non parlo di me, ti prego di non confondere. io sono l’ultimo degli ultimi).
Inoltre controlla i tuoi lapsus. Dici: “E perchè critici giovani e validi (ne cito due, Cortellessa e Ficara), non godono più, come un tempo, d’un credito vasto e consolidato”
Giovani critici? Andrea è un quarantenne come me. Ma quand’è che poveraccio potrà essere un critico e basta? Ficara, poi, credo ne abbia circa sessanta, insomma, basta! E chi ti ha detto che non godano di vasto credito? Io, per dirti, amo come un matto litigare con Cortellessa. ;-) E non c’è cosa che scriva che, appena posso, non mi fiondi a leggerla.
Infine: i blog non mi hanno parcellizzato e virtualizzato i rapporti umani, semmai me li hanno moltiplicati. E’ sempre l’uso che fai del mezzo tecnologico che fa la differenza.
3) Girolamo,
la tua aporia mi lascia disarmato! ;-)
4) grazie a tutti gli altri lettori e commentatori.
@Gianni
Io con la Policastro mi scuserei se l’avessi definita uno scorfano, o se avessi messo in dubbio che una ragazza carina in quanto donna o in quanto carina possa dire cose intelligenti. Ma sei tu che, maliziosamente, hai messo una foto che non serviva,
Ho definito decrepito un certo modo d’impostare il discorso critico, e tu nei hai accostato gli ascendenti, rendendo ancora pià chiaro il concetto. Quello che ho scritto su marxismo e letteratura è conciso e comprensibile. Se qualcuno vuol rispondere sono qua.
La Policastro invece dovrebbe scusarsi per il tono spocchioso (prima di dichiarare la propria superiorità di casta bisognerebbe dimostrare di esistere in pensieri, parole ed opere) ma soprattutto per la scrittura involuta che esibisce. Prima di discettare di scrittura, imparare a scrivere chiaro e incisivo, sarebbe buona regola.
[…] Guarda Articolo Originale: La Gilda del Romano – Nazione Indiana […]
@biondillo
Scusa, ma io non ho messo in preventivo nulla, né tiro avanti alcun sospetto; ho domandato candidamente se a tuo avviso, oltre che distruggere, oggi sia possibile anche costruire; e se sì, quale sarebbe una linea da seguire, nella critica come nella narrativa. Policastro se non altro ci ha provato, e guarda cosa ne ha ricavato: insulti e prese in giro. Luperini ci ha provato e, a mio avviso, ha detto assurdità memorabili. Ma è possibile nel magma attuale non dire assurdità, tracciare una linea credibile, riconoscibile, attendibile? Oppure il magma attuale me lo sogno io? Questo è il punto che volevo mi delucidassi.
ps: sui “giovani” critici sono caduto anch’io nel perverso meccanismo gerontocratico di questo marcescente Paese; però mi resta la sensazione che oggi Cortellessa discuta con te, discuta con altri, impazzi sui blog (se lo desidera), ma non goda, non possa godere del credito, dell’autorità di cui avrebbe goduto venti o trenta anni fa. Questo, forse, non è necessariamente un male; ma è un fenomeno di cui occorre tener conto nel momento in cui s’affrontano i temi che qui si stanno affrontando. Parliamo del dito, insomma, o della luna?
sessismo (Binaghi ma anche altri)
Volgarità e ignoranza umana. E poi questa persone vorrebbero porsi come alternativa culturale e informativa al modello creato da S. Berlusconi con le sue tv, ma proprio come lui, quando si trovano davanti una donna attraente che ricopre un ruolo, si sentono autorizzati ad fare commenti che nulla hanno a che vedere con gli argomenti portati dalla studiosa con cui si stanno rapportando su di un argomento più o meno accademico. L’idea di dover rispettare l’interlocutore in quanto persona e non “carne da esposizione” proprio non li sfiora. Proprio come il buon S.B. fa da svariati anni collezionando una figura di m—a dietro l’altra. Restiamo in attesa del fatidico e inesorabile: “Nuda” e “Spogliarello”. Il rituale da osteria porta inevitabilmente in quella direzione.
E Policastro, si metta in ginocchio sui ceci e si scusi con il maestrino dalla penna rossa per il tono spocchioso,che il tono spocchioso e lapidario qui ce lo può avere solo W. Binaghi, se lo metta bene in testa lei che è pure carina.
Madonna quanto si sbatte sto Biondillo per poter dimostrare che pesa anche letterariamente, oltre che come massa corporea in sé.
@Già
Se anche fossi il ripugnante satiro che dici o un fans del Papi cui mi accosti, dovresti ringraziarmi. Ti ho dato modo di mimetizzare il vuoto pneumatico della tua cultura con le solite tirate stupidamente ideologiche con cui il chierico di ogni tempo giustifica la propria esistenza.
Addenda. Il nickname è la divisa del vile.
Caro Valter,
ricordo che il nostro primo confronto nacque in modo assai poco promettente, ma per fortuna, dopo pochi scambi, capimmo che mettendo da parte i “muscoli” avremmo potuto guadagnarne entrambi.
Adesso ci scambiamo libri ed idee.
Questa mi sembra un’ottima occasione per ripetere quell’esperienza. Dunque perché non ci concentriamo sui nodi problematici dell’articolo di Biondillo e lasciamo da parte tutto il resto?
Luperini, nel suo articolo per il Corriere, non fa che replicare quello che già nel 2004 pubblicò sulle pagine dell’ Unità: Intellettuali, non una voce. Con un’unica differenza, stavolta ha trovato la voce: Roberto Saviano.
Allora al problema posto da Biondillo, ossia che nella pars destruens di Luperini manca il “chi”, bisognerebbe aggiungerne un altro, ossia che nella sua pars construens manca il “come”.
A ben vedere definire Saviano un “intellettuale” è molto comodo per l’interprete, perché gli consente di occuparsi del “cosa” egli dica, inteso come la realtà materiale a cui il suo racconto fa riferimento, e tralasciare il “come”, ossia quella costruzione del reale che può essere rintracciata solo all’interno dell’opera. Se parliamo di letteratura dovremmo occuparci soprattutto di essa, e assai meno della “carne e delle ossa” di chi la produce. Questo può andar bene se a farlo è il cugino di Biondillo, un po’ meno se invece lo fa uno dei maggiori critici letterari italiani.
Ma non voglio parlare di Gomorra, mi preme piuttosto sottolineare la dannosità, per la comprensione dei fenomeni letterari contemporanei, di un atteggiamento diffuso nella critica letteraria italiana. Si tratta di fondamenti metateorici che condizionano il discorso ancor prima che esso incontri i testi. Interpreti come Luperini, Berardinelli, Ferroni, Policastro (e molti altri) scordano che le ipotesi non hanno alcun valore se prescindono da un “lavoro di verifica testuale”.
Le ipotesi storiografiche “forti” (come ad esempio il passaggio dalla modernità alla postmodernità su cui Allegoria ha speso fiumi di inchiostro) contribuiscono alla ricerca retorica non solo tonificandola, ma offrendole di fatto ipotesi strutturali preliminari. Si comprende cioè l’unità di riflessione storica e retorica. Ma se ne coglie anche la distinzione: quelle ipotesi preliminari sono infatti convalidate solo dopo un lungo e faticoso cammino all’interno del territorio testuale, dove l’analisi deve potersi offrire anche alla confutazione. Ma cosa si può confutare a Luperini ed alla Policastro, se non c’è neppure un terreno comune su cui poggiare i piedi?
Resta forse un’unica cosa confutabile ed è la contraddittorietà della loro posizione, perché da una parte ereditano dalla critica marxista un presupposto fallace, ossia che il rafforzamento del capitalismo implichi un allineamento della sfera culturale, e dall’altra sembrano sostenere che nelle società a capitalismo avanzato la sfera culturale sia del tutto neutralizzata: tutto è possibile, perché nulla ha ormai importanza. E’ però difficile, se non a patto di contorsioni argomentative, tenere assieme allineamento e neutralizzazione. Una sfera culturale allineata presuppone infatti ortodossia ed intransigenza simbolica, mentre una neutralizzata presuppone, al contrario, un’interazione simbolica del tutto libera da valori guida. La particolarità della situazione italiana può però trarre in inganno, poiché, soprattutto nell’ultimo quindicennio, il potere politico ha tentato continuamente di reprimere l’autonomia della sfera culturale con delle vere e proprie azioni di forza.
Eppure Luperini (e con lui Ferroni, Berardinelli e Policastro) nell’analizzare la cultura italiana, non riesce a cogliere il divario tra la sfera politico-economica e quella culturale, supponendo che la seconda non possa che replicare le strutture della prima. Marxismo invecchiato male?
Binaghi, non solo non ti ringrazio, ma ti trovo un becero misogino sessita di quart’ordine che si nasconde (come molti altri) dietro la foglia di fico di pile e pile di libri divorati ma mai assimilati, cultura posticcia, usata a mo’ di parrucchini e botulini berlusconiani, lunghe letture che hanno sicuramente modificato la tua capacità mnemonica, ma non il tuo primitivismo umano e la tua ignoranza comportamentale.
@Dimitri
Finalmente un cervello! Grazie.
Marxismo invecchiato male, chiedi? Io dico: invecchiato come doveva invecchiare. Il marxismo non ha mai avuto categorie per interpretare il fenomeno estetico, se non quelle sociologiche, che possono delucidare il rapporto tra artista, istituzioni culturali e pubblico, ma non entrare nella fenomenologia profonda dell’evento del Linguaggio. Tanto è vero che la migliore estetica “marxista” del XX secolo, quella di Benjamin, non è marxista affatto, ma trae le sue categorie da suggestioni della tradizione ebraico-cabalistica e da un percorso esistenzialistico molto personale.
La neutralizzazione dell’intellettuale nel circo pornografico dei media (su cui il buon Scurati chiagne e fotte tra l’ultimo romanzo e le sue passerelle televisive) è un fatto, ma questo non significa la distruzione dell’arte, semmai il suo esilio, la rinuncia al privilegio simbolico che le è stato tradizionalmente accordato. Ben lungi dallo sgomitare per rivendicare spazi nell’industria culturale, utilizzando mezzi ed amplificazioni che solo le conventicole ideologiche o il profitto dell’editoria di bottega possono garantire, bisognerà che l’artista abbia fiducia nell’unica eredità che nessuno potrà togliergli, se non sarà lui stesso ad annacquare il proprio vino. Qualcosa che non può confondersi con la descrizione oggettivistica del reale o la moneta spicciola dei sottintesi stereotipi di cui vive il linguaggio ordinario: l’unica mappa che è anche territorio, il fenomeno di un’immagine che non indica nè traduce ma è in grado di suscitare slancio vitale ed esperienza primigenia in chi la indossa. Attenzione: siamo agli antipodi dell’esoterismo o dell’elitarismo con cui avanguardie e neo-avanguardie hanno provato disperatamente a provocare il corto circuito nella “ratio dominante”, fino ad irretirsi nella coazione a ripetere dello schock a tutti i costi. Qui l’unica aristocrazia che fa testo è quella del coraggio della semplicità, della conversione alla sapienza (al “sapore” del reale), della rinuncia ai facili consensi della politica culturale o della cassetta, ma anche all’autobiografismo che è più risentimento che interiorità. Se l’artista non ha fiducia nella “trascendenza” del suo dono, la manna si riempirà di vermi. Fuori dai denti: meglio il ghetto che certi sponsor, ma non si tratta affatto di coltivare una solitudine fine a se stessa: ci sono tempi in cui il custode del talismano viaggia in silenzio, alla ricerca di affinità profonde che non si possono riconoscere nel berciare della folla.
Si chiama attesa strategica, non rinuncia.
Quello che apprezzo nella categorizzazione della New Italian Epic è l’aspirazione all’ampiezza di sguardo, la giusta ambizione di raccontare la Storia. Quello che non mi convince è la resa agli stilemi della letteratura di genere, che eredita gli stessi stereotipi socio-antropologici di una civiltà alienata e in disfacimento. Quella che tu chiami “analisi testuale” (e che gli strutturalisti hanno praticato come l’autopsia di un cadavere), preferirei definirla iniziazione alla lettura. Sa di pedagogico, ma contiene in sè un’ambizione alla ricerca di una profondità che è ben altra dalla “chiave” per sciogliere definitivamente l’enigma del testo: è piuttosto un invito a ritrovare nel testo la propria profondità, un invito a vivere. Niente di tutto questo potrà venire dal marxismo vecchio o nuovo: è un’interpretazione dell’esistenza sociale nei termini della civiltà industriale, già superata negli anni Cinquanta. Se sopravvive, è perchè ci sono generazioni di professori e scrittorelli che dalla rivoluzione ci hanno cavato un mestiere. Come diceva uno scienziato famoso, le nuove idee si fanno strada nel sapere pubblico quando si è fatto il funerale dell’ultimo accademico della generazione precedente.
@Gianni
Il cretino che si firma Già, qui sopra, è tutto merito tuo. E’ inutile che poi mi chiami a casa per dirmi che mi vuoi bene se poi avvalli l’idea di un mio presunto sessismo da due lire: il meccanismo del capro espiatorio, per cui quando qui passa qualcuno che non è all’altezza dei dibattiti scarica insulti e accuse pretestuose sul primo che capita non l’hai inventato tu, ma mi conosci (e mi hai pure letto) da anni, e sai benissimo come interpretare una mia battuta. Cosa c’è, non vuoi fare brutta figura col chierichietto femminardo? Meglio lasciare impallinare il cattolico vero o presunto? Va bene che qui gestisci uno spazio e l’audience ha i suoi diritti ma riesci veramente a trovare nei miei commenti un insulto alla gentile Policastro?
Mi spiace Gianni, quello che ho scritto qua sopra a Dimitri vale anche per te. Sei un caro ragazzo e uno scrittore di talento, ma non buttarti via per così poco: questa riserva Indiana sta diventando di un conformismo insopportabile, stupiscici qualche volta.
Ma come si fa a giudicare se una ragazza è carina da una foto? E’ come indovinare se un libro è scritto bene leggendo solo il parere di un critico.
perché avete messo le foto di cloney e la canalis?
Binaghi, chi non comprende e vede le ragioni di metà dell’universo (quello femminile), è un cieco, dal punto di vista epistemologico, e farebbe bene a dedicare il proprio mezzo sguardo allo studio dei flussi univoci di transumanza (e solo su determinate rotte), piuttosto che alla critica letteraria, perché uno che vede solo una parte della realtà e delle sue ragioni, non ha nulla da insegnare a chicchessia.
@Già
Infatti non mi occupo di critica letteraria: per vivere insegno filosofia in un liceo. Alunne, moglie e figlia mi trovano sopportabile, con me parlano volentieri, si vede che qualcosa capisco. Lei a quale metà del mondo appartiene? Quella dalla cintola in giù, presumo.
… voi italiani colti trasformate tutto in faziosità in questioni personali e rendete tutto di una noia mortale tanto che io ignorante e beato di ignorare non ho punta voglia di divenire colto sì proprio divenire e sprezzo la cultura che non sia quella non condivisa delle mie peregrinazioni mentali
… e loro? non t’hanno preso in giro che so spappagallando la solita solfa tipo peregrinazioni? oppure no?
… non saprei uso i commenti più per esercizio mio che per ottenere chiarezza o per scambiare idee lì le idee se la scambiano se sono perfettamente uguali altrimenti il gioco non funziona
… è chiaro siamo faziosi
… non tutti
… ma dai gira e rigira
… ti dico di no io non sono fazioso e tu hai torto
… ma che gli italiani non siano brava gente
… su questo te l’appoggio, e compensano il provincialismo con la puzza sotto il naso verbalizzando commenti lunghi una spanna per dimostrare non so cosa
… orgoglio tipico maschile
… dici?
… sì ma chi se ne frega e poi cosa c’entra con il post
… nulla ma tanto è uguale è materiale per il romanzo che sto scrivendo per il mio gatto che ha una cucciolata e la sera prima di nanna vorrebbe leggere ai piccoli qualcosa prima di farli addormentare
… capisco
Vi chiedo il piacere di smetterla di perder tempo dietro questioni inesistenti. Ora che abbiamo appurato che Gilda Policastro è una bella gnocca e io un ciccione di merda (come sottintende Tartarin di Tarascona) vediamo di tornare al tema.
Insisto: per piacere. Lo chiedo a tutti, a Valter, a Già, a chiunque. Seguiamo il ragionamento di Dimitri, parliamo. Io non ho mai avuto paura di discutere anche animatamente. Ma dei testi, vi prego, non delle persone.
(ai Tartarin di Tarascona del caso: potete insultarmi quanto vi pare, non mi fa né caldo né freddo. Chiedo però di evitare insulti o sottointesi maliziosi nei confronti dei miei ospiti. Vi cancellerò prontamente).
A Diamante, scusa ma non ho il tempo (ho la casa sottosopra e mia moglie torna stasera da un lungo viaggio). Mi farebbe piacere, però, se trovassi il tempo tu di leggere questo:
https://www.nazioneindiana.com/2006/02/10/gentilissimo-alfonso-berardinelli/
non è la risposta che chiedi, ma è l’atteggiamento che io “perseguo”. Forse può aiutarti a capire cosa intendo.
Ah, poi: su Cortellessa che “impazzi sui blog” mi pare sia una tua sensazione. Abbiamo fatto una fatica a pubblicarlo qui!!! ;-) In fondo è un timido. A lui basta un tavolo e una pigna di libri per renderlo felice.
Sul fatto che “non goda del credito, dell’autorità di cui avrebbe goduto venti o trenta anni fa”, senti: io sono abbastanza stufo di questo edenico trentennio precedente a noi, dove si moriva per strada con una spada nelle vene, o ci si spaccava il cranio con una spranga di ferro. Gli intellettuali godevano (ma sarà poi così vero?) di così tanta credibilità? E chi se ne frega! Oggi non è più così, mettiamocelo in testa e diamoci una mossa, ché lamentarci sempre, colmi di nostalgia, è un esercizio insopportabilmente italiota che non riesco più a digerire.
Una stretta di mano, G.B.
[Ok. Non mi date retta. Cancello. G.B.]
[Tartarin. O argomenti o insulti me. Gli insulti ad altri non sono ammessi. G.B.]
[vedi sopra. G.B.]
ho la figlia che mi si è appena diplomata. è incerta tra fare lettere o la letterina. cosa mi consigliate?
Riporto qui l’ultima affermazione di Binaghi a cui rispondevo.
BINAGHI:
(“Lei a quale metà del mondo appartiene? Quella dalla cintola in giù, presumo.)
MIA RISPOSTA: “Tenga a bada le sue cintole che le mie etc etc etc”
Biondillo cancelli pure quello che si sente di cancellare, ma stili anche una lista degli ‘ospiti’ in chiaro, almeno non si perde tempo a rispondere ai LORO insulti. Tanto verrebbero cancellati.
Diamante OK! Biondillo ad ogni intervento ha cercato di posizionare sempre meglio il suo ego. Non ha svolto una critica appropriata a Luperini, il quale ha scritto un articolo debole, senza nerbo, costrutto e senza nomi. Policastro evaporante fino al nulla.
Scherzate?
perché le critichesse di sinistra hanno l’aria kleiniana?
Dio ha creato ogni cosa dal nulla. Ma il nulla si fa vedere qua e là (Paul Valery)
Secondo me i critici si dividono in tre categorie:
Buoni (Klein), Spontanei (Winnicott) Eccentrici rispetto a se stessi (Lacan).
Invece non se ne trovano di freudiani.
Ed è il terrore che, naturalmente, ci spinge tra le braccia degli esperti, che “porta il prete e il dottore / nei loro lunghi abiti / a correre attraverso i campi”, scrive Phlip Larkin nel suo poema Days.
[Per piacere, basta con le battute fuori luogo. G.B.]
e se i critici ci mettessero anche un po’ di CREATIVITA’? se fossero artisti, ma neanche molto, ci basta una dose media, della critica? se provassero a scrivere letteratura in forma di critica, riuscendo a valutare con onestà (si presume intellettuale) i libri che leggono prescindendo dai loro autori? e’ chiedere troppo? io sono uno esigente; e mi sono abbastanza stufato (e qui biondillo ha ragione) di un luporini che scrive senza fare nomi. peraltro, non condivido lo spirito di questo suo intervento; volendo criticare gilda policastro e la sua presunta “cordata” ha dato un’importanza francamente eccessiva a gilda, alla discussione “triangolo” con forlani come terzo, dalla quale, mi dispiace dirlo in pubblico perchè si tratta di amici, ne sono usciti con le ossa rotta. nazione indiana deve difendersi se viene attaccata davvero. che policastro sia spesso insopportabile è un dato di fatto – ci ho litigato anch’io in altri siti – che sia una che ti porta in una discussione eschilo in “lingua originale senza sottotitoli” facendoti giustamente incazzare è altrettanto vero. ma qui siamo alla solite. quali? che nazione indiana, e lo dico da ex e da supporter (non risparmio le critiche ma nemmeno le lodi, se trovo del bello, e del bello ne trovo ancora spesso) da queste discussioni ci esce male, malissimo. è il mio personale punto di vista, ma non potevo tacerlo.
e.c.: ossa rotte
@ Valter. Per quanto riguarda Benjamin. Io ho deciso di non usarlo per le mie analisi letterarie, magari cerco di appropriarmi di alcune molecole del suo pensiero, ma solo come un pungolo, non come un appiglio. Il motivo è abbastanza semplice: credo che il suo uso da parte della critica letteraria non abbia portato grandi frutti, anzi. Lo stesso Luperini parte dal concetto di allegoria benjaminiano per poi investire i testi con un apparato metateorico che sembra del tutto autonomo da questi ultimi. Anche Wu Ming1, nel suo memorandum, ha tentato di far lavorare l’allegoria nel solco di Benjamin, e mi pare che proprio quella sia la parte più debole del suo ragionamento.
Un’altra cosa. Tu scrivi “Quello che non mi convince è la resa agli stilemi della letteratura di genere, che eredita gli stessi stereotipi socio-antropologici di una civiltà alienata e in disfacimento”. Sono d’accordo solo a metà. Per ogni genere letterario giunge il momento in cui la sua forma non è più in grado di rappresentare gli aspetti più significativi della realtà contemporanea, e a quel punto, o il genere rinuncia alla propria forma sotto l’urto della realtà, finendo con il disintegrarsi, oppure rinnega la realtà in nome della forma, diventando così, nelle parole di Sklovskij, un mediocrissimo epigono. L’evoluzione letteraria non procede di norma inventando alcunché di nuovo , ma scopre una nuova funzione per quelli già esistenti. Quando un elemento sviluppa una nuova funzione cosa succede a quella vecchia? Molto spesso accade che la vecchia funzione resti in circolazione e si trasforma talvolta in un ingombro strutturale. Tu non sei un critico, ma sei un romanziere, e forse saremo d’accordo su un punto essenziale: il romanzo non si sviluppa affatto come una forma unitaria, ma con la progressiva invenzione di sottogeneri diversi. Sia in senso diacronico che sincronico. Il romanzo è insomma l’insieme dei suoi sottogeneri: il diagramma preso come un tutto, non una sua parte privilegiata. Invece le grandi teorie del romanzo, come quelle a cui si rifà Luperini, lo hanno ridotto ad una sola forma di base (il realismo, il romance, il dialogismo, il meta romanzo etc) e se questa riduzione gli ha conferito eleganza concettuale e forza teorica, ha anche finito col far scomparire i nove decimi della letteratura.
@ Gianni (e a tutti gli altri). Se dovessi trovare un aggettivo per il tuo articolo, lo definirei “giusto”. Nel mio piccolo sono convinto che si debba ripensare il modo di avvicinare i testi. Da questo angolo prospettico il compito del critico letterario non consiste più nell’attribuire ad uno specifico testo un valore esemplare da cui poter teorizzare un genere (o un canone). Oggetto della nostra speculazione non è cioè un testo in quanto tipo esemplare, ma la variazione e la struttura delle forme così come si articola in un sistema di testi a prescindere dal loro valore letterario. E’ ovvio dunque che tale struttura non potrà in alcun modo emergere da un unico romanzo (neppure se si chiama Gomorra). E questo perché quando una variazione morfologica non si è ancora stabilizzata, o normalizzata, non c’è una convenzione che possiamo considerare come centrale. Continuità e discontinuità, divergenza e convergenza. Insomma, è necessario rintracciare un campo di forze, prendere una forma seguirla di testo in testo, osservarne le metamorfosi, cercare di capirne le ragioni, la funzione delle sue variazioni, questo credo che sia il compito del critico. Forse si tratta di una concezione materialista dell’ermeneutica letteraria, ma di sicuro ha il vantaggio di donare all’elaborazione teorica una funzione immediatamente operativa. Questo significa necessariamente che non potranno essere la teoria ed il metodo ad essere perseguiti come valori in sé, ma la loro capacità di procedere nell’analisi dei testi letterari. Si tratta cioè di ricavare delle forme e farle lavorare empiricamente le une sulle altre, in modo che il nostro lavoro di interpreti possa essere vincolato al significato dell’opera senza per questo sottomettersi a distinzioni inutili se non fuorvianti (i.e modernismo e postmodernismo).
Credo dunque che la teoria debba farsi “locale”, e questo perché un’unica teoria, per quanto si voglia grandiosa, non sarà mai in grado di spiegarci la specifica produzione di senso delle opere letterarie, la loro capacità di produrre nuovi significati sociali e ciò che le lega al sistema sociale stesso. Non sarà possibile trovare un principio cardine attorno al quale far roteare tutta la storia letteraria presente e passata. Ci sono troppi livelli di significato, troppi scarti nell’universo letterario perché un’unica teoria possa spiegarli tutti. Si dovrà sempre ricominciare daccapo, andare a verificare le nostre ipotesi e congetture nei testi, e quando la strada si rivelerà sbagliata tornare sui nostri passi. Con modestia metodologica, ossia senza illudersi che le opere che stiamo analizzando diano risposte sbagliate, perché sono quasi sempre le nostre domande ad esserlo.
Una volta questa cosa l’ho detta allo stesso Luperini.
Mi ha risposto che sono un “formalista” (non con il tono del complimento).
E allora, come suggerisce il buon Marzullo, mi faccio una domanda e mi do la risposta.
Ma andranno d’accordo il formalista ed il sociologo? Si, se il sociologo accetterà l’idea che l’aspetto sociale della letteratura sta nella sua forma; e che la forma si sviluppa secondo leggi sue proprie. E se, per parte sua, il formalista accetterà l’idea che la letteratura segue i grandi mutamenti sociali: che arriva sempre dopo.
PS: Si, Gilda Policastro è una ragazza carina (non solo in foto), ma soprattutto una ricercatrice universitaria. Sarebbe corretto rivolgersi a lei in questi termini. Anche per esprimere un dissenso radicale.
oddio, adesso dopo il carteggio pubblico zublena-policastro abbiamo quello dimitri-binaghi.
@ Biondillo. Non capisco perché non si possa definire trombonesco l’atteggiamento di Binaghi senza essere censurati. Non si tratta di insulti, ma di giudizi di valore sul suo ego ipertrofico (a fronte di prodotti letterari modesti).
Caro Franz ti sbagli (e mi deludi non poco) almeno su un punto. Sulle ossa rotte. Dall’altra parte della barricata io vedo solo fumo, magari in VO come dici tu, ma non a tal punto da gridare: au feu, au secours! Les combines (à la française) le lascio agli scommettitori, ai professionisti delle belle lettere, e non mi appartengono.
stammi bene
effeffe
Franz: cosa c’è che ti disturba in questo?
Non è una domanda retorica.
@ Valter
perdona la provocazione (non certo nei tuoi confronti), e scusa se non ho tempo e voglia di trattare dell’estetica marxista e mi limito a poche battute.
La prima: io (che marxista non sono, ma ho molto di Marx nella mia cassetta degli attrezzi) sono rimasto alla definizione di comunismo come “movimento reale che modifica lo stato di cose esistente”. In questa definizione non rientrano cattedratici che non si sporcano le mani con lo stato di cose esistente, e che mirano soltanto a modificare la teoria, nell’illusione che essa non sia prodotta da una prassi (e questo vale tanto per Luperini – con la “E” – quanto per Policastro). Lo so che così facendo si salva il rigore, ma si esclude dal marxismo ufficiale o se-dicente buona parte di coloro che ritengono di farne parte: ma il buon Marx non è mai stato ecumenico, mi pare.
La seconda: hai ragione sul fallimento dell’estetica marxista ufficiale. Il cui emblema, per me, resta Lukács che, agli arresti domiciliari dopo i fatti d’Ungheria, riceve a domicilio Kádár per dargli lezioni su Hegel. Ma oltre a quella specie di sociologia deterministica che era l’estetica marxista “ufficiale”, esistono molte estetiche praticate da marxisti, o da autori vicini al marxismo, che sono ancora vive (Benjamin compreso, e Brecht, Fortini, Luporini – con la “O” – Pasolini, Anders, ecc. ecc.): credo che questo dimostri la possibilità, per un marxista libero dal determinismo storico, di una teoria estetica.
Come per l’argomento da cui il post è partito, la teoria che afferma l’impossibilità del movimento di confuta non con un’altra teoria, ma alzandosi e cominciando a camminare.
@Dimitri
Ammiro lo sforzo di mettere in campo la migliore intelligenza ermeneutica possibile, ma sono convinto che le teorie del romanzo debbano misurarsi prima ancora che col testo, generi e sottogeneri, con il concetto di totalità (ad esempio come fa Bachtin quando usa la categoria del “cronotopo”). Il romanzo è l’unica forma possibile del mondo, e forse si può trattare davvero solo con l’ambizione della metafisica.
@Franz
Non ti preoccupare. Oggi ho deciso che coi blog dove sono tollerati nicknames irriconoscibili e liberi di trollare io ho chiuso.
D’altro canto, non è che si può avere tutto: se si postano disquisizioni critiche un commento impegnato può essere lungo di conseguenza.
@Tartarino
Dov’è l’ego ipertrofico me lo dovresti spiegare, così faccio ammenda. Quanto alla modestia dei miei prodotti letterari, mi piacerebbe confrontarli coi tuoi, quando avrai il fegato e i coglioni per firmarti nome e cognome.
Passo e chiudo.
@Girolamo
Scusa, vedo solo adesso il tuo commento.
Anch’io ho tanto Marx nello zaino, e non ho mai voluto rinnegarlo, solo riportarlo alla sua efficacia che secondo me non è mai stata la teoria dell’arte, irriducibile al sociale puro e semplice. Dal tuo libro ho imparato molto su come leggere Benjamin, ma anche ne ho tratto la conferma che la sua collocazione in ambito neo-marxista è stata uno dei peggiori equivoci del secolo scorso. Per me oggi camminare vuol dire scrivere senza paura dell’ibridazione cui siamo comunque condannati, tra pensiero e poesia, accettare il destino dei mutanti che siamo, ma senza abbassare di una virgola la propria tensione etica, a costo della solitudine.
furlen chi ha parlato di combine? ho espresso una mia impressione. la tua delusione è fuori luogo, credimi.
dimitri: era una riflessione credo non banale; ormai si aprono carteggi pubblici sui thread letterari. i due criptocritici e te e binaghi (valter lo conosco bene, e, parliamoci chiaro, è ininfluente se ho dell’affetto per lui), fate la stessa cosa.
vale a dire le due coppiette se la raccontano in pubblico quando potrebbero raccontarsela in privato.
tale uso della bestia blog – parlo in generale – provoca l’annullamento di qualsiasi dibattito.
altra questione: biondillo appronta un post per rispondere alla policastro su questioni che in gran parte i due avevano più o meno discusso nella colonna dei commenti. bene, quest’uso del mezzo lo trovo di poco gusto; biondillo avrebbe fatto una figura migliore, a mio avviso, sparando i suoi “cazzo” e i suoi “porca puttana” (più ovviamente il resto) nella colonna dei commenti, senza improvvisare un articolo piuttosto abborracciato tentando di colpire con la mitragliatrice (il post in homepage) chi aveva sparato con la pistola (policastro nel thread precedente.) è un cattivo uso del proprio potere all’interno di un blog come nazione indiana.
forlani invece risponde con fellini (il critico di otto e mezzo) ma poi tira fuori l’asso di bastoni gilles deleuze.
sono deludente, forse, ma rispondere con propri argomenti?
(senza alcun rancore personale, credetemi – lo dico anche se dovrebbe essere chiaro agli interessati.)
Franz, grazie per il chiarimento.
Mi resta un unico dubbio. Per te quando scrivo
“Per ogni genere letterario giunge il momento in cui la sua forma non è più in grado di rappresentare gli aspetti più significativi della realtà contemporanea, e a quel punto, o il genere rinuncia alla propria forma sotto l’urto della realtà, finendo con il disintegrarsi, oppure rinnega la realtà in nome della forma, diventando così, nelle parole di Sklovskij, un mediocrissimo epigono”
Vuol dire
“Ehi Valter, ci vediamo da te per la grigliata di sabato?”
Questa effettivamente è una domanda retorica.
carissimo franz come è detto (attraverso una forma differente) nel mio post, già dal titolo non c’è stato un attacco ad personam, ma alle posizioni espresse nel post e soprattutto al tono con cui si sono espresse. La debolezza delle argomentazioni, la confusione dei concetti, la boutade – quella sì imperdonabile perché ficcata tra un’asserzione e l’altra sullo stato generale della letteratura italiana contemporanea – mi hanno spinto a lavorare sul post che hai visto e immagino letto, ascoltato ecc.
Non so quanto Deleuze ti appartenga, nelle riflessioni che ha portato sulla letteratura, quel che so per certo è che nessuna di quelle proposte qui dalla Policastro mi pare conciliabile con il tuo lavoro. Perché di questo si tratta, Franz ovvero non solo del modo in cui uno lavora su dei concetti, o paradigmi ma anche del desiderio che dovrebbe animare gli autori di condividere queste riflessioni con gli altri. Cosa che la Policastro ha manifestamente e accuratamente evitato di fare. Veniamo al dunque. Qual è la questione chiave posta dalla Policastro. Un critico quando stronca una poetica, una scelta stilistica eccetera, deve avere il coraggio di fare nomi e cognomi. Bene. Brava. Fantastico. La cosa ha a che vedere con la sua stroncatura del libro di Antonio Scurati? Benissimo, allora ci racconti tutto, ci dica ogni retroscena, ci faccia partecipi dell’oscuro back office del sistema letteratura (‘o sistema) con tanto di nomi e cognomi, di capo redattori cultura di quotidiani nazionali, di professori universitari, di direttori di festival, di poeti laureati, diplomati, licenziati, trascrizioni telefoniche,(visto che ci tiene così tanto a fare lo sbirro del pensiero) pedinamenti, scambi di mail e magari ci comunichi pure le sue play list, ci dica come scrivere, cosa scrivere e perché per non cadere nelle maglie della sua critica spietata o per avere la sua attenzione convinta com’è che in italia chiunque scriva la prima domanda che si fa è “cosa dirà se ne dirà, la Policastro?. lo faccia e sono disposto a pubblicarlo a mio nome, Franz, ma a una sola condizione. Che non permanga in ogni sua frase, come ora, quell’odore di bruciato, che taluni chiamano arrivismo, tatticismo, genio e calcolatezza . Come recitava l’adagio , Nomina sunt consequentia rerum? In fondo sai Franz, io credo che ogni libro sia stroncabile, non c’è libro che sia a riparo da questo e penso come la maggior parte dei lettori di NI che la ragazza non vale tutte queste parole, e che probabilmente si farà davvero, una brillante carriera letteraria. Non è questo che mi spinge a dedicarle tanta attenzione. Quel che mi fa dire no, e qui su NI, come altrove, è la sensazione che si imponga anche nelle nostre povere (diciamolo) stanze, un modello, un “ideal tipo” di critico di cui, te lo assicuro, non c’è bisogno. Detto questo me ne fotto dei critici per la critica, Franz, quanto te, e te lo assicuro, accordando un’importanza ben più rilevante ai lettori e che nella maggior parte dei casi sono anche eccellenti critici. Per me l’affaire si chiude qui. Franz, noi non abbiamo il culo coperto, ricordalo, lo hai anche “fantasticamente” scritto.
effeffe
ps
quando ho visto il post di Gianni ho pensato anch’io too much, ma se Gianni ne ha sentito il bisogno, perché no. In fondo è solo un blog no?
Biondillo: “Gli intellettuali godevano (ma sarà poi così vero?) di così tanta credibilità? E chi se ne frega!” Ecco, questo è un esempio perfetto di ciò che non sopporto quando si ragiona intorno a cose serie.
Effeffe: “me ne fotto dei critici per la critica.” Idem come sopra.
E poi: sei così convinto che i lettori siano sovente “eccellenti critici”? Quali e quanti lettori? Per me, il critico è come l’arbitro in una partita di calcio: noioso magari, ma indispensabile; anche quando sbaglia. Invece qua mi sembra che il tutti contro tutti ( o l’ognun per sé) sia considerato la (aurea) regola.
il critico è l’edititor di un libro solo che fa editing quando il libro è uscito.
qui é finita l’estate altro che.
intendevo editor
Franz: A me il carteggio Valter-Dimitri interessa assai.
Poi: Bah, sai, dopo che ho chiesto continuamente risposte non ottenute nella discussione del pezzo di Gilda Policastro, aspettando paziente anche un solo: “Ne riparliamo dopo”; ho aspettato, ho aspettato, ho visto che altri chiedevano e non ricevevano risposte (altri lettori, altri scrittori) mentre Gilda si peritava di decidere di rispondere solo all’amico suo, oppure di bacchettare stizzita o al massimo renderci noto che non aveva tempo perché stava leggendo un filosofo à la page (insomma: hai voluto la bicicletta? – Nessuno ti ha chiesto in ginocchio di essere pubblicata su questa fogna che è NI – bene: pedala!), be’, permettimi, che questa cosa che volevo dire (e pensa la curiosità: quella su Luperini la volevo dir già da un po’, da quando ho letto l’articolo, a prescindere da Gilda Policastro, lei non ha fatto nient’altro che dare il via alla mia indolenza) l’ho detta. E dato che qui io le cose le posso dire con lo spazio e la visibilità che voglio, permettimi di farlo. Anche perché, converrai, se l’avessi lasciato come commento sarebbe stato lunghissimo, illeggibile e saltato a pie’ pari da chi volevo lo leggesse.
Io, e chiudo, quanto meno quando scrivo non sottintendo e non faccio criptoriferimenti ad articoli scritti da qualcun altro e da qualche altra parte: qua hai tutti i materiali per capire di chi si sta palando.
Sulla sindrome del sospetto (e dell’accerchiamento) ho poco da dire: è un puro caso che io e Forlani si sia reagiti assieme, mica ci siamo messi d’accordo! Anzi: se lo avessimo fatto lo avremmo fatto meglio, in tempi differenti, così abbiamo solo “rubato” la scena l’uno all’altro. ;-)
Io discuto i testi che leggo. Di tutti. Discuto e litigo con tutti quelli con cui mi pare interessante discutere i loro testi. Che si firmi con un nick, che sia una giovane promessa o una accertata conferma della critica, che sia un lettore o un passante. Selezionare le risposte in funzione del principio d’autorità (al di la della qualità del testo) è una procedura che non mi interessa. Trovo poi poco carino quel sottintendere di alcuni che Gilda Policastro, in fondo, non si merita tutta questa attenzione. Io non so nulla di lei, della sua vita, non so quanti anni abbia, dove vive, niente di niente. Ho letto una cosa però che reputo meritava una risposta. L’ho data con la stessa passione che ho usato quando ho discusso con, per dire, Maurizio Cucchi, senza chiedergli il curriculum a parte.
Diamante: quella frase, estrapolata dal contesto, cambia di segno, e lo sai.
Leggendo qualche commento, mi sono sentita indignata. Lo sfogo è al limite della volgarità e dell’offesa, quando i commenti riguardano l’apparenza fisica.
Dove hanno imperato il rispetto dell’altro? In particolare i commenti di Anfiosso, Binaghi, Tartarin mi hanno disgustata.
Ho apprezzato la sincerità di Gianni Biondillo che punta il vero di una critica scarsa, sfocato, imprecisa; è a mio parere privato di orizzonte, di poesia e di stile.
Invece per rispondere a Gianni che chiede nomi… Penso che Roberto Saviano ha fatto allusione agli scrittori che non hanno una posizione chiara, che vivono nel mondo letterario senza avere in mente che uno scrittore del loro paese vive la reclusione e la solitudine, che fanno il sorriso , quando la ferita fa male, quando il dibattito letterario nasconde una situazione d’urgenza.
Forse basta rileggere intervisti per avere una risposta e avere nomi. C’è anche una manera molto sornione di mettere il descredito, distogliere lo sguardo, fare nascere il dubbio.
Per rispondere a Diamante, penso che Roberto Saviano è un giornalista e anche uno scrittore. leggere Le contraire de la mort è incontare lo stile di Roberto Saviano nella sobrieta tragica.
sfocata, privata, : faccio ancora più errori quando sono in rabbia. E forse altri che non ho visto.
@ véronique vergé
Credo che i nomi Gianni non li pretendesse da Saviano, ma da Luperini.
Vorrei dire un’altra cosa su Saviano: credo che considerarlo un “giornalista” e definire Gomorra un “reportage” sia un errore. Nel senso che in questo modo sottoponiamo la scrittura di Saviano ad un regime che essa non supporta.
Da questo punto di vista è illuminante la recensione che di Gomorra ha fatto Rachel Donadio, all’epoca articolista della book review del New York Times. La Donadio, dopo una valutazione piuttosto positiva dell’opera di Saviano, conclude la propria recensione esprimendo alcune perplessità.
“Alcuni aneddoti sono sospettamente perfetti: il sarto che lascia il lavoro dopo aver visto in TV Angelina Jolie alla notte degli Oscar con addosso un abito bianco che lui ha cucito in un laboratorio della Camorra; l’uomo che ama così tanto il suo AK-47 da andare in pellegrinaggio fino in Russia per far visita al suo inventore, Mikhail Kalashnikov. L’autore ha cambiato qualche nome? Se è così i lettori non ne sono informati. Non sono questioni di poco conto, e sarebbe stato bene chiarirle”.
Il punto è che molti personaggi dell’universo narrativo di Gomorra – Don Peppino Diana, Cosimo di Lauro, Francesco Schiavone o Angelina Jolie – e gli eventi di cronaca che li riguardano, sono costretti in un codice epistemico la cui aperta violazione non potrebbe che compromettere l’effetto di realtà che il romanzo sembra invece voler ottenere. Una situazione di partenza che, in linea di massima, appare poco propizia per qualsiasi prassi creativa, perché sottopone la narrazione ad un vincolo tanto pesante da rischiare di ridurla ad una semplice cucitura dei fatti. Certo, Gomorra fa anche questo: cuce i fatti. Ma lo fa in un modo peculiare affidandosi a dei procedimenti narrativi capaci di agganciare i referti archiviali per “lavorarli” e restituirli all’universo culturale con un surplus di significato. A ben vedere è forse proprio la presenza di procedimenti atti ad aggirare, in parte o del tutto, le costrizioni epistemiche dell’archivio a distinguere (o almeno così dovrebbe essere da un punto di vista deontologico) l’attività dello scrittore da quella del cronista giudiziario. Non si tratta però di una questione riducibile ai suoi minimi termini, ossia quella di distinguere tra fatti “realmente accaduti” ed “invenzione letteraria”. Quel che presuppone questa dicotomia è infatti una distinzione tra il “vero” ed il “falso”, fondata, in ultima analisi, sul presupposto che sia possibile distinguere una realtà evenemenziale, esterna alla testualità in genere, ed un regime finzionale, che combacerebbe con il letterario tout court. Ma se il regime epistemico vincolante è quello dell’archivio, non potranno essere i “fatti” a smentire il testo letterario, poiché questi possono sempre accadere senza che ve ne sia traccia documentale, ma solo altri “testi” che sanzionano quei fatti. Dico questo non per dare un giro di chiave semiotico e così blindare la mia catena argomentativa, ma proprio perché Gomorra sembra vivere di questo felice parossismo: poiché non tutti i “fatti” vengono registrati nell’archivio e codificati in referti testuali, sono i “fatti” stessi che possono funzionare come possibili punti di fuga dalle strettoie del cronachismo.
Posso fare un nome: Marcele Padovani ( Le nouvel observateur)
e le Monde qui a relayé une fausse information.
Bel commento Dimitri, e l’ho penso come te. Invece non ho la stessa capacità di analisi in una lingua chiara.
Penso che Gomorra informa il lettore su una realtà e anche crea una narrazione che incontra la realtà nello stile.
Mi fermo qui, perché la riflessione centrale del pezzo di Gianni Biondillo è la critica.
Si dovrebbe ritornare all’argomento: pensare la critica come mezzo o come arte?
Per essere giusta con Le Monde ci sono anche bellissimi articoli sull’autore di Gomorra.
Ah, i nomi.
I nomi evocano, i nomi spiegano. Non affermano né descrivono, ma suggeriscono i punti di vista. Proust dedicò ai nomi un capitolo della Ricerca. “Balbec”, “Venezia” evocavano storie, miti, terre e città, bellezza e amore.
Così, quando leggo questo nome, Gilda Policastro, qualcosa scatta. Lo considero di una bellezza straordinaria, direi la bellezza perfetta. Contiene la “polis”, e “castro”, che mi evoca la rivoluzione cubana, e quindi il Comandante, mio fratello eterno. Contiene l’eleganza romantica e sofferente di Gilda, l’attrice Rita Hayworth del film del 1946; la conflittualità di un sindacato di base di insegnanti; il mistero di un’organizzazione potente nel film “Dune”; il fascino un po’ oscuro del medioevo, con una corporazione di artigiani, e altro ancora.
Con questo nome, Gilda Policastro, una ragazza di aspetto attraente secondo gli attuali canoni estetici dominanti, per me può scrivere ciò che vuole, come vuole e quando vuole. Confesso candidamente di non capire molto di quanto scrive nell’articolo tanto contestato (pertanto non capisco granché neanche delle contestazioni), ma questo non è importante. “Di contenuti ce n’è fin troppi” ha scritto Giglioli nell’articolo in questione. Vero. Ed io sono poco interessato ai cosiddetti contenuti dichiarati, perché sono quasi sempre contenuti apparenti – o appariscenti – o fittizi. Non per manifesta falsità di chi cerca, coi propri mezzi, di formalizzarli – di descriverli – ma perché i veri contenuti sono quelli che stanno dietro, quelli non dichiarati, non descritti. I contenuti nascosti.
Spesso i contenuti nascosti – che sgorgano dal movimento continuo che attraverso la scrittura produce verità – sono nello stile, non nella supposta descrizione o dichiarazione. Nello stile viaggia il contenuto profondo, che sta a noi lettori cercare di individuare, o di ri-scrivere. E lo stile di Gilda Policastro (ogni occasione per me è buon per scrivere questo nome), così criticato per una sua supposta confusione, o criptcicità, o supponenza da maestrina con la penna rossa, viaggia senza preoccuparsi di essere coerente né esaustivo né descrittivo, ma solo di essere “intenso”. Perché l’intensità non descrive, ma prelude a un’assenza di stile che, secondo Deleuze, potrebbe essere lo spunto geniale per una nuova letteratura.
Ma non voglio andare oltre nell’esposizione di contenuti che, come detto, potrebbero essere superficiali e apparenti. Via la descrizione, via la spiegazione, via i simboli e le metafore, e tutto lo spazio al racconto e all’evocazione. Così quando leggo con sempre rinnovata emozione questo nome, Gilda Policastro, evoco le parole di Vincent Van Gogh di alcune delle tante lettere che scriveva al caro fratello Theo. Un giorno Vincent raccolse per strada una ragazza sperduta, sola con un figlio, e la ospitò nella sua povera casa. La nutrì, la protesse a lungo. E la ritrasse in una serie di disegni dal titolo “Sorrow”, disegni come sempre, nel caso di Vincent, aspramente criticati dai critici del suo tempo, che gli consigliavano continuamente di cambiare mestiere, perché, affermavano i critici, era negato non solo per la pittura, ma anche per il disegno. Alle osservazioni di Theo (che riferiva anche quelle della famiglia Van Gogh), che Vincent si era ficcato in una situazione insostenibile (la ragazza pare fosse pure spesso ubriaca e quando alzava il gomito lo insultava), Vincent rispondeva sempre con la stessa frase: “lei e nessun’altra!”
Credo che cercare di definire cosa la critica lettararia “è”(o dovrebbe essere) sia fuorviante. Forse conviene chiedersi come “funziona” (o dovrebbe funzionare). Questo significa che ciò che definiamo “critica letteraria” non sempre è in grado di fornirci tutti gli strumenti adatti all’interpretazione di un testo che definiamo letterario. In certi casi possono esserci di maggiore aiuto la semiotica, la matematica o la teoria del cinema che non la storia della letteratura. Non si tratta, a mio parere, di pronunciarsi per una ricerca di identità della critica letteraria, ma, all’opposto, per una dissoluzione dei suoi confini in favore di linee di ricerca dal carattere mobile che consentano all’interprete un attraversamento equilibrato del testo.
Su GOMORRA mi sono già espresso più volte; so bene che non è soltanto un reportage; so bene che Saviano è bravo a creare ambiguità (sarà accaduto veramente? O ancora, e peggio – o meglio: è attratto anche lui dal male che denuncia? E dunque le obiezioni della Donadio le trovo inadeguate). In fondo, non m’interessa neppure sapere con quanta consapevolezza abbia scritto l’opera. Ciò detto, non giustifico la centralità attribuitagli da Luperini e tanti altri, tutto qua. Leggendo GOMORRA io sento poca letteratura, poca scrittura. Il resto (che nel caso di GOMORRA è tanto) non m’interessa.
@ Diamante: innanzitutto grazie. Se tutti i commenti fossero come questo tuo ultimo potremmo confrontarci sulle questioni letterarie, e sulle loro implicazioni etiche, senza prenderci a pugni.
Oltre a ciò, per restare in tema di pugni, mi offri il destro per dire qualcosa che mi sta particolarmente a cuore.
Scrivi “Leggendo GOMORRA io sento poca letteratura, poca scrittura. Il resto (che nel caso di GOMORRA è tanto) non m’interessa”.
Io parto da un presupposto, ossia che la critica non s’è ancora del tutto emancipata dal suo vecchio compito: essere una sorta di accompagnamento colto della letteratura. A me sembra invece che il ruolo del critico non consista nel decantare “il bello scrivere” della letteratura, ma rivelarne la funzione culturale. Da questo angolo prospettico il critico letterario non può studiare solo ciò che “gli interessa”. Altrimenti perché mai i medici non dovrebbero limitarsi a studiare i corpi sani e gli economisti le condizioni di vita dei benestanti?
Se l’interesse per lo studio della letteratura è in continua discesa, come fanno notare molti critici (Lavagetto, Luperini, Ferroni etc) forse la sua salvezza non è rappresentata dall’affidarsi mani e piedi ad una difesa dello specifico letterario, come se fosse davvero rintracciabile un principio primo dell’esteticità, ma dal rischiare nuovi metodi e strumenti analitici. Ma allora questo significa che una storia delle forme retoriche porterà molto probabilmente ad uno smembramento del campo estetico. E questo non più alla maniera storicista, ossia mettendo tra parentesi le peculiarità tecniche delle opere per risolverle in un generico “Spirito del tempo”, ma derivando viceversa proprio dalla loro materialità formale la necessità teorica di scardinare la storia dell’arte, o della letteratura, e riscriverla come semplice parte di una storia dei valori.
Sulla centralità di Gomorra: qui sono d’accordo con te, almeno in parte.
Gomorra può essere considerato centrale solo a livello strategico (ma convengo con te che non è il caso di Luperini), nel senso che può essere utile a porre un punto su una mappa ed iniziare a disegnarne i contorni. Ci sono alcuni romanzi – Dies Irae di Genna, Asce di Guerra di Wu Ming, Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones e probabilmente molti altri che non conosco – che definirei archiviali. Definire un romanzo “archiviale” significa che i pezzi di realtà che esso inserisce nella narrazione sono prevalentemente referti d’archivio – articoli di giornale, atti processuali, trascrizioni di intercettazioni telefoniche, dati catastali, statistiche ecc – la cui funzione primaria sembra consistere nel dar vita ad una “ricostruzione archeologica indiziaria” di determinati accadimenti o personaggi della storia recente. In realtà quel che succede, almeno a mio parere, è molto di più: la memoria viene posta al centro della narrazione stessa.
Forse questa crescita di interesse per la memoria è riconducibile ad un’urgenza collettiva: nell’epoca del facile stoccaggio digitale e di una sempre più vasta reperibilità di informazioni, si palesa lo scarto tra l’archivio e l’esercizio di memoria, tra una memoria conservativa ed un lavoro che, invece, dispieghi l’uso regolativo del legame con il passato, la sua dimensione bifronte, sempre aperta verso una definizione progettuale del futuro.
Perché allora Gomorra e non Dies Irae? Per il rilievo sociale dei temi trattati? Perché la narrazione archiviale di Saviano è più audace e quindi si distacca maggiormente di quanto non faccia Genna dall’orizzonte di attese del pubblico? Niente di tutto questo.
A ben vedere i temi affrontati da Dies Irae sono socialmente rilevanti almeno quanto quelli narrati in Gomorra, e da un punto di vista strettamente narrativo e linguistico Genna è assai più innovativo di quanto non sia il “cauto” Saviano. L’opera di Saviano non si impone perché più nuova delle altre, ma perché sembra capace di risolvere dei problemi. Allontanarsi dal mainstream di per sé non ha alcuna rilevanza, riuscire a costruire un diverso orizzonte percettivo e simbolico invece si. Questa è un’impresa di chiaro valore sociale.
[…] a grande e giustissima richiesta, il misterioso ur-testo della polemica (e poi qui e qui) ritrovato non a Zaragoza, ma su Vibrisse (come Giulio Mozzi ci ha segnalato in un […]
Vi suggerisco un breve break musicale, di segno metaforico, con questi due pezzi del vecchio Banco del Mutuo Soccorso…chissà che i più esagitati non si sbattano un po’ meno su questioni stravecchie come il cucco, ma sempre attuali, comunque…soprattutto quando nei due campi in tenzone (critici e scrittori), per ragioni anagrafiche o per intervento della “grande pareggiatrice” si fa il vuoto e….ci sia agita a colmarli, alla come viene viene…ecco, qui inserireri i break del Banco .
http://www.youtube.com/watch?v=uScUQkx0jHs
http://www.youtube.com/watch?v=ACTc8_30nQk
Insomma, critici, scrittori, imbianchini, becchini e beccamorti, tutti pari siamo nelle miserie e nelle nobiltà, nelle ambizioni e nella sorda lotta per affermarsi, nell’osceno suono di questo atroce “sbattersi” per nulla… E allora, per parafrasare il Guccini dell’Avvelenata, “che cosa posso dire…andate e …fate (scrivete) gli uni e gli altri (scrittori e critici), la scrittura/l’espressone forte e potente, prima o poi rsplenderà, non ostante il proprio autore;creare è creare (in piccolo e in grande) e nulla eguaglia la semplice e sublime soddisfazione del suo fare” mentre lo si fa; una volta creato, ciò ch’è fatto è li, per gli altri . Quanto all’autore, il resto è “incidente”, vanità. Sante banalità , che non fa male ricordare, ogni tanto….vi consoli il fatto che Diderot (scrittore), Stendhal stesso , e molti altri “grandi” sono stati “scoperto” o sono “esplosi” anni e anni dopo il loro momento “generazionale”. E poi sì, è vero, la storia delle “generazioni”, un po’ farlocca, a dire il vero, ha stufato: cosa volete che sia una generazione, nell’arco dei tempi letterari! E il “non fare nomi” (che lo faccia il vecchio Luperini o i “giovani” coevi di Saviano, tranne rarissime eccezioni), anche questo è storia vecchia come il cucco, anzi è un dato “antropomorfo” dell’intellettuale italiano, che non perde mai il suo originario dna di “chierico” del potere di turno, quale che sia, il vecchio “egeminismo stàlino/togliattiano” o delle industrie editoriali o del berlusconismo televisivo…come dire, meglio “tenersi bassi, non si sa mai”…storia stravecchia, caro gianni, non t’appicciare come un “micciariello” (cerino), non ne vale la pena… è la media degli intellettuali italiani ad essere così (critici e scrittori, che poi non esulano dalla “media” degli italiani tout court)… che nessuno se la prenda, su.
Insomma e infine, il problema non sta nell’affidarsi a una “indiscutibile autorità” (critica o letteraria), sul web la questione è re-imparare a discutere, a confrontarsi con vigore e valentìa facendo esempi e provando con costruzioni calzanti, entrando “tecnicamente nel merito” di ciò che si asserisce, tanto più facendolo quanto più “assertivi” o “apodittici” o “trancianti” siano i giudizi/sentenze che spariamo. Questa è la democrazia del web. O la democrazia, tout court.
Ah, un’ultima cosa: lo sminuire il punto di vista altrui, col vecchio trucco sessista, è proprio una “cagata”. Risparmiatevela, per piacere. Alla Policastro, che non conosco e non ho visto, debbo un refuso involontario nel mio commento precedente: non di Pontecorvo (lapsus!) parlavo, ma di Policastro…senza malizia, si capisce.
@ diamante
saviano a parte, su cui il discorso sarebbe più articolato, mi piace la tua impostazione. Magari sei giovane, se limassi un po’ di apoditticità, quel tanto di “assertività” che ogni tanto ti scappa qua e là..saresti perfetto per i miei gusti….comunque, bravo, mi piace il modo intrepido con cui ti “esponi” e sostieni quel che dici. Insisti..
@dimitri
in archivio si conservano i reperti, non i referti.
@ Lezama: grazie per la correzione. In realtà ho pensato a lungo se utilizzare il termine “referto” o “reperto” (entrambi preferibili al più ambiguo concetto di “documento”). Ed alla fine ho optato per il primo.
Il punto è che il reperto indica, in genere, la “cosa trovata”. Infatti nelle Cancellerie dei tribunali il reperto è “il corpo del reato” assicurato alla giustizia. Ho pensato che si potessero creare delle ambiguità, come se mi volessi riferire alla realtà materiale anziché all’ordine del discorso.
Il referto, invece, anziché indicare la “cosa trovata” è piuttosto riconducibile alla “cosa riferita”. Il referto infatti è anche il rapporto (o relazione, o ragguaglio) che un tutore dell’ordine fa alla giustizia.
E’ ovvio che uso questo termine in modo strategico, perché mi consente di trattare il materiale d’archivio come un enunciato riferito (o per dirla in termini semiotici come un’enunciazione enunciata).
E’ però vero che io come filologo non valgo una sega, mentre tu (almeno a giudicare dal nickname) probabilmente ne sai di più. Lo dico senza ironia, se hai qualche consiglio, suggerimento o indicazione bibliografica da darmi, te ne sarei molto grato.
@dimitri
accetto l’uso strategico, ma improprio, dei termini (tanto per dirne una, reperto, in termini processuali, non è solo il corpo del reato, ma sia, ripeto, accetto l’uso improprio ma strategico, e quindi più proprio, dei termini che hai scelto, basta intendersi – come ad esempio sul termine archivio, che connoti di un valore peculiare non condiviso. l’unica cosa che vorrei scongiurare è un lessico un po’ troppo sbrigliato, cioè va bene adottare metafore paradigmi etc, ma nella traduzione da un ordine del discorso all’altro non deve difettare la coerenza degli elementi)
Lezama, forse hai ragione, cercherò di operare una disambiguazione terminologica introduttiva (ovviamente non qui).
Grazie
Il commento di Baldrus mi sembra, finora, l’unico consequenziale di tutta questa discussione.
In una polemica interamente basata sui nomi, invece che su cose idee o concetti, Baldrus ha fatto l’unica cosa coerente: ha commentato un nome.
piantatela – soprattutto baldrus – di provarci con la policastro…
Sono d’accordo con Franz e sono d’accordo con Diamante. Nessuno discute l’importanza di Gomorra, ma disconoscere la potenza dell’estetico e il suo significato mi sembra grave. La penso come Michele Mari in sostanza. Naturalmente sono contentissimo del successo di Saviano – che certo sta anche pagando un caro prezzo – e mi auguro di vederlo all’opera diversamente. Spero non si faccia strozzare da quel libro.
La letteratura non è in discesa, non vedo quali altre categorie si vadano cercando, e poi è fisiologico finito il 900 che ci sia crisi. I nuovi temi sono il futuro del corpo, la medicina, la tecnica, la bioetica, le scienze.
Sulla critica preferisco pensarla come arte e finzione.
Non ci trovo nulla di verosimile nella critica contemporanea. E certo, a leggere i libri dei critici contemporanei c’è da scoraggiarsi, non aiutano certo ad avvicinarsi alla lettura, con l’eccezione di Citati che appartiene al passato, che almeno gli studenti leggono con grande curiosità perché stimola alla lettura. Gli altri sono un’elite chiusa, penetrabile solo se possiedi l’idioletto.
gianni, gilda non merita TUTTA questa attenzione – che tu e forlani le avete dato, sul VOSTRO territorio per l’articolo che lei ha scritto; ti è chiaro? non si sottintende proprio nulla. gilda policastro (tra un po’ qualcuno le chiederà di cedere il suo nome per un prodotto di bellezza o per un amaro…) ha avuto la giusta attenzione in merito ai contenuti che ha portato; tu, gianni, secondo me hai esagerato alzando il tiro della mitragliatrice. qualcuno ti aveva chiesto di farlo? s’è levato un coro di protesta al tuo indirizzo con lo slogan: “biondillo salvaci tu, chiarisci tutto tu?” a me, e a tutti, non pare.
Franz, scrivi:
“gianni, gilda non merita TUTTA questa attenzione – che tu e forlani le avete dato, sul VOSTRO territorio per l’articolo che lei ha scritto; ti è chiaro?”
No, a dir la verità non mi è chiaro. perché non dovrei darle tutta questa attenzione? Perché non la merita? Perché io non merito di parlarle? Perché troppo “su” o troppo “giù”? Perché ha scritto una cosa suprema, inutile, irraggiugibile, vuota? perché?
Il mio tiro lo alzo o lo abbasso non sotto richiesta di alcuno o sotto dettatura. Lo faccio quando sento di farlo. Ché tu non fai lo stesso, scusa?
In cosa ho esagerato? Di aver risposto a un testo con un altro testo? Mi pare ordinaria dialettica, questa.
E sopratutto: perché senti la necessità di difenderla come un gattino bagnato? Sono dell’idea che Gilda Policastro abbia l’intelligenza e la preparazione per difendersi da sé. Nei modi e nei tempi che desidera. Persino il silenzio sdegnoso è una strategia, tanto per dire.
Io non le ho mai mancato di rispetto come persona, trovo molto più irrispettoso questo curioso modo collettivo di farle la corte, chi in modo becero, chi alla maniera di cavalier servente.
@dimitri
Condivido la tua idea di critica, ed è per questo che considero la critica indispensabile, nonostante tutto. Condivido anche la tua idea su GOMORRA. Riguardo la letteratura archiviale, come la chiami tu, devo confessare una mia certa avversione alla medesima; ma la tua ipotesi mi sembra valida. Oggi, nel mondo iperveloce e telematico, si sente il bisogno di conservare, in qualche modo, la memoria. Ne parlava già Calvino nelle LEZIONI AMERICANE (1985): forse questo tipo di narrazione è un avverarsi della sua profezia. In ogni caso, io continuo a preferire un’invenzione più pura, che sappia prescindere dal reale cronachistico incarnando il reale vero – e cito a tal proposito i bellissimi saggi sulla scrittura della O’Connor NEL TERRITORIO DEL DIAVOLO. Per me Kafka è assai più sociologico di Saviano, Beckett molto più di Scurati. E ciò, inevitabilmente, NON a prescindere dal valore artistico, dalla grandezza letteraria che poi è anche e soprattutto grandezza di coscienza, coscienza dell’epoca e della vita e dunque anche della società. Sul fatto infine che un critico debba conoscere anche quel che non gli piace, hai ragione (ma la Policastro non ha torto nel rivendicare un proprio gusto): insomma, me la cavo democristianamente.
@ D’Angelo
Grazie per i consigli. Mi sto già ripromettendo (e non sono affatto ironico) di limare l’apoditticità e farmi più malleabile.
gianni, c’è un equivoco: io non difendo la policastro. non difendo nessuno. dico solo che, a mio avviso, tu soprattutto ma anche forlani avete dato troppa importanza al suo articolo. tutto qui. rispondere mostrando implicitamente i muscoli sulla homepage invece che sul thread, per noi che conosciamo bene la differenza tra le due modalità (e contenitori) comunicativi, è chiaro. è come quando il tale scrittore spara la bordata con il talatro e il talaltro gli risponde intervistato, tutto sui giornali. qui siamo su nazione indiana, ma la logica non cambia. a me pare, al di là della materia del contendere, un’operazione che non mi trova particolarmente entusiasta.
Franz,
Gilda Policastro ha avuto la HP di NI, io le ho replicato sulla HP di NI. Non l’ho fatto sulle pagine di Repubblica o del Corriere. Io sono dell’idea di non aver sbagliato, tu si. Bene. Rimaniamo amichevolmente in disaccordo (e proseguiamo).
Non so, forse è una questione tra voi due, però l’articolo di Gianni mi ha fatto sentire un po’ meno solo. Quando leggevo “La fine del postmoderno” di Lou Perini quei “dichicazzostaiparlando” li ho pronunciati tra me e me 1000 volte.
E allora della home page, delle strategie comunicative, dei protocolli sociali del web 2.0 faccio un pacco ed in fondo al cesso.
Quel che dice Gianni a me pare abbastanza chiaro: ci sono critici che sono bravissimi ad appoggiare il fucile sulla spalla; magari con un gesto sapiente che sembra trattenere in sè tutta l’arte della caccia, ma poi ti accorgi che continuano a spalleggiare per mezz’ora, dopodiché ripongono il fucile e se ne vanno a casa, senza neppure aver preso la mira.
(questo in onore delle pistolettate e mitragliate più volte evocate)
scusi dimitri, se lei si firmasse anche col suo cognome ne guadagnerebbe. il suo “io” è monco, così, secondo me.
gianni, come non detto: tieniti stretta la paletta da vigile e continua a far scorrere il traffico…
una notazione di costume prima di andare a nanna, o “a fare i ninni” come mi diceva una donna tempo fa: gilda policastrro è una ragazza piuttosto carina, ma anche luperini – considerando l’età che ha – mi sembra un bell’uomo.
Luperini non è male, forse un po’ basso. A me, a parte le divergenze di metodo, sta pure simpatico: indossa spesso dei maglioncini rosso fuoco che gli invidio molto.
Franz dammi pure de “lei”, io continuo con il tu (e tu prendilo per “you”). I pronomi sono cavità che occorre indagare, ancor più che colmare.
E poi c’ho un cognome qualsiasi, mica ganzo come il tuo!
Buonanotte e grazie.
PS: Franz, il cognome te lo invidio davvero (più dei maglioni di Lou Perini).
Su concetto di archivio e di memoria state prendendo cantonate. Un ripasso filologico non vi farebbe male. Si tratta proprio di mal d’archivio, per citare il testo di Jacques Derrida che partecipa nel giugno del 1994 a un simposio a Londra intitolato “Memory: The Question of Archives”. In quell’occasione, Derrida esamina il complesso rapporto tra l’atto del ricordare e le nuove tecnologie attraverso un’appassionata relazione che viene in seguito pubblicata con il titolo Mal d’Archivio. Un’impressione freudiana.
Come poi interpretare preferisco leggere la memoria alla maniera di Giorgio Colli e della sua lettura sul senso dell’arte
Tutto questo deviare verso la fisicità di Gilda Policastro porta con sé una vaga tristezza. Si vorrebbe poter degenerare – vero? – come ai bei tempi dei giornaletti, se non fosse che si è pur sempre in un luogo di cultura (?)
@franz
nel post del 30 Agosto 2009 alle 22:25 scriv:
“e se i critici ci mettessero anche un po’ di CREATIVITA’? se fossero artisti, ma neanche molto, ci basta una dose media, della critica? se provassero a scrivere letteratura in forma di critica, (….)?”
Ti consiglio di leggere IL RIBELLE IN GUANTI ROSA (Mondadori 2007) di Giuseppe Montesano, una lettura attualizzata di Baudelaire, un bell’esempio di romanzo-critica o critica romanzata. Beh, mi sbaglierò, ma è proprio “letteratura in forma di critica”. Leggere, per credere.
A proposito, ma dove trovo “Avanzi di Balera” e “Cattivo Sangue”? Hai pubblicato poesie in volume non antologico? Se sì, che titolo ha il libro? chi l’ha pubblicato?
Caro Luminamenti, “Mal d’archivio” l’ho ri-letto pure di recente. Anche se è un libretto di 120 pagine e ogni volta mi ci applico volenteroso, devo ammettere che non ne capisco una segaccia nulla (ma nulla nulla).
Però in alcuni passaggi mi fa schiantare dal ridere. Tipo questo
“Anche quando prende la forma di desiderio interiore, la pulsione d’anarchia scappa ancora dalla percezione, certo, salvo eccezioni: salvo dice Freud, se si traveste, salvo se si tinge, si trucca o si dipinge di un qualche colore erotico. Questa impronta di colore erogeno disegna una maschera direttamente sulla pelle. Detto altrimenti, la pulsione archiviolitica non è mai presente di persona, né lei né i suoi effetti.”
Tu davvero hai capito di che diamine parla Derrida? Me lo spieghi in un paio di parole?
Non scherzo.
@ d’accordo con franz sull’inopportunità, nella forma che pure sta a cuore all’umile biondillo, di una risposta di questo tipo all’articolo di policastro. se si tratta solo di appunti potevano forse rimanere sparsi tra i commenti al pezzo “incriminato”. Così il dibattito si è ancor più sbilanciato
@salvatore, sui miei libri ti rispondo in privato, comunque il primo non si trova più, gli altri su ibs li trovi, compreso l’ultimo, che qualche libreria ha ancora (grazie per l’interesse)
ps per salvatore: il “ribelle” di montesano non l’ho letto, ma montesano, a ogni buon conto, nasce e si sviluppa come narratore. almeno mi pare, dunque se ho scritto un’inesattezza fatemelo sapere.
Avrei amato più di dolcezza, di apertura nei commenti. Trovo che mettere un post come “risposta” non è un atto di ostilità, ma piuttosto offrire la sua manera di vedere le cose.
E’ importante avere uno sguardo diverso e e fluido.
Personalmente qualche commento mi ha fatto molto pena.
@ non sono un decostruzionista, nè un poststrutturalista e derrida non è certo dai miei preferiti, ma il suo concetto di archivio è filologicamente corretto, leggibile e comprensibile.
Poi, certo, ci sono passi ermetici, ma mica tanto poi.
Quello che vuole dire in quel passo che citi è l’idea del’oblio come desiderio che diventa impercettibile, salvo quando ciò che si vuole dimenticare è desiderio erotico – che non si può nascondere.
A me cmq non mi viene da ridere, sarà che rispetto qualsiasi modo di esprimersi. Poi mi può piacere o meno, interessarmi o meno, posso comprenderlo subito o dopo un anno. Trovo ad esempio abominevole il linguaggio di Heidegger ma se uno ha vero interesse lo capisce.
@franz
Sì, Montesano nasce come narratore ( e che narratore!). Non a caso l’ho citato, perchè mi era parso di comprendere che una delle questioni che emergevano dal convulso dibattito-polemica era il reciproco “prevaricare” tra i due schieramenti in causa pro/vs critici e scrittori. Nel mio primo commento che – evidentemente per colpa mia – non ha suscitato alcun interesse, provavo a dire (al di là delle polemiche e delle persone che non conosco, nemmeno di “fama, eccezion fatta per Luperini) che secondo me bisognava provare a “incrociare ” i linguaggi “alti” e “bassi” nell’attuale panorama socio-letterario; che la questione era vecchia come il cucco (a mio parere risale già all’epoca dell’impero romano (Satyricon, Metamorfosi o Asino d’Oro come letteratura “bassa” versus i classici come esempio di letteratura “alta”; per saltare a piè pari al medioevo : polemica tra “lingua bassa” (De Vulgari eloquentia, Dante) e lingua “alta” (latino ); a l cinque-seicento (il grande successo dei “coevi” di Shakespeare vs il grande shakespeare stesso; e mi fermo alla famosissima “querelle” tra “antichi” e “moderni” nel secolo dei Lumi (Diderot, assertore della lingua “bassa” e del “realismo” contro les “anciens” e la lingua “alta” dei contes de fées e della poesia di tradizione pastorale, neoclassica eccetera. E mi fermo qui, perchè già suono a me stesso u n po’ troppo professorale .
Che poi la letteratura sia stata “centrale” negli anni settanta o anche prima, tutto questo è un puro mito: se il metro di valutazione è il venduto e il pubblico dei lettori, beh, allora oggi la platea (in tutte e due i campi) mi pare più ampia. Qui ha ragione Debord, che ha visto con esattezza profetica modi tempi e convulsioni della “società dello spettacolo” in cui si vive: oggi tutto è spettacolarizzato in maniera sempre più parossistica, elefantiaca, in mille rivoli marginali, di poco conto rispetto alla sostanza di questioni basilari; e vale anche per il campo della letteratura, che non sfugge a queste regole. Da qui quella sensazioni che alcuni hanno definito di “maggiore marginalità” della letteratura rispetto al passato. Sensazione indotta da un falso movimento, rispetto al passato. Io, invece, vi vedo possibilità di maggiore “democrazia”, ma non rinuncio comunque agli strumenti critici/filosofici (storicismo, materialismo dialettico) per leggere “il reale”, magari incrociando la diversità e complessità dei linguaggi in campo. Quello che trovo divertente, a volte, è che il metodo d’indagine sociologico (anch’esso vecchio come il cucco), che porta a “rileggere” criticamente alcuni fenomeni in cinema, letteratura, arti visive in genere (i b movies, il linguaggio pop nelle arti figurative eccetera), dagli “affluenti” delle ultime generazioni ( e c’è sempre un’ultima generazione in agguato) viene fatto assurgere “a totem” per nuove sperimentazioni, nuovi modi di espressione ( e sin qui nulla di male, anzi ben vengano a rinnovare i “linguaggi”) con l’aria di inventare il mondo per la prima volta, come se non vi fosse stato un passato di “quei” linguaggi “nuovi”; viceverse questo viene fatto assurgere a nuova ideologia, magari accusando i “vecchi” di “ideologismo” (peccato che di sicuro commettono questi ultimi): ma sono due specchi dello stesso “male”. E qui GB (Gianni Biondillo) ha ragione a rivendicare il diritto di pretendere che non si generalizzi, ma che, al contrario, chi ha qualcosa da dire , in merito, lo dica facendo i nomi e cognomi dei “reprobi”, senza mettere tutti nel mazzo. Come dargli torto?
Ripeto, la complessità maggiore della società e delle culture di massa nell’epoca postmoderna e post-tutto, impone l’ incrocio dei linguaggi ( e questo vale per critici e scrittori). E qui cade a fagiolo Montesano, un narratore che nasce tale, ma che -secondo me, parere di “dilettante”- sa incrociare benissimo i linguaggi e la loro complessità; se ti capita di leggere IL RIBELLE, vedrai che avrai difficoltà a definirlo come puro e semplice “saggio” critico; vero è che ha vinto il premio Vittorini 2008 nella sezione saggistica, ma è impostato come un romanzo e come tale si legge, pur non essendolo; insomma , per me , è un esempio di “letteratura” sotto la veste di critica, proprio nel senso da te auspicato. Per questo mi permetto di segnalarlo, non per altro. Del resto non ho letto tutto e magari vi saranno altri esempi che vanno nella direzione da te auspicata.
Infine, e per quanto mi riguarda, ho capito poco del “criptico” che ravviso nella querelle Policastro/Giglioli vs reazione Biondillo/effeffe. Dico solo che GB dice cose condivisibili, ma le dice “appicciandosi” a tutto danno della chiarezza “cartesiana” che pure occorrerebbe in casi simili e con “questo mezzo” (il blog), che ha limiti e possibilità ancora inesplorate, ma che ritengo essere un’ottima palestra di “esercizio democratico” della critica e della creatività. Purtroppo è anche uno strumento che aizza e/o solletica al massimo grado il narcisismo. Ee di narcisi, si sa, ve ne sono a legioni in rete… Ma qusto è un altro discorso.
In ultimo, io farei una ulteriore distinzione, non solo tra critici e scrittori, ma anche tra “scrittori” e “narratori”: e qui si aprirebbe un altro immane abisso, con altre infinite polemiche su scrittori, scriventi, scribacchini,.scribi e narratori, narranti, giullari, aedi eccetera eccetera.
Basta così.
OT
biondillo, ma è vera la storia degli sms? e saviano che dovrebbe dire?
:)
post e commenti assolutamente degni del Bloomsbury Group…
un saluto a Gilda
non so che senso abbia commentare come certi chiosatori islamici che hanno alimentato di volumi e volumi le glosse al corano fino a fare delle norme islamiche quel caos che conosciamo.
Ma notando certi commenti credo abbia ragione afiosso. e se fosse tutto un passare dalla critica rizomatica alla critica PERIZOMATICA ovvero un dar di fioretto a scopo seduttivo?
tutta questo (nostro) sciame verbigerante e veramente rizomatico che è il commentare il commento del commento via internet sarà pure una forma veramente interessante di ordine del discorso ma del tutto improduttivo che rende impotente.
E’ per questo che alla fine la Ubalda critica lo impenna.
Scriverà lo Ziba-ubaldone?
PS Policastro s’arrabbierà per la boutade ma è parte del gioco linguistico qui, come hanno detto dall’inizio altri autorevolmente. E’ un modo per manifestare un disagio.
una curiosità. nel testo di Policastro, quando si legge:
“Ma intanto, di scrittori, ce ne sono? Probabilmente quei pochi non arrivano alle bagarre delle gazzette e dei premi, che i loro premi, quando e se mai ne vincono, sono i riconoscimenti di giurati amici, ma non i famigerati quattrocento, no: tre o quattro che riescono ancora a sostenere un’idea alta (cioè primariamente sociale) di letteratura. Ci sono sì o no, questi scrittori? Ci sono, ci sono […]”
l’autrice si sta forse riferendo alla propria autobiografia? sta per caso citando l’ultima edizione del Premio Antonio Delfini, in cui è risultata vincitrice, insieme – entre autre – a Marilena Renda, quest’ultima non soltanto “amica” ma anche compagna di un giurato (Andrea Cortellessa)? a questo punto vogliamo sapere: quali sono le altre relazioni d’amicizia tra vincitori e giurati? dateci il grafo completo della società!
c’est fantastique…
lorenzo
errata corrige: “biografia” non “autobiografia”.
ciao,
lorenzo
Sarei interessato a G. Policastro, “In luoghi ulteriori. Catabasi e parodia da Leopardi al Novecento”, Pisa 2005. Volevo comprarlo in rete, ma pur essendo di 176 pp. costa 68 €. Per un momento ho pensato che il prezzo fosse parte del titolo, e che il libro fosse l’ultimo della catabasi parodica. Però non è del Novecento.
io lo trovo a 34 euro. è sempre caro ma con questo prezzo la tua battuta avrebbe fatto meno ridere… Invece così è davvero buffa. Bravo! :-)
http://www.ibs.it/code/9788842705802/policastro-gilda/in-luoghi-ulteriori-catabasi.html
Finitela, tutto questo mi imbarazza. Sparare a volto coperto a me sa di intimidazione.
Dubito che il prezzo di copertina lo stabilisca la Policastro. Inoltre credo che ad un saggista farebbe molto comodo che i suoi libri costassero 10 euro al massimo: non ci si fa una lira comunque, ma almeno guadagni un paio di lettori.
Io ho qualche copia dell’ultimo che ho scritto: l’editore mi ha chiesto se preferivo essere pagato in ghiaia o in copie, e il narcisismo ha vinto.
Se volete ve le passo per una bottiglia d’olio e una di vino (però non del discount).
mi chiamo Funza, Gregor Funza
solo per evitare la moderazione.
dunque
http://www.ibs.it/libri/Policastro+Gilda/libri.html
ossia: in brossura 34 €, rilegato 68 €. nonostante le apparenze, meglio comprarlo rilegato, e comprarlo subito: pare che la seconda edizione sforerà i 100 €.
prima che chiudano bottega:
– fatti 4 conti, il futuro dell’editoria sta nella legatoria.
– gilda potrebbe mettere qui su NI a disposizione di tutti il file completo scaricabile de “In luoghi ulteriori”. grazie
secondo me la questione è partita da una falsa premessa, quella dei critici-critici e degli scrittori-scrittori, che ritengo distinzioni assai poco materialiste. In quanto non sono realmente accertabili. Non esistono elementi puri nella realtà. Ogni scrittore è nello stesso momento un critico.
A volte penso che i saggi critici non dovrebbero essere a spese dell’Università. I professori dovrebbero imparare a confrontarsi con le nicchie di mercato.
Per tacere di quelli che nella bibliografia del corso spesso ti appioppano i loro insulsi testi. Per poi sostenere le inevitabili leggi del mercato per stabilire quali autori “vadino”.
si possono sempre fare discorsi generici, come questo di ama o questo
https://www.nazioneindiana.com/…/dei-baroni-non-si-sa-niente/
però hanno il difetto di scivolare nel moralismo. qui invece c’è la possibilità di fare un piccolo esercizio di morale. di come sia nato il libro (se finanziato o no ecc.) non si sa niente. il risultato invece è chiaro: 176 pp. meno il paratesto (frontespizio, colofon, indice ecc.) fanno sì e no 160 pp., ovvero 80 pagine materiali. Il libro è uscito nel 2005, avrà venduto quel che avrà venduto, ma di sicuro non venderà più: gli studiosi interessati infatti l’avranno già comprato o fatto comprare, gli studenti obbligati faranno tutt’al più fotocopie (pagando 8 € invece di 34). L’autrice ha ora la possibilità a poco prezzo di smarcarsi da un’operazione più paradossale che oscura con un beau geste: mettere il file del libro a disposizione di tutti su NI. dixi et salvavi animellam meam.
Il discorso è semplice. Questa è gente che vive al di fuori di ogni legge di mercato, al di fuori di ogni confronto diretto anche con la più marginale nicchia di mercato. Questa è gente che vive una esistenza meschina fatta di tanti piccoli giochi di potere quotidiani. Questa è gente che si autopromuove, spesso discettando su autori di fama. Questa è gente che ti dice, il tuo libro non vale niente perché è fuori mercato. E poi va ad elemosinare i fondi all’università o non so a chi, per farsi pubblicare testi che nessuno mai leggerà.
Ama, come fai a sapere che il libro di gilda è stato finanziato? io non lo so, e neanche posso saperlo perché a milano non c’è da nessuna parte e non posso controllare. so invece che un prezzo così non l’ha mai fatto neanche dell’utri. ripeto, è una buona occasione perché l’autrice si smarchi. quanto a noi lettori, diremo con hardy: vogliamo vedorlo!
scusate il plurale, avrei dovuto usare il duale (c’è pure laurel).
Sono convinta che, anche senza aver letto il libro, se ne può sapere di più. Ad es., dall’ibs si vede che la copertina è di tela, e non di materiale privato. Se essa dunque costa da sola 34 €, inviterei a guardare non sotto, ma dentro la copertina.
ops pregiato, non privato.
no…no brigitte , mi sa che il lapsus è privato…ops, appropriato.
dovrebbe essersi capito, ma è sempre bene esplicitare: io sono curioso/voglioso di leggere il libro, e siccome non sono masochista, sento/spero che sia un bel libro. certo che se mi si lascia così in ammollo, finisco come al pacino in shent of woman…
I mammiferi marini
Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere.
va virgolettata immagino. e firmata. A.H.
scusate il lapsus freudiano del cognome. a prop., ho visto sul catalogo Aa. Vv., Resexualizing the Desexualized, Pisa 2007, pp. 276, € 225: se compro tutt’e due, potete arrotondare a 300 € complessivi?
il record comunque è saldamente in mano a P. Sartori, La nazione nella tradizione Millat nelle riviste degli ‘Ulamà’ di Tashkent (1917-18), Pisa 2008, cm. 17×24, pp. 112, € 110. due euro a pagina materiale, e per fortuna che non ci sono illustrazioni. a questo punto, con biondillo e policastro s’impone l’argumentum e silentio.
@nsuini: non sapevo l’avesse detta aldous huxley.