Critica letteraria di nomi e cose
di Gilda Policastro
Nomina sunt consequentia rerum. Se un critico rinuncia alla possibilità di parlare dei libri, o di riferirsi direttamente agli scrittori di cui viene sostenendo la rilevanza, considerando i vituperati nomi argomento di pettegolezzo o da “questura”, la critica si consegna ancora più inerme alla marginalità e inessenzialità attuali.
Quando Edoardo Sanguineti, in pieno fervore neoavanguardista, si assumeva la responsabilità di degradare Bassani e Cassola al rango di “Liale del ’63”, il problema non era minimamente avvertito nei termini lamentati da Giglioli sul “manifesto” (18 agosto scorso), di schieramenti manichei o di diatribe da gazzette. C’era, dietro quel giudizio sanguinetiano fortemente limitativo, un’idea della letteratura che era prima di tutto un’idea delle possibilità di espressione di un mondo in rapidissima evoluzione, già a quell’altezza. E spiace che oggi, invece, quei nomi Giglioli non voglia farli, per una serie di ragioni. Prima di tutto per il sospetto che, giocoforza, ingenera in chi legge: ovvero che quei nomi non siano celati per provocatoria indicazione di metodo, ma che proprio, invece, non esistano affatto, e che all’arco di sostegno che il pezzo erige alla letteratura di genere (dal noir alla non-fiction), non ci siano poi molti puntelli. S’intravede poi, individuato il disegno, e ammesso che l’arco regga, il solito paesaggio culturale contemporaneo: il perdurante dominio postmodernista dell’interpretazione sui fatti, e secondariamente (o forse in stretta correlazione) la manifesta, prevaricante superiorità intellettuale (per formazione, consapevolezza teorica, orizzonte comune) dei critici sugli scrittori. Oltre alla separazione ormai conclamata dei ruoli, che portava Romano Luperini sul “Corriere” di qualche settimana fa a stigmatizzare tanto l’operato dei “critici-critici” quanto quello degli “scrittori-scrittori” attuali, mentre fino agli anni Settanta tale supposto conflitto di ruoli faceva scarsamente problema, e mai e poi mai i Fortini, i Sanguineti, i Pasolini si sarebbero arroccati in uno solo, magari il più comodo, senza rivendicare il diritto-dovere di esprimersi in ogni forma e ambito cui avessero accesso, dalla critica, accademica o militante che fosse, alla stampa quotidiana: esprimersi con idee, con polemiche, con categorie di interpretazione del presente (l’omologazione, il genocidio culturale, l’avanguardia), e anche, sissignore, con i nomi.
L’esiguità di mezzi riguarda in particolare i cosiddetti scrittori-scrittori, sempre più raramente all’altezza del compito di rinnovamento delle forme cui la storia non solo letteraria inevitabilmente richiama, meno di tutti coloro cui allude Giglioli. Alluderebbe, in verità, perché non viene in mente, di fatto, nessun nome che possa avvalorare la sua idea di una vitalità (addirittura) della narrativa contemporanea, impegnata a offrire del mondo un’immagine “varia e mobile”, pur con la inevitabile “rinuncia ad essere” di chi scrive, la dislocazione del soggetto “out of here” (dislocazione che raccontata nei termini di Giglioli somiglia però in verità più alla ormai “classica” poetica modernista dell’estraneità che al differimento dell’azione postmodernista).
L’ultimo choc letterario che si ricordi rimonta agli anni Novanta: quando in Woobinda di Aldo Nove si ammazzavano i genitori perché non usavano il bagnoschiuma Vidal. Era l’apoteosi della televisione, della pubblicità, l’inizio del bello e del brutto della diretta (così nel racconto, ancora da Woobinda, della non-stop televisiva su Alfredino Rampi: il primo reality- horror nazionale).
La categoria che andrebbe proposta ai romanzieri di oggi, di cui Giglioli, beato lui, evidenzia la ricchezza, è quella lacaniana dello “sfiancamento” contro la “scorrevolezza”: “I miei scritti non li ho scritti perché vengano capiti, li ho scritti perché vengano letti. Che non è per niente la stessa cosa” (da Il trionfo della religione).
Ma i romanzi cui Giglioli allude, dal noir (si prova a ipotizzare) di De Cataldo, De Silva, Evangelisti al new italian epic di Wu Ming all’autofiction di Genna o Scurati, sono romanzi in cui non s’inciampa. Romanzi che restano, nel migliore dei casi, documenti della nostra epoca, senza mai farsene monumenti (un monumento ridimensionato alle possibilità del tempo, non di necessità imperituro: come, ad esempio, quel Vidal). Ma, invece, ubi sunt i libri che raccontino il presente restituendone “il rumore” e non un’immagine levigata e patinata, opzionale evasione per chi nella vita lavora, produce, fa altro, e poi per diporto, di tanto in tanto, legge?
La tesi di Giglioli dell’estraneità dello scrittore-persona al mondo in cui vive vale se lo scrittore in questione si barrica in casa propria col cameriere per cui può ancora, contrariamente alla massima di Montaigne (hegelianamante rivisitata), apparire un eroe. Ma fuori da quella porta, e dalla stanza in cui lo scrittore si è arroccato col suo cameriere, non camminano due persone di uguale colore sullo stesso marciapiede, e il muratore rumeno parla un italiano più corretto delle escort coinvolte negli scandali politici. Qualcosa è cambiato, Giglioli. Se la povertà non è più relegata ai margini del mondo, ma è dappertutto, per effetto della globalizzazione (come sapeva già Marx, molto prima di noi), ed è in questo mondo (prima che nella rete o nel virtuale) che scrive, chi scrive oggi, ciò non implica che si debba smettere di rivendicare uno spazio di resistenza per la letteratura, che, anzi, potrebbe tornare a occuparsi del mondo, nel suo modo tipico e secolarmente valido, mutatis mutandis: con quelle parole scelte, che prima si vergavano a inchiostro, oggi si digitano sul pc. Ma è dunque solo questo a rendere impensabile che la letteratura si accenda di nuovo di un senso insieme storico e allegorico, che viva di momenti sublimi (di tanto in tanto, come no, quando succede, quando è il caso) come il finale del Crocifisso di Tozzi o della Coscienza di Zeno? Perché smettere di sperare che si possa ancora tradurre il mondo in uno “stile” che si stagli sulla mediocrità della mera espressione verbale, che la langue corrotta dalla medietà di massa e dall’approssimazione (oltre che dall’apparente facilità con cui ormai si adopera la scrittura in ogni ambito e con ogni mezzo: scorrevolezza vs sfiancamento, di nuovo) si faccia parole, distante dal senso comune dei reportage e delle inchieste giornalistiche (nel migliore dei casi), o delle diatribe in rete degli irriducibili del virtuale (evidentemente, nel peggiore)? Il problema se mai è di ritrovare un orizzonte politico, una comunità di riferimento, al di fuori della quale la letteratura è destinata, come preconizzato (ma in termini nient’affatto ansiosi) da Giglioli, a trasformarsi in altro da sé, e cioè in autopropaganda, in dispendio fluviale e narcisistico dei “tutti che possono (o riescono) a pubblicare”.
Al romanzo, al romanzo.
Ma intanto, di scrittori, ce ne sono? Probabilmente quei pochi non arrivano alle bagarre delle gazzette e dei premi, che i loro premi, quando e se mai ne vincono, sono i riconoscimenti di giurati amici, ma non i famigerati quattrocento, no: tre o quattro che riescono ancora a sostenere un’idea alta (cioè primariamente sociale) di letteratura. Ci sono sì o no, questi scrittori? Ci sono, ci sono, Giglioli, ma sono pochissimi (altro che vitalità), sono nascosti, scrivono, come Gabriele Frasca, romanzi su sottoscrizione, mandati in lettura ad interlocutori selezionati accuratamente in ambiti diversi (non solo critici e scrittori, dunque, ma storici, filosofi, sociologi) perché il libro nasca dal dibattito delle idee e non dall’ossessione di essere lo Scrittore, icona pop-chic dei vecchi e nuovi media. Un orizzonte collettivo, un panorama di nuovo politico: è un grande problema, è l’urgenza del presente. Perché la letteratura, se non è vitale, non è morta. Ma, come il malato di Proust, forse tira solo a campare un altro po’ prima dell’agonia, e magari manca davvero poco.
Le recenti sgradevolissime polemiche del premio Strega mi hanno convinto a stendere questo panorama della narrativa italiana contemporanea senza fare neanche un nome. Si potrebbero invocare moventi e precedenti più nobili, dalla storia dell’arte senza nomi ipotizzata da Wolflin a quella della letteratura “senza che nemmeno un nome sia pronunciato” sognata da Paul Valery, invece di affannarsi a protestare contro l’insopportabile tendenza a ridurre il discorso sulla letteratura a un chiacchiericcio malevolo a base di tabelline, classifiche, chi vince e chi perde, i promossi e i bocciati, chi è amico di quello e nemico di quell’altro. E come sarebbe bello poter dire invece: chi se ne frega, la letteratura è un’altra cosa. (…) A uno sguardo d’assieme, la narrativa italiana degli ultimi anni appare come un panorama piuttosto mosso e frastagliato. Il che di per sé è un sintomo di vitalità: scrivono in tanti, esordire non è difficile, continuare nemmeno, e uno zoccolo duro di pubblico c’è. Forse non è il momento dei grandi autori, delle alternative drammatiche, delle poetiche l’un contro l’altro armate, e nemmeno di quella caratteristica peculiare della letteratura italiana che è il fatto di avere sempre avuto in ogni epoca astri riconosciuti da subito, con intorno un pulviscolo di minori. (…) Di fronte a una letteratura che parla essenzialmente di “quello che resta”, è facile sbottare: e tutto ciò che non rientra in questo resto dove cavolo è andato a finire? Ma una radicalità senza radici è il peggio che ci si possa augurare per chiunque. Non è detto che lo stato di cose presenti duri in eterno, e nemmeno per molto. Ma è certo che qualora si trattasse nuovamente di puntare sul tutto e sul nulla, riusciranno a farlo soltanto coloro che sono stati fedeli a quel poco di vero che gli era stato assegnato: a loro come a tutti. [Daniele Giglioli, Il Manifesto, 18 Agosto 2009]
I commenti a questo post sono chiusi
i critici critici sognano scrittori scrittori
gli scrittori scrittori sognano critici critici
un vero incubo per la letteratura italiana contemporanea.
effeffe
(desiderata)
leggere cose belle.
di critica e letteratrua.
come i bambini che vogliono solo giochi belli.
forssero costruzioni, bambole, lucciole o lanterne.
Senza parlare della “rentrée littéraire” in Francia che non ha nessuno esempio…
Se volete osservare un vero incubo, è quella: la rentrée littéraire.
Il critico che entra nel blog ne accetta le regole e le modalità. Troppo, chiedere al blog(ger) di rispettare modalità e regole del critico? Effeffe, argomenti e non boutade? anzi:
@effeffe
Argomenti e non boutade?
Il critico che entra nel blog dovrebbe sapere che la boutade è una delle modalità, e non delle peggiori.
Per fortuna che i lettori quando entrano in libreria ignorano sia il primo che il secondo testo. E per fortuna che ci sono ancora tanti classici da leggere che non sono stati letti
Gilda Policastro:
credo che non avrei dovuto lasciare un commento, perché il mio è scarso di argumenti.
Solo penso che la vera critica viene dal lettore.
La boutade dice in poca parola una manera di pensare,
dunque riassunto in una figura di stile: è un argomento
vivo.
La letteratura nutre un’illusione di perfezione: l’orrizzonte
di scrittura e di critica.
Lo scrittore cerca la parola giusta, lo sguardo nuovo della critica.
La critica aspetta il libro slancio della letterature.
Non mi sono mai affidata a una critica per leggere un libro
e gustare la bellezza.
E credo che se fossi una scrittrice, non leggerei mai una sola critica.
La critica è momentanea, occhio della società in un tempo delineato.
Non c’è nessuna “ragione” per pensare che la “vera” critica venga dal lettore, visto che ci sono anche i lettori poco svegli. Né si può escludere che questi tipi non siano la maggioranza. Il potere della letteratura non è democratico.
Se ci può essere una verità nella critica, è quella che resiste al Tempo.
@alcor, véronique vergé
continuiamo così, facciamoci del male.
cara Policastro Gilda
la ringrazio per il blogger ma purtroppo sono solo uno scrittore.
A proposito del gruppo 63 scriveva Pasolini:
«La loro furia iconoclasta ha fatto perdere troppo tempo a troppi giovani, hanno interrotto stupidamente, per puro snobismo, lo sviluppo di tutta una corrente della cultura italiana. Hanno fatto il vuoto gratuitamente, per pura isteria di “superamento”»
Prenderò a prestito la felice espressione usata da Pasolini per parlare nel suo caso di” pura isteria dell’esserci”. (non in senso heideggeriano)
Esserci qui sta a significare far parte del Litteratur System, ovvero di un milieu più o meno riconoscibile, più che per i nomi, e aggiungo le opere, per i cognomi. Ecco perché i fortunati ammessi alla grande festa Litteratur quando si presentano mormorano il nome, per appoggiare la voce con una certa energia sul cognome e aspettare, non senza ansia, che la hostess all’ingresso verifichi la presenza sulla guest list.
Detto questo, la gentile Gilda Policastro si lascia andare in roboanti e definitivi giudizi sul contemporaneo senza una traccia di argomento:
la critica si consegna ancora più inerme alla marginalità e inessenzialità attuali. (ce la spiega? Curiosità: ha letto Non siamo gli ultimi; Autore: Rizzante Massimo; Editore: Effigie ?)
il solito paesaggio culturale contemporaneo: il perdurante dominio postmodernista dell’interpretazione sui fatti, e secondariamente (o forse in stretta correlazione) la manifesta, prevaricante superiorità intellettuale (per formazione, consapevolezza teorica, orizzonte comune) dei critici sugli scrittori.
Signora (signorina Policastro) se le finanze me lo consentissero le pagherei un viaggio a Parigi o a Londra, per trovare conferma ( o meno) a tale affermazione. E provare a capire quanti critici letterari italiani si conoscano oltre le patrie galere. Osservazione. L’universo, ma sarebbe più corretto parlare di paesaggio letterario in Policastro Gilda sembra limitarsi alla condizione italiana per quanto l’autrice non specifichi la cosa. Altrimenti non si spiegherebbe l’affermazione che segue
“L’ultimo choc letterario che si ricordi rimonta agli anni Novanta: quando in Woobinda di Aldo Nove si ammazzavano i genitori perché non usavano il bagnoschiuma Vidal. ”
senza prescindere da, per citare un solo esempio Les particules élémentaires di Michel Houellebecq
Avrei altre cose da aggiungere a proposito di questa sua lettera più o meno aperta a un collaboratore del Manifesto, cui peraltro credo anche lei collabori, ma, e me me scuserò, dovendo scegliere tra una nuotata al Porteghetto (Imperia) e dialogare con il vuoto dell’esserci a tutti i costi, (magari lei c’è già ma non se n’è ancora resa conto) preferirei la prima soluzione. Non me ne voglia. Comunque si rassicuri, per quanto possa valere la mia opinione credo di poter dire che lei ha un grande futuro da blogger.
effeffe
@chiara
io come te
effeffe
@effeffe
Sì, era solo di narrativa italiana contemporanea che si dibatteva nei due pezzi, e di una certa narrativa “generazionale”, che il critico Daniele Giglioli, ove che scriva (prima ancora che sul ”manifesto”, ad esempio, nella voce sulla ”Scrittura dell’estremo. Narratori alla svolta del nuovo millennio” apparsa sulla Treccani), viene sostenendo da tempo. Il dialogo e il conflitto tra alcuni dei critici che saltuariamente e senza nessun inquadramento professionale (dunque nessun vincolo o adesione a consorterie, massonerie, mafie e mafiette) collaborano alla realizzazione delle pagine culturali del quotidiano in questione, si pensava di poterlo esportare qui per una maggior circolazione delle idee critiche e un confronto anche duro ma sensato su alcune questioni che ci stanno a cuore. A noi. A lei vedo che preme maggiormente ricercare notizie e curiosità anagrafiche come fossimo in questura davvero. O tempora o mores…se la ricorda, efffeffe, la Polemica su Officina tra Pasolini e Sanguineti (evocati, rispettivamente, da lei e da me, non a caso): ”Io non dubito, caro Pasolini”. E seguivano dichiarazioni di poetica e argomenti, non (solo e sempre) boutade.
Policastro, fai sul serio?
E allora diciamo che è quasi impossibile commentare argomentando un post che sottopone a critica un oggetto misterioso. Di cosa si parla qui? Di un articolo di Giglioli di cui non viene dato il riferimento se non in poche vaghe righe e per di più a fine pezzo? mettete almeno un link. Cosa sostiene Giglioli? Difficile capirlo dal pezzo di Policastro, ma a parte questo, che tuttavia mina già la chiarezza della polemica, qual è la tesi di Policastro, se esiste una tesi che vada oltre Giglioli? Perché se è solo una questione tra i due, come sembrerebbe qui, l’interesse a una qualsiasi argomentazione, già minato dalla vaghezza e da una certa caoticità del pezzo, viene a mancare.
@alcor
pare che il pezzo si sia capito eccome, così la sintesi di quello di DG: purtroppo chi lo sostiene non ha molta voglia di dirlo qui, e se l’andazzo è questo, qual maraviglia?
proviamo a cambiar rotta? dài, alcor che ce la puoi fare anche senza lo schemino alla lavagna.
@alcor in tema di chiarezza, il tuo deittico ”qui”, ad esempio, a cosa si riferisce? al commento per Forlani, al pezzo? se il pezzo non si capiva, come mai ti sei subito lanciata nella questione ”boutade” senza dire immediatamente ”il pezzo non si capisce, schemetto, schemetto”?
uffa, i soliti metodi. dài, cambiamo rotta.
com’è che il MIO deittico “qui” è più oscuro del TUO deittico “qui” di riga tre del tuo penultimo commento?
Policastro, mi sono lanciata nella questione boutade perchè non mi è piaciuto l’autoritarismo che trapela dal tuo commento.
Quanto allo schemino, e se fossi scema? non è una colpa, fammelo, questo schemino, e fammelo chiaro, così io e gli altri despossenti potremo argomentare, dandoti la soddisfazione che cerchi.
Oppure rileggiti e chiediti se hai ben organizzato il tuo discorso.
@alcor
facciamo così: se il thread continua a seguire questa china, schematizzo anche coi disegnini. ma concediamo ad altri di aver capito, e di volersi esprimere, magari con calma, e un po’ meno a caldo sulle questioni in campo?
concediamolo, ripensando ciascuno ai suoi deittici.
“Il problema se mai è di ritrovare un orizzonte politico, una comunità di riferimento, al di fuori della quale la letteratura è destinata, come preconizzato (ma in termini nient’affatto ansiosi) da Giglioli, a trasformarsi in altro da sé, e cioè in autopropaganda, in dispendio fluviale e narcisistico.”
Questo passaggio di Gilda Policastro è una delle cose più intelligenti e condivisibili che ho letto da parecchio tempo a questa parte.
La fine del ruolo di mediazione culturale della critica e l’emarginazione intellettuale – nonchè la diffusa bassezza – della stragrande maggioranza degli scrittori italiani, nascono da questo grave limite storico.
ma come, tu in una classe lasci subito fuori il più debole senza dargli neppure una chance? non è così che si trovano le comunità di riferimento, l’orizzonte politico non è elitario, è pedagogico, dovresti saperlo.
o meglio, era pedagogico, ai tempi della tanto citata, qui, Officina.
@ alcor
ecco, finalmente. elitario vs pedagogico è una questione essenziale. quando prima qualcuno rivendicava la sovranità del lettore e delle sue scelte inappellabili, rabbrividivano con me decenni e decenni di mediazione intellettuale. e si è sicuri che la soluzione alla marginalità del campo letterario entro un orizzonte in cui la politica tra l’altro è sparita ad ogni livello della vita pubblica sia la pedagogia? effettivamente Pasolini vs Sanguineti funziona anche rispetto a questa ulteriore materia di discussione: ”il più debole” va mitizzato, assecondato, vezzeggiato con la semplificazione e la banalizzazione, o, piuttosto, al più debole si offre uno strumento di emancipazione, ovvero ancora e sempre lo studio? l’ultimo della classe, se è uno, non fa arrestare lo svolgimento della lezione: il prof gli chiede di ascoltare il seguito, e di ricorrere per i chiarimenti e le integrazioni del caso a uno dei compagni che magari hanno capito prima e meglio di lui. Specie se l’ultimo della classe non c’è, ma ci fa.
Affinché io possa interloquire in modo non ripetitivo con Lei, dottoressa Policastro, Le chiedo la pazienza di spendere un po’ del Suo prezioso tempo leggendo alcune cose ormai vecchie (addirittura di quasi un lustro) e vagamente rugginose, che ho scritto molti anni addietro (spesso con quell’impeto giovanile che oggi quasi mi commuove), giusto per evitare ridondanze. Fattolo mi sentirò più tranquillo nell’esposizione a posteriori di un mio più coerente commento al suo pezzo, qui graziosamente pubblicato da Chiara Valerio.
Eccole i riferimenti bibliografici:
Qui una lunga (in due parti) elucubrazione sulla “questione” del genere (che è, inter nos, un genere di questione che m’annoia assai):
https://www.nazioneindiana.com/2005/11/23/lassalto-all%e2%80%99alto-castello-1-di-2/
https://www.nazioneindiana.com/2005/11/23/lassalto-all%e2%80%99alto-castello-2-di-2/
Qui il tema del “dire” letterario, tema da non prendere sottogamba:
https://www.nazioneindiana.com/2006/02/22/una-lingua-che-dice/
Ancora qui una chiosa al pezzo precedente, dove, en passant, si citano nomi e cognomi:
https://www.nazioneindiana.com/2006/03/02/chiose-di-tutti-i-giorni/
E giusto per concludere una noterella polemica, ben più moderna (dello scorso anno bisestile) tanto per non dimenticare il pepe, insieme al cacio e i maccheroni:
https://www.nazioneindiana.com/2008/07/07/gentilissimo-paolo-di-stefano/
in attesa di un grazioso riscontro la saluto cordialmente,
Gianni Biondillo
@Gianni Biondillo Grazie del résumé (un filo autopromozionale). Vuole il mio in contraccambio, o può entrare in argomento?
siete meravigliosi, e amo molto le donne che si chiamano per cognome.
Gent.ma Gilda,
io la leggo sempre con molta attenzione, si figuri. Ma dato che Lei non ha alcun dovere di leggermi (e che Dio ce ne scampi! Siamo fortunatamente liberi di scegliere le nostre passioni), volevo carinamente accertarmi che venisse a conoscenza di alcuni miei trascorsi scribatori, giusto per evitare grevi incomprensioni.
Eppoi, “out of the teeth”, pensa davvero che io abbia bisogno di autopromuovermi qui, a casa mia? Suvvia, sia meno sospettosa…
ps: gilda, abbi pazienza, biondillo sarà stato autopromozionale di che cosa? di alcuni pezzi suoi ? e allora? dai, non stare così sulla difensiva mettendoti sull’offensiva, e scendi dalla cattedra, te l’ho scritto varie volte. ne guadagnerai in tutto, credimi. (il tuo pezzo lo trovo di grande interesse.)
“l’ultimo della classe, se è uno, non fa arrestare lo svolgimento della lezione: il prof gli chiede di ascoltare il seguito, e di ricorrere per i chiarimenti e le integrazioni del caso a uno dei compagni che magari hanno capito prima e meglio di lui.”
:-)
questo mi risarcisce dell’irritazione anti-autoritaria, anche nel caso horribilis in cui non sia autoironica.
Resta che a me piacciono le cose ben fatte, con cura e – nel caso si voglia aprire una discussione – perspicue. Anche tenuto conto del fatto che non tutti leggono o sono tenuti a leggere abitualmente e fedelmente Giglioli o Policastro.
La marginalità del campo letterario, in ogni caso, non si risolve con discussioni come queste, anche se partissero. Per quanto mi riguarda, e so che sarò impopolare, la marginalità della letteratura, rispetto a cinquant’anni fa, è irrimediabile, questo non le toglie importanza, ma la centralità è andata a farsi benedire da un pezzo.
Proprio per il gusto della notarella a pie’ di pagina, vorrei dire a mezza voce alla dottoressa Policastro che il succitato articolo del Corrierone di Luperini lo trovai assai deprimente. Non certo per la sacrosanta difesa di un autore che amo (e di una persona che adoro, ma questi sono fatti miei) ma per come abbia esercitato tale difesa del pubblico personaggio: usare Saviano per colpire in un mucchio indifferenziato è davvero triste. Non un nome, non un cognome, solo sottintesi, solo mezze frasi per gli addetti ai lavori, per “chi sa”. Un articolo, in fondo, capriccioso e depotenziato. Inerte. Ecco, mi chiedo se questa sia dunque la prova della evidente, della manifesta superiorità della critica letteraria contemporanea, così come viene qui rammentata, rispetto la miserabile schiatta degli scribacchini. (come sono rassicuranti le semplificazioni!). Tesi talmente curiosa che non mi offende affatto, in quanto appartenente alla vil razza dannata, ma, anzi, mi diverte assaissimo.
Insomma, la sento ripetere talmente di continuo da chi, appunto, fa critica professionista – me lo disse a voce fra i tanti, proprio perché i nomi io non li dimentico, Filippo La Porta – che mi chiedo: com’è questo desiderio di – perdoni il francesismo – “suonarsela e cantarsela”? E’ così simile alla strategia comunicativa del nostro stimato governo in carica, questo dirsi addosso quanto siamo bravi e simpatici e intelligenti e preparati… cito: “la manifesta, prevaricante superiorità intellettuale (per formazione, consapevolezza teorica, orizzonte comune) dei critici sugli scrittori.”
Dove si sia manifestata (neppure fosse la madonna nera di Copacabana) tale superiorità non ci viene mai detto. Dobbiamo accettarlo, come un sacro mistero gaudioso. Ma più che “dove”, è “come” si sia manifestata, e con quali roboanti ricadute sul mondo, è, per me, ancora più misterioso.
In fondo: Who watch the watchmen? – chiedeva quel tale. E’ una bella aporia, non c’è che dire.
E’ un po’ come se io dicessi (ben lungi dal farlo davvero, è un patetico esempio d’acchito), con tale sicumera che non ammette repliche, che la mia superiorità intellettuale è manifesta, ben al di sopra di quella dei critici paludati, così dentro alle logiche novecentesche che non riescono a uscire dai fanghi dello scorso millennio. E’ così e basta, fuori da ogni discussione. E’ lo stesso orizzonte teorico, è la stessa consapevolezza comune fra noi scrittori a farmelo dire.
Lo troverebbe, forse, un po’ pretenzioso, o lo accetterebbe come un dato di fatto che non ha bisogno di prove sul campo? E chi lo può poi, per davvero, dimostrare? (giusto per farmene un’idea, così mi adeguo immantinente).
però basta con quest’ironia che non vi fa del bene: dottoressa policastro ditelo a vostra madre:-)
riprendete a dialogare con meno spocchia, dall’una e dall’altra parte. please.
Ma Franz carissimo, non sono mai stato così serio come in quest’ultimo mio commento! Mi pare che stia cercando di non contravvenire al desiderio di “rispettare modalità e regole del critico”. Che poi io non le conosca appieno è un mio evidente limite, ma che cerchi di chiedere lumi, e lo faccio sinceramente, è manifesto e argomentato.
Questo post non dice assolutamente nulla.
Sono solo lieto che si citi Tozzi e Svevo.
Grottesca l’immagine di un certo Frasca che scrive romanzi su sottoscrizione, mandati in lettura ad interlocutori selezionati.
Lo scrittore scrive per se stesso e degli altri se ne fotte.
Ma qui state a pettinare le Barbies.
:- ))))))
Provo a fare uno schemino (benché stigmatizzabile), che non vuole essere risolutivo ma vale come richiesta di chiarimento.
Al centro dell’intervento c’è l’opposizione tra lo Scrittore e la Politica (che mi sembra interessantissima – e condivisibile). Segue l’altra opposizione (meno esplicitata, ma altrettanto leggibile) tra i vari De Cataldo, De Silva, Evangelisti, Wu Ming, Genna e Scurati, tutti scrittori, cioè “icona pop-chic dei vecchi e nuovi media”, da un lato, e Nove e Frasca, i due soli politici, i cui libri nascono “dal dibattito delle idee”, dall’altro lato.
La linea di demarcazione è definita dall’opposizione tra “sfiancamento” e “scorrevolezza”: cioè, propongo, per dirla con categorie più vetuste e mondane, tra difficile e facile. Lo scrittore punta al facile, alla scorrevolezza, alla “mediocrità della mera espressione verbale”, alla “langue corrotta dalla medietà di massa e dall’approssimazione”, mentre il politico costruisce il difficile, “con quelle parole scelte, che prima si vergavano a inchiostro, oggi si digitano sul pc”. Questione di stile, ancòra e sempre. Perché il libro vive, può vivere, solo “in questo mondo (prima che nella rete o nel virtuale)”.
Proprio qui, per me, nasce il problema. Se i politici, cioè i buoni e veri scrittori, si rivolgono, come Frasca a detta di gp, “ad interlocutori selezionati accuratamente in ambiti diversi (non solo critici e scrittori, dunque, ma storici, filosofi, sociologi)”, dov’è “il muratore rumeno parla un italiano più corretto delle escort coinvolte negli scandali politici”?
Cosa vuole gp, dar voce al muratore rumeno o stare a discutere con gli intellettuali? Questa dicotomia la società di massa l’ha accentuata anziché ridurla. La società di massa, come noi la comosciamo finora, ha dato uno spazio enorme a chi si afferma coi linguaggi della facilità, ma ha conservato lo spazio, e il privilegio, di chi è difficile. I secondi sono emarginati dall’ignoranza altrui o si autoemerginano nel compiacimento di una diversità che socialmente, economicamente e politicamente non è affatto marginalità? Su questo credo che si debba riflettere.
Quali sono le “forme”, poi, di questa differenza? Facile e difficile sono stati spesso declinati nella forma dell’antitesi tra comunicativo e criptico, con valori rovesciati di segno rispetto alla formula di partenza.
Ciò di cui, a mio avviso, bisognerebbe discutere oggi è proprio l’esigenza di uno sguardo doppio, che riesca a dire sia il fatto sia il rovescio, quella sintesi di fenomeno e noumeno di cui parlava Gadda, la possibilità che le cose stiano diversamente, il forse non è così, il direi e il quasi. Non gli scrittori che siano depositari della verità, qualunque essa sia, dalle proprie compiaciute erezioni fino alla sublime verità della voce del singolo contro il mondo, ma gli scrittori che sappiano guardare all’alternativa, a ciò che sta dietro, al vorrei ma non posso, all’è così ma potrebbe anch’essere altrimenti, è ciò che secondo manca sia dal punto di vista di Giglioli sia dal punto di vista di Policastro.
lascio per un attimo la ben più seria attività di progettazione delle trasferte a seguito del genoa cfc in europe league, perché l’argomento qui mi sembra di grande momento.
mi riservo di tornare altrove sul blob auto(non)finzionale incrociato con strutture di genere che sembra la deprimente dominante dello scenario della narrativa it attuale, in realtà spesso espressione di un ritorno al naturalismo ingenuo sdoganato da malintese licenze postmoderniste (ma io di postmodernismo tout court, eco a parte, nella narrativa italiana ne ho visto poco: di riflusso antimodernista, avallato appunto dall’alibi di una banalizzata poetica pseusopostmodernista, parecchio), che è alla fine delle fini funzionale alle richieste di intrattenimento-impegno morale-politico (da anime belle) della borghesia (soprattutto quella progressista) e di chi modella il proprio immaginario in coda a essa.
mi limito però a osservare come la condanna che giglioli getta sulla radicalità senza radici (formula che, volta al pro-positivo, io non potrei che guardare con simpatia) appaia, a me, un taglio in sordina del rizoma deleuziano. e come, alla fine delle fini, un avallo di fatto delle strutture prodotte dal mercato, che non fanno ovviamente che riflettere l’ideologia dominante. questo rassegnarsi appare insomma un’operazione che, mentre sembra criticare l’autonomizzazione dei prodotti intellettuali dal loro terreno sociale di produzione, occulta l’inversione del reale con cui l’ideologia mette la maschera alla realtà. (questa difesa del minore ma vivo, sarebbe quindi un po’ come la difesa a oltranza della democrazia elettorale plebiscitaria che ci sta portando a questo cupo disastro senza esplosioni).
siccome però rispetto al da me appena criptocitato marx ho meno fiducia sull’essenza (come prodotto di rapporti sociali) di questa realtà, e rischio di avere un po’ meno fiducia ontologica nell’individuabilità dei fatti di quanta vorrebbe luperini e forse anche l’autrice di questo articolo, e insomma di anelare turpemente e decostruzionisticamente all’intepretazione infinita, non pesso che guardare con favore alla categoria dell’inciampo proposta da gp. Che anzi incrocerei volentieri con l’illeggibilità, beninteso in senso derridiano (preciso a scanso di equivoci: dal saggio di La scrittura e la differenza su Jabès e l’interrogazione del libro: “L’illeggibilità radicale […] non è l’irrazionalità, il non-senso disperante, tutto quello che può suscitare l’angoscia di fronte all’incomprensibile e all’illogico. […] [L’illeggibilità originaria] è la possibilità stessa del libro, e, in esso, di una contrapposizione ulteriore ed eventuale, del ‘razionalismo’ e dell’ ‘irrazionalismo’. L’essere che si annuncia nell’illeggibile sta al di là di queste categorie, al di là, pur scrivendosi, del proprio nome”. difendiamo, anche se non condividiamo la derridiana – un po’ enfatica – extra-posizione estrema di quell’essere fuori da ogni categoria, quel che è illeggibile.
Perché nell’illeggibile, che è condizione di esistenza del leggibile, c’è anche l’informe carico di intepretabilità futura. c’è una possibilutà. come l’ombelico del sogno di freudiana memoria, non è che si fatichi a comprenderlo: è fuori dalla comprensione, ma non dal reale (qualcuno l’ha già detto, ma vorrei un bel ritorno al reale, altro che ritorno alla realtà).
L’espressione di questo oggetto (la cui articolazione tematica e stilistica può essere pressoché infinita) continua a sembrarmi il compito più degno della scrittura. è un compito che la scrittura modernista ha assunto in pieno, e rispetto alla quale si è poi verificata un’ondata di riflusso.
Ma un leggibile senza illegibilità a me non interessa.
Non fare i nomi vuol dire anche rinunciare alla (descrizione della) battaglia, inchinandoci in fin dei conto alle regole di quell’ideologia dominante (operazione di moderazione d’altronde fin troppo praticata politicamente). fare la fine del PD, tra l’altro e del cimitero alla sua sinistra.
Faccio invece i nomi, che non a caso sono nomi fuori dallo strega, dalle polemiche di qualunque strega o altro amaro dolciastro: vitaliano trevisan, tommaso ottonieri, franco arminio, aldo nove coltivano la possibilità cui alludevo (rappresentano il reale nella sua irriducibilità). non potrei farne molti altri. il loro sguardo complesso è ben più carico di avvenire degli stanchi narcisismi di basso profilo e funzionali al mercato, alla scurati o peggio.
(perché questo non sia affatto elitarismo, né quindi la presente parentesi un atto di Verneinung, andrebbe spiegato, ma no non ora non qui)
direi quindi infine: c’è POCO di vivo, e non ha PER NIENTE vita facile. ma facciamone il nome, per carità (non solo resistenziale).
…e se rileggessimo “creativamente” il concetto di “nazionalpopolare” così come l’ha a più riprese formulato Gramsci nei suoi Qaderni, e lo “incrociassimo” con una lettura “alta” e “bassa” del postmoderno? cioè di questo “mare magnum” in cui si vive, fatto di un’illusorio fluttuare tra le merci, apparentemente deprivati di passato e di futuro?… e se legassimo l’annosissima polemica tra “critici” e “scrittori” alla “molteplicità” dei linguaggi per esprimersi creativamente?….Fellini, ad esempio, possa o meno piacere, era maestro nell’arte dell’ “incrociare” i modi “alti” e “bassi” dell’espressione : fumetto, caricatura, grottesco, onirismo, repotage, psicoanalisi, memoria…tutti elementi che “maneggiava” in maniera straordfnariamente efficace e, col tempo, viene finalmente apprezzato da varie “categorie” di fruitori, alti e bassi – e non solo in termini di statura fisica!….
che sia questo un esempio di “lettura incrociata” del “nazionalpopolare” di gramsciana memoria?
In letteratura, a esempio, azzardo un nome che sa sublimemente “incrociare” i linguaggi secondo lo schema testé esemplificato: Giuseppe Montesano, straordinariamente abile nel passare da un registro all’altro (vedere A Capofitto -grandissima summa di grottesco, picaresco, fumettistica, stercoraria e quant’altro-, Nel Copo di Napoli, Di Questa Vita Menzognera, passando per le letture basse di Magic People e della riscrittura creativa” in chiave comico-satirica del linguaggio dei “blogger di massa” in “Mister Blog”, la fortunatissima rubrica del sabato sul MATTINO; per non tacere del RIBELLE IN GUANTI ROSA, straordinario esempio di romanzo-critica o critica-romanzesca, dove si rilegge in maniera nuova e attualizzata – ma col massimo rigore e senza “paludate pallosità”- la figura di Baudelaire, forse il primo a “vedere” gli effetti paradossali del “postmoderno” (nell’accezaione omnicomprensiva del termine) senza esserne “criticamente” consapevole: già, potenza della creatività!
Io, nel mio piccolo, i nomi li ho fatti e ,in definitiva, – Franz ha ragione- si scenda un po’ tutti dalla…spocchia o dalla cattedra, e ci si provi, con positivo rigore, umilmente, ad articolare “il discorso” (ah, benedetti/maledetti anni settanta!). Insomma, io “incrocerei” un po’ di Stefano Jossa con Biondillo e, in fondo in fondo, anche un bel po’ di Gilda Pontecorvo…a patto che -beh sì, ella scenda dall’immaginaria cattedra… E che non se la prenda, per carità! Per questo, già vi sono i “professionisti” del “genere”, che abboindano anche su NI… Absit iniuria verbis. Amen.
…perdonino i refusi, sparsi un po’ qua e là. Il secondo romanzo di Montesano, naturalmente è NEL CORPO DI NAPOLI. Ah, velocità del mezzo elettronico!…..Eh, ma poi diciamola tutta, e detto con Paolo Zublena, cui preme il Genoa: gli è che a me preme la “supercoppa” tra Shaktar e Barcellona, di cui mi sono già perso una una buona mezzora. Vabbè!
Ahò, non siate snob! Il linguaggio – i codici narrativi, per usare una locuzione altisonante – di protagonisti (scrittori) e di giornalisti (critici) del calcio è qualcosa…qualcosa..di sublime! (Avete presente come lo diceva Dennis Hopper introducendo il colonnello Kurtz a Martin Sheen/Capitano Willard in Apocalypse Now?… Si…sì….è un qualcosa di indescrivibile…bisogna…essere lì..davanti a lui (il mondo a parte del pallone mediatico) per capirlo…per esserne ..come dire..illuminati!
Ed io vado…anzi scappo!
o policastro, ma a parte i nove-frasca e sanguineti (che non so quanto si delizierebbero i 3 a vedersi sì amorevolmente associati :-)))), le chiedo in tutta onestà: ha letto qualche cosa? (ah sì, dimenticavo ottonieri, ha un repertorio così vasto lei…
@Biondillo
Quod erat demonstrandum. Il dibattito tra critici, pur nel dissenso, si fonda sempre e comunque su tesi, argomentazioni, esempi, riferimenti a un contesto culturale (evviva Zublena, che non legge solo Ottonieri e Nove come la sottoscritta: ah, ”innomine”, che grande verità ci sveli: che un critico ha le sue predilezioni, una sua linea, un’idea di letteratura che alcuni scrittori incarnano meglio di altri. Evviva anche innomine, che ci illumina).
E forse l’articolo di Luperini era davvero, come dice lei, Biondillo, pieno di sottintesi per addetti ai lavori, ma quanti si sono mostrati sempre critici nei confronti dell’operazione Saviano (non di Saviano in sè, nè dei temi del suo libro, ma del prodotto Gomorra, e della sua onda lunga), me compresa, nelle allusioni criptiche (che sono in realtà riferimenti quasi letterali ad articoli usciti su La Stampa e Allegoria, mica sull’organo di stampa della massoneria, comunque) si sono ritrovati eccome. Detto questo, convengo con lei che ci si debba intendere e confrontare più estesamente (cioè non solo tenendo conto della stampa accademica o degli inserti culturali) su alcune questioni, ma non per forza umiliandosi nei toni e nelle argomentazione della solita canea, perchè non giova a nessuno. Sull’autopromozione, ad esempio, non siamo così ingenui da pensare che fosse diretta agli interni, no? è ben chiaro che il post di un esterno convogli un’utenza diversa, che magari la bibliografia di Biondillo non la recita a memoria come le preghiere del rosario. Detto questo, leggerò appena posso, con calma.
E, a proposito di difficile vs facile, anche il commento di Zublena (l’unico che abbia finora centrato i temi) adesso devo rileggerlo con calma, e per elaborare una risposta sensata ho bisogno di tempo.
Grazie anche a Bertante, che ha colto prima di tutti il senso del mio ”politico”.
sono arrivato a un pensiero, e per me non è poco: di questa discussione non resterà che il nulla. i critici – questi critici – scrivono per degli iniziati che sono loro stessi, a ben guardare. gilda policastro ha scritto un pezzo a mio avviso interessante, anche se effettivamente ridurre il “lotto” a nove-ottonieri-frasca mi sembra un’operazione di sintesi se non altro estrema. del discorso di zublena, che ho avuto il piacere di conoscere, io personalmente non ho capito che poco. qui manca la capacità di sintesi, e manca la capacità di andare oltre, ovvero di stanare i libri più che gli autori. c’è, mi sembra, un compito che certa critica riduzionista (del numero degli aventi diritto all’essere “scrittori incisivi”) si è dato: quello di fare implicitamente del consumismo sfrenato e sferzante, di ammollarci senza troppi complimenti le loro belle “griffe”. ma sul serio siamo ridotti a questo punto? Innomine chiede a Gilda se ha letto qualcun altro: è una provocazione anche un po’ bassa, diciamo, ma il sospetto potrebbe venire. sappiamo che non è così.
ma naturalmente: è la “griffe” che incide, è così per la moda (per cui le donne vanno vestite peggio delle puttane perchè il “gusto” è dettato da dei Dillinger della haute couture come Versace e Dolce & Gabbana e pure quel fuffaiolo di Armani) è così per i libri – evito di parlare di Letteratura, a questo punto. che avanza non il nuovo, ma la nausea.
postilla:
mi viene l’orticaria quando leggo: la questione da dibattere è piuttosto…qui si dibatte la questione che ha posto Giglioli (un’idea nuova di letteratura che non è letteratura, ma precipitato di un mondo in fermento, senza i nomi), che alcuni hanno capito, altri meno. Chiamerei se fosse possibile l’autore dell’ Ur-articolo a rettificare quanto non dovesse tornargli, perchè io per prima nei riassuntini e negli schemetti mi riconosco poco, e, come Zublena, tifo pienamente per l’illeggibilità, quando è satura e foriera di idee, e se gli schemetti e i riassuntini banalizzano depistando, li eviterei come la peste. o come l’orticaria.
(e non mi riferisco all’Ur-sintesi del pezzo di Giglioli, ovviamente)
l’illegibilità foriera di idee mi mancava, cara gilda.
… perché era lacan che diceva che quando diciamo siamo detti e non mai parliamo ma siamo parlati e allora siamo scritti e mi viene da dire come se fossi una grande vescica gonfia che bene carmelo sarà uno scrittore minoritario e lo scrivo così mi libero dall’idea di scrivere per far capire che ho la necessità di farlo e non tanto per capire ma prendere così com’è il caos e l’incomunicabile perché scusa non è mica giusto che un pittore debba poter deformare l’immaginario e poter essere visto e uno scrittore non possa non-scrivere per non essere disgustosamente tacciato di essere invendi-leggibile
… e il mio analista (lacaniano e pasoliniano) conferma la mia confusione modulando immaginario e simbolico e
… ominoso silenzio fa da colonna sonora all’agnizione del mio Altro che scrive quando credo di scrivere io ed esco dalla seduta come una sedia calda su cui però non sia stato seduto io ma un’altra sedia e su questa sedia un’altra sedia
… e poi ho finito scrivendo che ‘sfiancamento’ mi ricorda tanto deleuze e quando ho letto ‘la coscienza di zeno’ ho pensato a ‘il male oscuro’ che non nascondo amerei poter riscrivere in chiave psicotica più che nevrotica e non metterci l’ultima sigaretta ma l’ultimo milligrammo di metadone e ovviamente
… e perché hai lasciato un commento del genere? mi ha domandato l’analista e io ho risposto
… non so perché ma il post lo sentivo vicino alla mia idea di nonscrittura
…
…
… sei sicuro di aver capito bene il post?
… sì, ma non sapevo verbalizzare altrimenti che in quel modo.
@FK
Quello che nomino è quello che scelgo. Non tutto quello che leggo (=io critico) diventa discorso dotato di significato. Di narratori italiani contemporanei ”generazionali” (il tema, all’ingrosso, dei due pezzi) non citati ho variamente segnalato e pubblicamente discusso (a Biondillo, appassionato di note bibliografiche, manderò la rassegna a parte), nell’ultimo paio d’anni, citando cursoriamente: Ernesto Aloja, Errico Buonanno, Carlo D’Amicis, Peppe Fiore, Gaia Manzini, Nicola Lagioia, Giuseppe Leogrande, Valeria Parrella, Tommaso Pincio, Tiziano Scarpa, Vitaliano Trevisan.
e lei, signor innomine? a parte le faccine tipiche e il nick, caviamo fuori un discorso?
Non ho ben capito cosa intenda la Policastro per “letteratura sociale”: Saviano? Scurati? Nove? Non ho nemmeno ben capito se il suo lamento si riferisca alla forma o al contenuto degli attuali romanzi italiani. Io credo che il problema sia essenzialmente culturale, e dunque non traccerei una netta divisione fra critici e scrittori; oggi tutto ciò che è cultura ufficiale, in Italia, è spaventosamente degradato, dalla politica all’università. Perchè non dovrebbero esserlo anche la critica e la letteratura? Come può, in uno Stato agonizzante come il nostro, crescere e prosperare una critica di alto livello, la quale ci indichi le (rare) opere che pure continuano a sbucare qua e là, di tanto in tanto? Manca una griglia interpretativa, manca una mediazione per il lettore, manca un riferimento materiale per lo scrittore e mancano le categorie per il critico. E’ colpa di tutti e di nessuno, dunque. Una corrente di pensiero che gode di un certo credito afferma che le grandi opere nascono in ere di inizio o di fine: andiamo verso la fine – proprio antropologicamente parlando, poiché siamo culturalmente insostenibili oramai – e ciò potrebbe favorire (magari sta già favorendo) nuova linfa. Non mi sento di dare torto a Policastro, ma nemmeno a Giglioli; a mio avviso identificano due parti di un problema molto più ampio. Anche le polemiche – spesso intelligenti ma labirintiche e in fin dei conti spesso paralizzate – che si sviluppano sui blog a mio avviso non fanno che confermare il momento nebbioso, fangoso che stiamo attraversando; forse nessuno di noi è in grado, adesso, di mettere un punto e a capo; forse nemmeno se ci fosse un Pasolini (che non a caso non c’è) ci riuscirebbe.
ps: D’Angelo, non ti sei mica perso l’assist di Messi, vero? Fiction sulla prima finta, non-fiction sul vero e proprio passaggio, e via.
il problema è che quando smetterete di parlare di “autori generazionali” dio o chi ne fa le veci ve ne renderà merito. non trovi gilda? ma che c’importa? vogliamo un discorso più ampio, e soprattutto comprensibile. dovete lavorare di più, secondo me, e con maggiore umiltà. ma forse è chiedere troppo.
Tornare dalle vacanze e leggere tutto il thread a mezzanotte fa uno strano effetto, come dire, molte parole e molte critiche ma non si capisce bene a chi e a cosa. Alla signora Policastro chiederei: perchè letteratura sociale e non addirittura sociologica? Veramente Woobinda di Aldo Nove è molto diverso dall’ultimo Scurati, se non per il tasso di virulenza che contiene? Io credo che questa direzione sia artisticamente pericolosa perchè infeconda, e credo che queste categorie mostrino la decrepitezza di una critica italiana che non riesce a liberarsi dal proprio vetero-marxismo.
Ho passato gli ultimi tre giorni a leggere l’ultimo romanzo di Scurati. Avevo visto “Il sopravvissuto” come qualcosa di promettente, “Una storia romantica” (che ho recensito qui su NI) lodevole almeno nelle intenzioni ma riuscito a metà (la seconda parte sull’amore romantico è stucchevole e accademica). Quest’ultimo è un libro veramente inutile e falso. Sociologia di retroguardia (il sistema mediatico crea mostri e noi tutti partecipiamo al rito perchè non abbiamo più un orizzonte morale e d’esperienza che ce ne preservi), che si vorrebbe animata dall’autofiction (l’autore-protagonista ritrova nella fragilità dell’adulto di oggi i fantasmi della propria infanzia) e invece siamo agli antipodi dell’unica sincerità ammessa in letteratura, quella della poesia.
Ogni pagina del libro trasuda retorica, sembra scritta sotto ricatto che almeno tre righe siano buone per una citazione post-modernista sull’inautentico in cui siamo precipitati, inferno in cui però Scurati chiagne e fotte, perchè per liberarsene basterebbe rinunciare a farsene il censore e provare ad immaginare personaggi e vicende che non siano dettati da un’antropologia preconcetta ma da una volontà di esplorazione dell’umano pura e semplice. Il compito primario di un romanzo dovrebbe essere quello di immergere il lettore in orizzonti inediti d’esperienza, e non basta dichiarare l’impossibilità della medesima (glossando un Benjamin che i fans di Scurati fingono di non conoscere) per esimersi dal compito, limitandosi a costruire un’allegoria (nel senso non benjaminiano ma deteriore del termine, di illustrazione a chiave) di una visione sociologica largamente condivisa (molto politicamente corretta: interessa un assessorato alla cultura?)
Per rimettermi lo stomaco ho riletto un romanzo di qualche anno fa: “L’età dell’oro” di Edoardo Nesi. Vivaddio, ecco come si racconta la storia attraverso la vicenda di un’anima, senza confondere le proprie velleità pedagogiche con la capacità di lasciar vivere ciò che è vivo e senza cercare alibi ideologici alla propria mancanza d’ispirazione.
Gent.ma Gilda,
“Quod erat demonstrandum. Il dibattito tra critici, pur nel dissenso, si fonda sempre e comunque su tesi, argomentazioni, esempi, riferimenti a un contesto culturale.”
Mi perdoni ma non dimostra nulla se non la sua prevenzione. Che crede? E’ appunto per questo che io le annotavo i link; proprio per metterla al corrente del contesto in cui mi muovo io, era una gentilezza la mia, mica un mostrare i galloni. (io sono un umile artigiano, non agogno a nessuna cattedra accademica).
Con nomi e cognomi. Non sono necessariamente i suoi? Che vuole che le dica ho una mia linea, “un’idea di letteratura che alcuni scrittori incarnano meglio di altri.” Io (per citarla) scelgo, faccio critica. (piccina picciò. Ma la fò).
Ché vede, a suo tempo io le proposi l’opinione di uno dei più grandi scrittori viventi, John Banville, durante la lunga discussione qui su NI di qualche mese fa, e chiesi a lei e agli altri critici coinvolti (lei, Cortellessa, Donnarumma, Inglese) un feed back sull’opinione di uno scrittore – cosa tra l’altro chiesta a viva voce da alcuni critici presenti (forse, anzi, proprio da lei).
https://www.nazioneindiana.com/2008/11/05/parlando-di-scrittura-con-john-banville/
La mettevo lì in bella mostra, ma non ha ottenuto uno straccio di attenzione, forse perché poco interessante? Perché Banville non fa parte delle sue letture? Perché non è Nove o Scurati? Qui pare che Arminio (Franco non te la prendere) sia di gran lunga più interessante di Banville. Tutto ciò puzza di circolino del tresette domenicale, gent.ma Policastro.
Ora dover parlare male di Nove, scrittore che ammiro, mi disgusta. Ma io credo che sia una enormità dire che Woobinda sia “L’ultimo choc letterario” patrio. (ma choc per chi, poi?) S’accorge che questa è una boutade indimostrabile? E’ affermazione buona per una adolescente innamorata della sua rock star, non certo per un critico della sua qualità. Come se poi, quello che è stato scritto dopo fosse acqua fresca. “Lezioni di tenebra”, “Le cose come stanno”, “Tritolo”, “Fùtbol Bailado”, “Il tempo materiale”, etc. etc… la letteratura postWoobinda non ci manca di certo.
Mi pare che però Nove assolva (involontariamente) a quel passaggio di consegne ideale fra l’avanguardia sessantatreina e la fin de siecle. Passaggio benedetto a suo tempo dal grande vecchio Sanguineti e subito codificato da una critica innamorata e intrappolata nella struttura mentale del Novecento tutto. (ché noi non si sia in un nuovo millennio non interessa punto).
Cosa sia poi “sfiancamento” vs. “scorrevolezza” io l’ho capito davvero poco. Mi pare davvero una questione di lana caprina, un discrimine fittizio. Sarà che trovo scorrevolissimi Ariosto e Dante, sarà che Shakespeare è compresibile pure alle mie bambine, sarà che D’Arrigo è uno dei miei scrittori preferiti. O forse sarà che da quando ho lasciato Derrida a impolverarsi nello scaffale degli “irrimediabilmente obsoleti”, insieme a Heidegger & C. vivo con maggiore leggerezza gli anni che mi restano da trascorrere.
Infine mi tocca purtroppo farle notare che il disapprovabile tono della discussione è proprio lei che lo ha prodotto, col suo articolo che ad una analisi testuale fa disperare per la stucchevole retorica critichese d’assalto, tutta puntuta, con la penna rossa in mano. Io sono il primo ad abbassare la voce, e le chiedo scusa preventivamente (ma insomma, cercavo solo di imitare il suo codice comportamentale, per farla sentire a casa) ma lei accetti il consiglio dell’ultimo degli stronzi: non c’è nulla di peggio di un vecchio trombone che un giovane trombone. Riponga l’ottone nella custodia e s’accorgerà quanto tutto potrà essere più semplice. E leggibile, ché a me la leggibilità mica fa così schifo, ogni tanto.
Grazie signor Biondillo della sua costante attenzione nei miei riguardi, che per essere uno allergico alle trombonate, ne ha mostrata fin troppa, essendo arrivato fin qua (e molto oltre, io direi). gli è che sto ancora riflettendo sulle questioni critiche poste da altri, se lei non se ne adonta. è un problema di stile e di linguaggio: qualcuno non capisce Paolo Zublena (autore di studi pregevoli che certo non perseguono la via della semplificazione, ma dell’ermeneutica più attrezzata sì), io proprio non capisco lei. ma mi sforzo, eh? solo che poi leggo ogni tre righe ”io ho scritto, io ho detto, io ho fatto” e non mi riesce proprio di andare avanti: almeno noi tromboni vecchi e nuovi parliamo con la consapevolezza di un dibattito svoltosi all’interno di una comunità un po’ più ampia del proprio studiolo, quella comunità di cui vado sempre invocando l’allargamento, ma forse a torto, a questo punto. Mi rendo conto che non a tutti piace leggere, riflettere, condividere. Di più esibirsi (io c’ero, io l’ho letto prima e meglio di te, io ho letto cose più giuste delle tue, io l’ho detto con parole più comprensibili delle tue), o accapigliarsi.
Questa mia, come disse il mio maestro trombone ai tempi in cui studiavo da allieva trombona e ancora recalcitravo di fronte al metodo critico, propendendo per la brillantezza e l’erudizione, però, è tutta un’altra scuola. E la deroga alla limitazione nell’autobiografismo è solo di carattere esemplare, come nel Convivio di Dante, che i figli di quell’altro sapiente mascherato col nick che non rammento, recitano a memoria, mentre i miei, poveretti, solo trombone e trombonate da mane a sera (o sancta simplicitas).
Ma mi perdoni, non era lei che chiedeva ad alta voce la presa di responsabilità delle proprie scelte? I nomi e i cognomi? Io miserello quello feci. Proprio perché la leggo (eccerto che la leggo, l’ho fatto e lo farò ancora) mi rendevo disponibile col materiale a disposizione, tutto qui. Questo suo crederlo una esposizione muscolare mi avvilisce. Era semplicemente un’attenzione nei suoi confronti. Ma morta lì, non pretendo nulla da lei che possa infastidirla. Spero solo che, laddove io commentassi ancora, non debba fare dei lunghi taglia e incolla per metterla al corrente di “ciò che sta prima”. Sarebbe infruttuoso, non trova?
Comunque sapermi “illeggibile” da lei mi pone, per caso nella categoria dello “sfiancamento”? Sarebbe un onore, in fondo.
Ma prego, non le voglio rubare spazio e tempo alla risposta al pregevolissimo Zublena. Semmai troverà tempo per le mie piccole cosucce (”io ho scritto, io ho detto, io ho fatto”) io aspetto qui. Basta un fischio.
Di ritorno dai bagni, noto con rammarico che Gilda Policastro non ha “colto” il suggerimento che le facevo di leggere ” Non siamo gli ultimi; Autore: Rizzante Massimo; Editore: Effigie. Le assicuro che l’aiuterebbe molto come critico, visto che mi sembra d’aver capito che lei voglia fare il critico, da grande.
effeffe
Grande libro, en passant, quello di Rizzante. Nel pensiero e nella scrittura.
@Zublena
Leggo e rileggo il tuo commento e mi chiedo: alla lacaniana inafferrabilità del Reale (riattualizzata poi da Hal Foster), come pensi di far superare l’urto del reale minuscolo, quello della terza settimana del mese (citando dall’intervista di Zinato a Luperini, sull’ultimo numero dell’immaginazione) cui non si arriva? I nomi che fai mi tornano particolarmente: ma tra di loro almeno uno ha trovato una soluzione che salvaguardando lo straniamento recupera la capacità di riprodurre il rumore del presente. E non nei termini del reportage (pure percorsi dall’inchiesta sul precariato di ”Roberta”, ma secondo me in tono minore) o dell’osservazione entomologica dei suoi simili, come qualcuno gli rimprovera, ma proprio nei termini che invocavi tu, di uno sguardo che direi creaturale, e che mi fa pensare alla letteratura migliore di tutti i tempi, che non a caso poi resiste al tempo, pur essendo nel suo tempo. é questo il problema, come scriveva Segre un decennio fa: i caratteri di pancronia e longevità sono condizioni essenziali alla sopravvivenza di un’opera oltre l’ambito forzatamente circoscritto in cui si produce. La discussione sul canone l’ho avviata proprio sul manifesto, e comunque ha prodotto l’orticaria, come qui parlare di scrittura generazionale. E dove vogliamo farlo, se non in uno spazio di discussione che può richiamare come pochi, per la sua trasversalità, critici, scrittori, editori, lettori? Ma che occasione perduta, se l’ossessione dello scrittore è anche qui piacere al babbo critico. O almeno, essere citato. Come se il critico avesse davvero una vita doppia o tripla rispetto a quella degli altri, in cui leggere TUTTO. Io leggo un libro di narrativa al giorno, o a settimana, o al mese, a seconda dell’entità del libro, della riflessione che merita, degli impegni collaterali. Leggo, mea culpa, molta più saggistica, o poesia. Ma la discussione serve a questo: ”io non dubito, caro Pasolini…” e poi via di argomenti e di altri nomi, magari.
@biondillo, effeffe
e basta tenervi bordone, voi due, mamma mia che tristezza. ma lo fate sempre, in tutte le discussioni tutte? e la noia della serialità?
Biondillo, mi ha mandato i link di una dozzina di articoli, mi vuole dare il tempo di leggerli e rifletterci su, oppure vuole solo far chiasso? così per il bi-segnalato Rizzante, cui al momento sul mio comodino è stato anteposto ”In difesa della cause perse”, che non sarà italiano e non parlerà di narrativa contemporanea, ma quanto è vero quando dice: ”il rimedio contro una democrazia ossificata è la critica teorica antidemocratica che fa a pezzi le sue certezze e la ringiovanisce”. Che ne dite di svecchiarvi un po’, voialtri? in metafora, è chiaro, che dei dati anagrafici, a me, poco mi cale.
Gilda,
un solo libro, la prego, ” Non siamo gli ultimi; Autore: Rizzante Massimo, non è voluminoso
effeffe
@effeffe
Zizek sì, e non lo mollo certo per i consigli di uno che da piccolo voleva fare lo scrittore. che canzonare, è un attimo per tutti.
(la virgola è enfatica)
Gilda
innanzitutto si calmi. Secondo, mi spiega perché da una parte invoca la possibilità di discutere dei temi che immagino le sia chiaro sono nevralgici per chiunque faccia letteratura e dall’altra si fa venire le crisi ogni volta che le si fa un’obiezione. Come rimanere indifferenti di fronte a certe sue asserzioni:
“di uno sguardo che direi creaturale, e che mi fa pensare alla letteratura migliore di tutti i tempi, che non a caso poi resiste al tempo, pur essendo nel suo tempo”
che le assicuro mantengono intatta tutta la loro comicità sia in contesto che fuori contesto (il riferimento è al commento poco sopra).
La questione allora è:
Il linguaggio nuovo che dovrebbe conseguire dalle cose è questo ( o che le cose dovrebbero generare)? E se la risposta è affermativa, perché chiedere agli scrittori di “creare” un nuovo linguaggio mentre la critica semplicemente “ragiona” e lo fa usando un linguaggio a dir poco “ordinario”?
O forse, non so, la partita si gioca altrove. Per esempio, con i lettori, ma voi avanguardisti i lettori li schifate no?
effeffe
Come sempre, quando leggo criticamente la Policastro, ripeto come sempre mi trovo assolutamente d’accordo. Questa vuole essere solo una postilla assai breve, ma a me pare che il fulcro della questione individuato da Gilda sia questo: oggi in Italia si è smesso di fare critica, a favore della captatio benevolentiae di turno, si è smesso di criticare tout court, se sbaglio, G.P, dimmi pure. Si è smesso di cercare di fare BENE il proprio lavoro e di assumere le proprie responsabilità. Nella deriva di questa Italietta, tutti si adagiano per quieto vivere, forse per tornaconto, forse per passatismo. Ha ricordato Pupi Avati, a proposito di Kezich, come il critico con acume evidenziasse la non buona riuscita di un film nonostante l’amicizia con il regista… Dovrebbe far riflettere… Vi siete accorti come le famose “stroncature”, in realtà analisi oneste spesso di libri che di onesto magari non hanno nulla, sono sparite da riviste specializzate e da quotidiani? E se rimangono, spesso, sono accanimenti contro persone e non verso il lavoro?
Pasolini, Fortini, Sanguineti, non avevano paura di sbagliare e nemmeno si domandavano se in loro potesse coesistere l’anima del critico e del poeta, LO ERANO. Oggi questi poeti sarebbero ritenuti dei folli (preferisco il termine di santi laici).
Ma cos’è la “borghesia” progressista di cui parla Zublena? il ceto medio impiegatizio, immagino, insegnanti compresi, e di genere prevalentemente femminile, l’unico che abbia tempo e voglia per leggere narrativa, perché se per borghesia si intende la borghesia imprenditoriale o professionale, dubito che legga narrativa, e tanto meno italiana, non ha tempo, fa altro. In realtà noi non sappiamo in mano a chi finiscono i libri (cosa che in passato era più chiara) e questa ignoranza ha il suo peso nel discorso. Su sessanta milioni di italiani mi piacerebbe sapere quanti (20.000? 50.000? 100.000? mi sembrano numeri enormi) e quali leggono questi prodotti ponte per l’ideologia dominante. E che l’ideologia dominante passi attraverso la fiction italiana di intrattenimento mi pare assai dubbio e se pure, in misura così ridotta da essere ininfluente.
Mi sono soffermato solo sulla questione dei critici, ma davvero quello che Policastro afferma mi pare assolutamente incontestabile. Come si può pensare di fare letteratura (lessema così odiato dalla Morante, che gli preferiva arte e poesia) senza poeti e narratori? Certo obmittere è già una presa di posizione, ma rispetto a cosa? Si può anche fare sociologia della letteratura, ma non come mero esercizio. Dunque perché non i nomi? Forse non sono tempi di grande letteratura, ma il primo passo per poter tornare serenamente al proprio lavoro sarebbe ammetterlo, per onestà intellettuale, almeno.
Alcor volevo chiederti cosa ne pensavi dei saggi letterari di Stevenson…ma semmai ne parleremo domani in spiaggia.
effeffe
senza entrare nel merito (che non riesco a capire dove e quale sia)fornisco solo una piccola testimonianza.
qui dove sono c’è un campione omogeneo di “borghesia progressista”: unica differenza è tra chi è credente (pochi) e chi no o non gli frega.
ciò che li accomuna è un moderatissimo e distratto mood residuale di sinistra, una specie di debole radiazione di fondo, ormai allo stato fossile e quasi omeopatico, di momenti precedenti in cui in questo paese si faceva politica da posizioni social-comuniste, anarchiche, rivoluzionarie, eccetera.
se posso generalizzare sono cascami, insomma, nei quali nuotiamo un po’ tutti: ma qui non percepisco traccia di disperazione per questo.
bene: questo campione di “borghesia progressista” italica di mezza età legge gialli (pardon: noir).
prevalentemente.
prevalentemente libri di origine anglo-sassone o hispanica o hispano americana.
sono in vacanza, si dirà.
sì, però…
Ciao Pec, finalmente una presenza umana: mi pareva di essere nell’invasione degli ultracorpi. La Policastro non mi risponde mai (non ho la patente di “Nuovi Argomenti”?), Biondillo m’ignora perchè ho fatto l’ultimo Scurati come esempio di cattiva letteratura (lui l’aveva recensito in termini encomiastici). Allora rispondimi tu. Non ti pare che invocare letteratura sociale o che serva a strutturare uno spazio politico sia pia intenzione pari a quella di certi cattolici che distribuiscono foglie di fico ai nudi d’epoca?
Questa Policastro, che magari ha trent’anni ed è un bel pezzo di figliola, non sembra la sorella nubile ed estratta dalla naftalina di Muscetta e Salinari?
Impressione di uno che passa per la strada: chi ha capito tutto è Franz, che infatti non interviene più.
Gentile Signorina Policastro, La ringrazio della cortese attenzione e dell’invito a “cavar fuori un discorso”, invito che, non se ne abbia a male, mi vedo cotretto a declinare perché sa, con gli anni, mi son scoperto terribilmente allergico alla linea di prodotti che sponsorizza (contorno occhi, crema antirughe o il magico decotto che ti “ringiovanisce”…) il Suo discorso sulle “griffe” come suggeriva Krauspenhaar, proprio non mi stimola. ma apprezzo i suoi sforzi. la saluto con uno sbadiglio. buona réclame dal pino silvestre al prodigioso viagra del fermo volere.
Si rivendica esageratamente “l’aver già scritto”, “l’aver detto”, e si prendono in scarsa considerazione i temi cardine inseriti nell’imput di questo dibattito. Rapporto critici – scrittori, orizzonti politici della letteratura, categorie e gruppi. I critici, prevalentemente tali svolgono in Italia un ruolo fondamentale. Attraverso la loro qualità culturale e letteraria indirizzano, orientano i lettori. Critici di questo tipo ce ne sono tanti, per fortuna. Ci sono anche quelli, però, che disquisiscono ossessivamente di scrittura letteraria tra loro, dimenticando lo scrittore. Quando si scrive o si parla di letteratura i confini, i limiti, i contesti, le maggioranze, le separazioni dovrebbero evaporare e condensarsi in qualcosa che meraviglia, stupisce, che rende lo sguardo qulitativamente più elevato. Ecco, definire le appartenenze e da quelle confrontarsi con un libro di letteratura è fuorviante. Molti, nel panorama culturale italiano, svolgono la loro critica secondo un’altalena mentale che va dal preconcetto (categoria, collocazione presunta, gruppo, consorteria ecc.) al testo in esame. Questa realtà purtroppo è assai diffusa e interessa gran parte del sistema editoriale.
Minchia, piatto ricco mi ci ficco (perdonate il latinismo), in attesa di ben più accoglienti cunicoli.
Più leggo i critici (era da tanto che non mi concedevo questo lusso) meno li capisco, proprio in termini di lingua adoperata.
Che nostalgia per la prosa “comprensibile” di critici come Edmund Wilson o per quella “brillante” di Cyril Connolly, per citarne due a caso (?).
Io, per esempio, “deittico” a casa ci ho solo le cozze in frigo comprate ieri, e bisogna che mi sbrighi a cucinarle se no ‘ste benedette vulve mi vanno pure a male.
Ma io sono fatto all’antica, altro che cozze.
Vuoi mettere la libidine di uno “sguardo creaturale” (a chi potrei rivolgermi per una traduzione in italiano? Aiutatemi, vi prego) o l’arrapamento indotto da “i caratteri di pancronia e longevità” (ai miei tempi si parlava semplicemente di universalità dell’opera). Per tacere de “l’urto del reale minuscolo” a definire, suppongo, il quotidiano.
Parla come mangi, verrebbe banalmente da dire.
Qui però siamo, a quanto pare, nella haute cuisine della cultura, quella che si rimesta nello splendido isolamento dei laboratori accademici.
Non si lamenti dunque la Policastro se, scesa per una volta dal romitaggio montano, gli abitanti della valle mostrano segno di non capirne il linguaggio raffinato.
Riguardo ai critici, io sto ancora con Hemingway (devo aggiornarmi, lo so): “Se credi a loro quando ti dicono che sei un genio, devi credergli anche quando ti dicono che sei finito.”
Forse io “non mi tratto” di un genio (eheh), ma di sicuro non mi ritengo “finito”.
Anche perché “non sono ancora cominciato”.
Con simpatia.
@riccardo ferrazzi.
non so se ho capito tutto, riccardo (dubito e sono immensamente modesto) ma qui ormai siamo al “chiacchiericcio scientifico”. per cui mi ascolto un paio di canzoni del “quartetto cetra”, per ricordare virgilio savona; che lui sì aveva capito tutto.
delle poetiche l’un contro l’altro armate
l’unA contro l’altrA armate, semmai.
A parte questo scrivere a rompicollo (commenti troppo lunghi e quasi tutti scorciabili di più della metà, anche per la prosa, sovente cancellaresca e piatta), che non mi spiego per niente – se non come un riflesso condizionato al critichese del brutto, bruttissimo intervento della signorina Policastro -, il pezzo in cima sarebbe potuto essere scritto in qualunque momento dal 1960 ad oggi, ma a nessun’altezza cronologica avrebbe avuto senso.
Da alcor (si vede che è qualcosa nell’aria) ho letto un pezzo irritantissimo di Cacciari, da quello che suppongo sia l’ultimo suo libro, sempre in termini spaventosamente generalizzanti – tipici del filosofo, e forse è doveroso, e non solo inevitabile, ma del tutto fuori luogo se si parla di letteratura. Non esiste IL romanzo, ma QUEL romanzo. Non esiste IL verso, se non in termini del tutto estrinseci, ma QUEL verso,
QUEL componimento, QUEL racconto.
Possibile che nessuno si sia chiesto, tra raffiche di cascami di Marx, Derrida, Sanguineti, Pasolini, Saviano, Nove, Policastro, Lacan, Avati, Fellini, se, magari, tutto sta nel fatto che della letteratura, della poesia, del racconto, non gliene importa proprio nulla?
Si continua a ripetere, da una parte, ‘io scrivo per me stesso’, dall’altra ci si lamenta della centralità perduta della letteratura. Ma la letteratura ha avuto una centralità in altre società, più libere, e a livello strapopolare – non so, se non ci si riferisce a Dickens o ai Misteri di Parigi, di che altra centralità si parla -, secoli fa, e in ogni modo non è mai stato il caso dell’Italia. Quando la letteratura avrebbe potuto avere una sua rilevanza (tutta extraletteraria, beninteso, e questo nessuno lo dice, e non è buon segno) l’Italia era troppo analfabeta per incoraggiarla ed assorbirla; e adesso, semplicemente, è troppo tardi. Lo scrittore è uno stronzo qualunque. Non capisco perché lamentarsene; in fondo, se avesse una funzione avrebbe anche un’importanza, e coll’importanza un riconoscimento.
Non avrete mica sbagliato mestiere/attività?
Anche la critica presuppone quantomeno gusto, inclinazione per la scrittura, la narrazione, e tutte queste cose puerili qui; dubito fortemente che ci sia vera inclinazione quando si continua a blaterare de IL romanzo, de LA poesia, de LA narrazione. E’ un’angolatura del tutto sbagliata, la letteratura è fatta di particolari ed è recepita innanzitutto in essi; un critico che pensi più alle linee portanti è già sospetto, può darsi che non sia un critico.
E poi saranno cent’anni che non esistono più visioni del mondo così complessive, e anche le ultime che si sono viste erano già roba da alienati, tipo Spengler e altri nazistoidi. Ma, per esempio, l’essere poeta di Brecht non può spiegarsi fino in fondo col suo marxismo. Non è la visione del mondo che fa lo scrittore, ma la scrittura, intesa in senso artistico. Il suo concetto di bello, se ne ha uno. Se non ne ha uno, lascj perdere, checcefre’?
Ma, dato che ormai un secolo buono è passato, non sarebbe ora di farla finita con discussioni di questo tipo? Condotte, peraltro, con una burbanza, un’apoditticità inversamente proporzionali alla credibilità del ‘messaggio’, che di per sé è veramente povera, poverissima e ritrita cosa.
Apprezzo molto il richiamo di Salvatore D’Angelo a Montesano, perché apprezzo molto Montesano ed è lo scrittore, tra i non morti, che sicuramente preferisco; ma a parte il fatto che sono quindicianni che non scrive più romanzi – excrucior referens -, Montesano rappresenta proprio il *contrario* dello scrittore che si augurano le Policastre postavanguardiste: Montesano può finire in mano a tutti proprio perché, nudamente, si limita a raccontare le SUE storie. Non c’è proprio nulla di astratto, in Montesano (e dire che insegna filosofia). Ed è per questo che non può essere indicato come LO scrittore che ci vorrebbe (a parte il fatto che alle Policastre non piaciarà mai). E’ QUELLO scrittore.
Non so, a me continua a sembrare che discussioni del genere vadano bene per chi non s’è mai trovato a suo agio con la letteratura, e/o la scrittura. Mi sbaglierò.
Accidenti, quanta vitalità!
Anche se, devo dire, alla fine la sensazione che ho è che l’autrice di questo pezzo non risponda mai, se non ai suoi colleghi critici. Quando a intervenire è uno scrittore o lo snobba, o reagisce in modo stizzito, senza argomentare mai.
Alcuni scrittori le hanno chiesto cose precise, mi pare.
Valter Binaghi s’è chiesto se non esista una modalità marxista della critica ormai inattuale. E ha opposto Scurati a Nesi.
Gianni Biondillo, forse, non si sarà comportato in modo signorile ma ha riempito il piatto di questioni forti. Affermare che la critica è superiore alla letteratura è apodittico e indimostrabile, qui, quindi non è uno slogan senza costrutto?
Oltre Nove c’è una letteratura di qualità, dice, cita dei testi (non parlo dei suoi link, neppure sono andato a leggerli), io ne conosco un paio, la Policastro ha un’opinione sui libri che Bindillo dà come esempi?
Franz Krauspenhaar lamenta la tendenza a parlare l’idioletto critichese, usato come arma contundente da calare su chi è fuori dal circolo essoterico. Una critica che non è capacace di comunicare e che parla solo a se stessa e su se stessa che ruolo vuole davvero avere oggi?
Francesco Forlani cita un testo di Rizzante come exempla di scrittura critica contemporanea. Non c’è cioè opposizione fra lo scrittore e il critico, ma reciproca attenzione. La Policastro conosce il testo?
Alcor (che non so chi sia, immagino uno che scrive) e Pecoraro fanno a pezzi la premessa ideologica della presenza di una ipotetica “borghesia progressista” che legge libri, così come da Zublena indicato.
A nessuno di questi la Policastro dice nulla. Rimbotta a caldo, sbuffa e s’offende, poi dipana risposte coerenti sono ai suoi colleghi, con i quali, tra l’altro, probabilmente potrebbe parlare direttamente al telefono. Appare, insomma, vagamente snob. O forse inadeguata a restituire risposte al di fuori del linguaggio che conosce. L’unico che conosce.
Se dovessi diventare scrittore farei anche il critico. Non ha senso scindere in due parti una cosa che si chiama SCRIVERE.
La questione del RUMORE è davvero bella.
Quasi di tondelliana reminiscenza.
La realtà è forse un immenso baccanale dove bisogna ritrovare l’armonia nelle rumorose strade di ogni giorno, ritrovare un senso a tutto questo.
Anfiosso (quote):
“Non esiste IL romanzo, ma QUEL romanzo. Non esiste IL verso, se non in termini del tutto estrinseci, ma QUEL verso.”
Parole sante.
A mio modesto parere, l’unica critica che si possa concepire (e farebbe un favore a molti di noialtri scribacchini), sarebbe la critica “testuale”, altro che i trattati pseudosociologizzanti (un fazzoletto, per favore) sulla letteratura (che roba è?) che dicono niente volendo dire tutto.
Ritengo di avere imparato un casino (se il termine non suona troppo accademico) dagli utilissimi libriccini editi tanto tempo fa da Mursia nella collana “Invito alla lettura”, nei quali si analizzava passo dopo passo (a momenti frase dopo frase) l’opera di moltissimi autori contemporanei e non. Letture illuminanti per un giovane aspirante scrittore privo della possibilità di accedere, come avviene oggi, a qualsiasi corso di creative writing.
Sarei tentato di incollare qui il link di una mia analisi testuale del racconto “Conservazione” di Carver, ma avrò la bontà di resistere alla tentazione, anche per evitare l’accusa di fare arbitrariamente ricorso alle mie deiezioni. Ma sarebbe comunque un buon esempio di ciò che ritengo essere un modo utile di fare critica letteraria.
Zublena. Un racconto di Gilda Policastro.
Leggo e rileggo il tuo commento e mi chiedo: alla lacaniana inafferrabilità del Reale (riattualizzata poi da Hal Foster), come pensi di far superare l’urto del reale minuscolo, quello della terza settimana del mese (citando dall’intervista di Zinato a Luperini, sull’ultimo numero dell’immaginazione) cui non si arriva? I nomi che fai mi tornano particolarmente: ma tra di loro almeno uno ha trovato una soluzione che salvaguardando lo straniamento recupera la capacità di riprodurre il rumore del presente. E non nei termini del reportage (pure percorsi dall’inchiesta sul precariato di ”Roberta”, ma secondo me in tono minore) o dell’osservazione entomologica dei suoi simili, come qualcuno gli rimprovera, ma proprio nei termini che invocavi tu, di uno sguardo che direi creaturale, e che mi fa pensare alla letteratura migliore di tutti i tempi, che non a caso poi resiste al tempo, pur essendo nel suo tempo. é questo il problema, come scriveva Segre un decennio fa: i caratteri di pancronia e longevità sono condizioni essenziali alla sopravvivenza di un’opera oltre l’ambito forzatamente circoscritto in cui si produce. La discussione sul canone l’ho avviata proprio sul manifesto, e comunque ha prodotto l’orticaria, come qui parlare di scrittura generazionale. E dove vogliamo farlo, se non in uno spazio di discussione che può richiamare come pochi, per la sua trasversalità, critici, scrittori, editori, lettori? Ma che occasione perduta, se l’ossessione dello scrittore è anche qui piacere al babbo critico. O almeno, essere citato. Come se il critico avesse davvero una vita doppia o tripla rispetto a quella degli altri, in cui leggere TUTTO. Io leggo un libro di narrativa al giorno, o a settimana, o al mese, a seconda dell’entità del libro, della riflessione che merita, degli impegni collaterali. Leggo, mea culpa, molta più saggistica, o poesia. Ma la discussione serve a questo: ”io non dubito, caro Pasolini…” e poi via di argomenti e di altri nomi, magari.
In Francia dove vivo (lavoro in università, ora sono dai miei genitori “in vacanza”) i nomi non sono un problema.
“LIRE- le magazine littéraire” tre mesi fa ha fatto un numero speciale dedicato all’Italia.
Prima tutta una serie di articoli dedicati ai classici otto-novecento (da Collodi a Malaparte, da Buzzati a Sciascia), poi alcuni contemporanei agèe (Eco, Magris, De Luca) infine una serie di nuovi autori da leggere: Lodoli, Trevisan, Ammaniti, Parrella, Ferrante, Biondillo, Culicchia, ecc.
complimenti @ anfiosso per aver introdotto con una critica ai “commenti troppo lunghi e quasi tutti scorciabili di più della metà, anche per la prosa, sovente cancellaresca e piatta” un intervento di 48 righe!
complimenti @ gp per aver chiarito il suo pensiero al di fuori degli schemini: il disordine e l’illeggibilità sono la maschera dell’interventismo e del presenzialismo. Fare casino, si diceva un tempo. Picchiare, un tempo solo di poco più antico.
@ zublena: la tua categoria di illeggibile è bella e suggestiva, ma rischia di sconfinare nell’aopologia del demenziale, cioè di chi rifiuta l’idea che la parola sia portatrice di un senso che non stia nel suono (convenzionalità e referenzialità del linguaggio: io ci credo). Grazie per il bell’intervento, che ha spiegato senza schemini ma con chiarezza di posizioni e nitore di idea.
Sai carissima Alcor.
siamo ormai al “trionfio” dell’assertivo
Sembra ormai finito il periodo in cui
les grands esprits alla domanda
Qu’est-ce que c’est – la poesia, la letteratura, la vita
rispondevano con forse è … può darsi che…
effeffe
@jossa, io l’ho apprezzato, il tuo schemino:-)
@effeffe
infatti, è curiosa questa diffusione della certezza, brutta bestia.
si capisce a chi è diretto il brutta bestia, spero:-)
naturalmente, formule come “si dovrebbe parlare di” non significano “al posto di”, ma “in aggiunta a” e “a partire da”. Cioè sono un riconoscimento del merito dell’articolo da cui la discussione è partita, of course. Altrimenti non s’interverrebbe neppure, of course.
Vero Anna Maria… L’ho letto, e mi ha fatto piacere ritrovare i nomi di Elena Ferrante: è una scrittrice che
mi ha aperto come un vertigine la scrittura della memoria,
il legato tra madre e figlia, la lingua dell’origine.
E certo vedere Gianni Biondillo tradotto in francese è una felicità. Il problema solo è che Lire ha offerto un’analisi veloce della letteratura italiana.
Penso alla vitalità della letteratura del sud, terra di viaggio tra le lingue, di invenzione, di formazione sempre mobile.
Giuseppe Montesano: una lingua poetica, corporale, alimento, profumo: tavola sublime della lingua.
Elena Ferrante
Roberto Saviano ” Le contraire de la mort”: un capolavoro
di sobrietà.
Milena Agus ( molto amata in Francia per la sua realtà poetica in un tempo arcaico)
Alassio Arena per l’esplorazione della lingua, solare, mistica.
Anna Maria Ortese.
E tanti altri scrittori…
Sogno una critica poetica, scritta in una lingua nuova, sgombrata di abitudine, scoprendo un territorio mai visto
di un libro. Un critico dovrebbe essere un avventuriero.
Finalmente preferisco alla critica una bella prefazione on un saggio.
Désolé :
Maria Chiara… non Anna Maria
Sono “maudite” Alessio Arena, non Alassio Arena…
… mmh-no! mi sa che il post non l’ho proprio capito
… dici?
… dico
… e ora?
… non so, ma se ero un ragazzo di vita che vuole iniziare a leggere, penso che preferisco vedermi i talk show che almeno uno non c’è laddentro alla televisione e cambia canale oppure spegne
… non ti seguo
… bene, allora hai capito quello che volevo dire.
@ alcor
mi sarebbe piaciuto avere il tempo di battere tutto il pezzo di giglioli, purtroppo non l’ho avuto (e non ce l’ho), quanto ai riferimenti su come recuperarlo mi pare che ci siano tutti e siano pure iterati. inoltre mi sembra che nel pezzo di policastro ci siano gli strumenti per ottenere, al complemento, le informazioni, forse il mood, dell’articolo di giglioli.
dico la mia.
io pure penso che nomina sunt consequentia rerum. detto questo odio le avanguardie, le postavanguardie, le retroavanguardie e pure le guardie. odio i movimenti, le catalogazioni, i generi, e le categorie. Da matematico ho imparato assai presto che esiste sempre un altro modo per ridurre a uno, per moltiplicare, per analizzare, per creare un sistema di coordinate che sia equivalente a un altro e pure mostri figure assai diverse. la letteratura è una figura e la critica, quando è ben argomentata (e io penso che quella di policastro lo sia, anche quando è poderosamente belligerante), sia un sistema di coordinate. le figure esistono indipendentemente, gli assi di riferimento cambiano e se ne possono inventare infiniti in spazi cognitivi sempre più n-dimensionali. ma detto questo, non sempre dire i nomi, dare i nomi a cose che esistono significa fare conventicole, comaraggi e restare al palo di una conoscenza mercimoniosa. quindi, ben vengano i nomi. e le cose.
e.g. se francesco pecoraro, non avesse dato un nome, una esistenza, qui e ora alla “radiazione di fondo della borghesia progressista”, io ora non mi sarei messa a ridere di gusto. detto questo fra cinque minuti che lo abbia scritto lui o un altro non mi interesserà più, perchè è scritto bene, è bello e quindi è proprio di tutti. (però intanto che me lo ricordo grazie francesco)
chi
CAPIRE, CAPIRSI. Un racconto di Paolo Zublena.
lascio per un attimo la ben più seria attività di progettazione delle trasferte a seguito del genoa cfc in europe league, perché l’argomento qui mi sembra di grande momento.
mi riservo di tornare altrove sul blob auto(non)finzionale incrociato con strutture di genere che sembra la deprimente dominante dello scenario della narrativa it attuale, in realtà spesso espressione di un ritorno al naturalismo ingenuo sdoganato da malintese licenze postmoderniste (ma io di postmodernismo tout court, eco a parte, nella narrativa italiana ne ho visto poco: di riflusso antimodernista, avallato appunto dall’alibi di una banalizzata poetica pseusopostmodernista, parecchio), che è alla fine delle fini funzionale alle richieste di intrattenimento-impegno morale-politico (da anime belle) della borghesia (soprattutto quella progressista) e di chi modella il proprio immaginario in coda a essa.
mi limito però a osservare come la condanna che giglioli getta sulla radicalità senza radici (formula che, volta al pro-positivo, io non potrei che guardare con simpatia) appaia, a me, un taglio in sordina del rizoma deleuziano. e come, alla fine delle fini, un avallo di fatto delle strutture prodotte dal mercato, che non fanno ovviamente che riflettere l’ideologia dominante. questo rassegnarsi appare insomma un’operazione che, mentre sembra criticare l’autonomizzazione dei prodotti intellettuali dal loro terreno sociale di produzione, occulta l’inversione del reale con cui l’ideologia mette la maschera alla realtà. (questa difesa del minore ma vivo, sarebbe quindi un po’ come la difesa a oltranza della democrazia elettorale plebiscitaria che ci sta portando a questo cupo disastro senza esplosioni).
siccome però rispetto al da me appena criptocitato marx ho meno fiducia sull’essenza (come prodotto di rapporti sociali) di questa realtà, e rischio di avere un po’ meno fiducia ontologica nell’individuabilità dei fatti di quanta vorrebbe luperini e forse anche l’autrice di questo articolo, e insomma di anelare turpemente e decostruzionisticamente all’intepretazione infinita, non pesso che guardare con favore alla categoria dell’inciampo proposta da gp. Che anzi incrocerei volentieri con l’illeggibilità, beninteso in senso derridiano (preciso a scanso di equivoci: dal saggio di La scrittura e la differenza su Jabès e l’interrogazione del libro: “L’illeggibilità radicale […] non è l’irrazionalità, il non-senso disperante, tutto quello che può suscitare l’angoscia di fronte all’incomprensibile e all’illogico. […] [L’illeggibilità originaria] è la possibilità stessa del libro, e, in esso, di una contrapposizione ulteriore ed eventuale, del ‘razionalismo’ e dell’ ‘irrazionalismo’. L’essere che si annuncia nell’illeggibile sta al di là di queste categorie, al di là, pur scrivendosi, del proprio nome”. difendiamo, anche se non condividiamo la derridiana – un po’ enfatica – extra-posizione estrema di quell’essere fuori da ogni categoria, quel che è illeggibile.
Perché nell’illeggibile, che è condizione di esistenza del leggibile, c’è anche l’informe carico di intepretabilità futura. c’è una possibilutà. come l’ombelico del sogno di freudiana memoria, non è che si fatichi a comprenderlo: è fuori dalla comprensione, ma non dal reale (qualcuno l’ha già detto, ma vorrei un bel ritorno al reale, altro che ritorno alla realtà).
L’espressione di questo oggetto (la cui articolazione tematica e stilistica può essere pressoché infinita) continua a sembrarmi il compito più degno della scrittura. è un compito che la scrittura modernista ha assunto in pieno, e rispetto alla quale si è poi verificata un’ondata di riflusso.
Ma un leggibile senza illegibilità a me non interessa.
Non fare i nomi vuol dire anche rinunciare alla (descrizione della) battaglia, inchinandoci in fin dei conto alle regole di quell’ideologia dominante (operazione di moderazione d’altronde fin troppo praticata politicamente). fare la fine del PD, tra l’altro e del cimitero alla sua sinistra.
Faccio invece i nomi, che non a caso sono nomi fuori dallo strega, dalle polemiche di qualunque strega o altro amaro dolciastro: vitaliano trevisan, tommaso ottonieri, franco arminio, aldo nove coltivano la possibilità cui alludevo (rappresentano il reale nella sua irriducibilità). non potrei farne molti altri. il loro sguardo complesso è ben più carico di avvenire degli stanchi narcisismi di basso profilo e funzionali al mercato, alla scurati o peggio.
(perché questo non sia affatto elitarismo, né quindi la presente parentesi un atto di Verneinung, andrebbe spiegato, ma no non ora non qui)
direi quindi infine: c’è POCO di vivo, e non ha PER NIENTE vita facile. ma facciamone il nome, per carità (non solo resistenziale).
Giuseppe Montesano: una lingua poetica, corporale, alimento, profumo: tavola sublime della lingua.
Mio dio, Véronique, beata te che non capisci un tubo.
poderosi passi da gigante :-)
Sarebbe un buon punto di partenza se da un lato la si piantasse di vantarsi di non aver capito. E se dall’altro (come da buona prassi didattica già evocata) ci si spiegasse meglio, laddove si capisca di non essere stati capiti.
Tutta questa fuffa mi annoia.
Solo qualche blanda marchetta. Scrittori e critici.
Per posizionarsi non si capisce bene dove.
A me interesserebbe sapere quali sono le ambizioni dei letterati italiani più gettonati.
Qualunque esse siano. Anche se fossero piccole piccole, quasi meschine.
Lo scenario è inquietante.
Ma questa è l’Italia.
Oggi.
cara @chi, rispondo per chiamata, tra l’altro gentile
non è così automatico trovare il pezzo di Giglioli, e insisto, non è così automatico ricavarne il mood o anche le ragioni dal post, bastava che GP organizzasse meglio il suo discorso, che non è certo “difficile” nel senso indicato da Zublena, ma solo caoticamente esposto, con troppe cose date per scontate, poco lettore-oriented (e non intendo semplificato o impoverito) su un blog come NI.
Se a questo si aggiunge la bacchetta impugnata con una certa supponenza, beh, irrita.
Se uno chiede o anche viene invitato a postare un pezzo su NI – che non è il verri, ma un luogo misto e variegato – lo fa, immagino, per trovare una sede in cui allargare il suo pubblico, altrimenti potrebbe fare come ha detto qualcuno sopra e telefonare a un collega, o scrivere per la rivista di Luperini.
E se questa ipotesi è vera, occorre che impari a confrontarsi, cos’è che la rende così rigidamente armata?
Se non avesse risposto in modo così puntuto ai lettori che pure venendo qui ha cercato, se ne sarebbe forse potuto trarre qualche vantaggio, qualche confronto ecc. e lo dico da lettrice che paradossalmente potrebbe condividere più di altri alcune (alcune soltanto, perché l’impianto pecca molto di ideologia) sue posizioni.
E con questo la mia polemica con Policastro è chiusa, spero.
manganelli (a prop. di una diatriba teatrale) suggeriva di spostare l’attenzione dalla scrittura alla lettura, e diceva che solo il lettore oscuro sente il bisogno di una scrittura chiara, immediatamente comprensibile, che finisce lì e non ti lascia nulla, a parte la coscienza a posto. eduardo de filippo come il perfetto esempio di scrittura reazionaria.
Lo scrittore insicuro ha una gran soggezione del critico, e quest’ultimo dal canto suo è consapevole e sicuro dell’insicurezza dell scrittore in questione. Dell’insicurezza o dell’ambizione (cieca o ipovedente che sia). Il critico ha un gran potere in questo caso. Il critico è un giudice. é quel soggetto terribilmente colto e sgamato che farà conoscere allo scrittore insicuro o ambizioso, se ne avrà tempo e voglia, quello che potrà essere il futuro.
Quando lo scrittore è sicuro invece, avviene più o meno la cosa contraria. Ossia il critico non è poi tanto sicuro, anzi è piuttosto vago, un’etichettatrice nelle mani di un orbo; non è poi così potente, colto e sgamato. Un po’ come un veggente che ti vende i numeri del lotto e tu pensi ‘ ma perchè cazzo non se li gioca lui!? ‘. Infine il critico non potrà far sapere allo scrittore sicuro quello che potrà essere il suo futuro. Forse forse azzeccherà qualcosa riguardo al passato.
Il critico deve in qualsiasi caso fare i nomi ed i cognomi, a meno che sulle copertine dei libri e sui manoscritti, l’autore, ci voglia solo il titolo, il prezzo, e il simbolo della casa editrice.
eduardo de filippo è una scrittura senza aggettivi.
che bisogno ha di aggettivi de filippo?
ma Viviani…Garufi…è leggibilissimo .. o per citare W. che di problemi del genere se ne intendeva “cio che può dirsi ..” . Non è probabilemnte una questione di chiaro/oscuro ma di centrare l’obiettivo, e le corde, forse, eh, non so. Sicuramente da quasi 20 anni non * leggo* narrativa italiana e un motivo c’è. La letteraratura è sempre un rapporto *trinitario* : scrittori, critici, lettori. Un forte abbraccio, di stima, V.
Chi sono questi lettori? La professoressa di Italiano alla Ragioneria che sul volo Londra-Bergamo legge “La solitudine dei numeri primi” come se stesse partecipando ad un grande evento collettivo?
Chi sono questi cririci? Le letterine di vecchi mafiosetti senza pubblico e senza editore?
Il vero scrittore di questa gente se ne fotte.
Questi critici senza pubblico e senza editore, e le loro veline, cercano di sostenere il loro status, discettando degli autori di maggiore visibilità. Soprattutto per non rischiare l’esclusione totale e definitiva. Finiscono quindi col fare puro esercizio retorico su autori spesso di infimo livello.
«L’esiguità di mezzi riguarda in particolare i cosiddetti scrittori-scrittori, sempre più raramente all’altezza del compito di rinnovamento delle forme cui la storia non solo letteraria inevitabilmente richiama».
Signora Storia, faccia il favore: le dovesse capitare di richiamare, bussi più forte, che quaggiù non La si sente!
Il non aver ricevuto la benché minima risposta a ciò che ho sostenuto nel post mi porta a citare il buon vecchio Dave Wallace: “La vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi.”
Amen Binaghi, e consoliamoci così.
sono con cortellessa (anche se è un critico.)
Citazione per citazione…
“Gli insetti pungono non per cattiveria ma perché vogliono vivere anche loro; lo stesso è dei critici: vogliono il nostro sangue, non il nostro dolore”.
Friedrich Nietzsche (da Il viandante e la sua ombra)
Potrei andare da Wikiquote all’infinito.
Questa, sempre di Nietzsche, è la mia massima.
“Il mio tempo non è ancora venuto; alcuni nascono postumi”.
(da Ecce homo)
Bene, mi pare che Biondillo abbia colto la mia provocazione, con un riuscito accostamento di foto che apre un altro suo post…
io che non odio niente tranne le polemiche viete.
disprezzo profondissimamente il ponte levatoio che (forse) tutti gettiamo tra lo scritto e chi lo ha scritto. passando, adesso sì, da dibattito ad attacco personale. se la noia avesse sfumature, questa sarebbe la più tendente al grigio della mancanza di argomentazioni.
questa non è letteratura.
non è critica.
non è nemmeno rumore.
questo non è niente.
chi
Stefano Jossa, complimenti a te per non aver capìto che un mio intervento di righe può contarne 196, ma NON sarà MAI scorciabile nemmeno di una virgola. E complimenti per l’acribia: ti sei pure messo a contarle, tutte, una per una. Commovente.
@ cortesi interlocutori sul merito della questione: mi avrebbe fatto molto piacere rispondervi,
ma non nella canea che qui si è formata.
Chi,
io qui ho smesso di commentare 24 ore fa. Tutto quello che è venuto dopo io non lo posso moderare, e lo sai. Non tocca a me.
Zublena,
ma prego, NI ti spalanca le porte, quando vuoi mandaci il tuo commento che lo pubblichiamo. (comunque il trucco è saltare i commenti che non ci interessano e andare a leggere solo quelli che ci stimolano. Dopo un po’ ci fai il callo, è questione di esperienza).
[…] che per me, umile scribacchino, la forma “è” il contenuto, ho trovato davvero irricevibile il testo di Gilda Policastro, proprio per la sua forma inconsistente, friabile. Irricevibile per il tono profetico apocalittico […]
Riapro il thread solo ora, stavo continuando a leggere ”In difesa delle cause perse”, specie il passaggio dal capitolo ”Felicità e tortura in un mondo atonale”: “Freud era già consapevole della connessione tra narcisismo e immersione nella moltitudine, resa nel migliore dei modi dalla frase californiana ‘condividere un’esperienza’ ”.
Essere stata trattenuta dal Grande Altro fuori da qui mi dà il vantaggio, ora, di poter elaborare velocemente delle soluzioni per uscire dalla canea (metafora Zublena) e ricondurre la discussione sui binari del dialogo critico:
Soluzione numero 1: della tolleranza acustica
Non è facile, ma la tecnologia moderna riesce a isolare le frequenze delle voci anche in mezzo a un frastuono assordante. @ Zublena, possiamo ripartire dalle discussione sulle forme di realismo?
Soluzione numero 2: della carità ecumenica: il quarto d’ora warholiano di visibilità non si nega a nessuno, pure a gente che continua a chiamarsi coi nick che sembrano i nomi della quinta ginnasiale di Moccia.
Soluzione numero 3: coincidentia oppositorum
Il critico come blogger e il blogger come critico: è un ibrido impossibile, come gli uomini-pianta nella selva dei suicidi. Pure, quel balbettio di Dante (onomatopea del pensiero, per Spizter) di fronte all’impossibilità della pianta che parla mi ha sempre affascinato. Forse si tratta di capire meglio i tempi e i modi reciproci (@Cortellessa, se ho inteso quello che scrivi), ma anche saper aspettare e pazientare. Reciprocamente.
Il dibattito si è in qualche modo, a mio vedere, prodotto, e non solo nelle forme del battibecco qui (=nel blog) sempre invocate e praticate. A molte sollecitazioni mossemi, non ho risposto direttamente io, ma altri, ed era questo l’intento: produrre dibattito, circolazione delle idee. E qualche idea nuova ha circolato (la vitalità della narrativa contemporanea a prescindere dai nomi, secondo Gigilioli; la necessità invece di un ritorno a una letteratura di impegno e di qualità, proprio a partire dai nomi, secondo la sottoscritta), sia pur a fatica.
E più non dimandare (al blog).
Grazie a chi è intervenuto per confrontarsi, e anche a chi lo abbia fatto “alla californiana”, per “condividere un’esperienza”. Risponderò, qui o altrove, coi miei tempi: i tempi dell’ibrido.
il grande Altro. l’altro. ecco non aut-aut ma et-et.
oh… l’ibrido, che bei ricordi, l’organismo digitale.
concordo con chiara valerio a proposito dell’odio per il “ponte”. e se anche fosse inevitabile contaminare il giudizio personale su un testo dall’impressione che ci trasmette chi lo scrive, a me risulterà sempre più simpatico chi chiede attenzioni alle proprie parole rispetto a chi la chiede per la propria persona.
detesto i giudizi portati in tono impersonale, senza dire “io” (senza esposizione dei propri limiti e idiosincrasie e lacune), come se fossero auto-evidenti. pontificare e farneticare pari sono. chiunque lo faccia.
Qualcuno nei commenti (che non ho letti tutti) lamentava di non poter avere sott’occhio l’articolo di Giglioli. Dall’archivio pubblico del “manifesto” è già scomparso, lo si può legger qui.
Gilda Policastro scrive a un certo punto: “L’ultimo choc letterario che si ricordi rimonta agli anni Novanta: quando in Woobinda di Aldo Nove si ammazzavano i genitori perché non usavano il bagnoschiuma Vidal”.
E’ possibile provare che questa affermazione è vera o falsa?
io ho capacità di sintesi, per chi passa adesso, evitando di leggere tutti questi noiosissimi commenti, posso riassumere così:
la policastro dice w aldo nove e ad alcuni non sta bene.
fine.
@binaghi e in ritardo prima di leggere i commenti successivi.
stimo gilda e quando la leggo di solito la trovo interessante: è una studiosa impegnata nel presente, vale a dire nel farsi quotidiano delle scritture: il suo è uno sguardo consapevole e, dal mio punto di vista, “istruito”.
dico questo perché, benché mi rammenti di sguincio delle polemiche fortini-sanguineti-eccetera, insomma benché mi ricordi dell’avanguardia del gruppo ’63 (avevo 18 anni leggiucchiavo libri e giornali) nel momento in cui gli avanguardisti maramaldeggiavano contro le nostre belle lettere di allora (linde e accurate le prose di cassola et bassani, mi piacevano, per dire), non riesco a capire quale reale incidenza ebbero sia sulla letteratura di allora e di dopo di allora, sia sui lettori che in pratica e nella gran parte non ne seppero nulla e se l’avessero saputo sarebbe stato lo stesso: ricordo che leggevo balestrini: mi piaceva Vogliamo tutto e tuttora leggerle balestrini lo trovo bello e molto istruttivo e credo che non sia considerato per quello che merita, vale a dire un maestro da cui si impara e forse l’unico, apparte sanguineti poeta, che abbia davvero fatto libri degni di questo nome appartire dalle premesse avanguardiste del sessantatré: notazioni maldestre, le mie e pure abbastanza fuori tema.
epperò nomino balestrini proprio perché lui il problema di “essere politico” l’ha posto, forse unico tra tanti auto-dichiarantisi oppositivi et rivoluzionari, alla base del suo scrivere: se lo pone in modo diretto e forse borghese, com’è logico che faccia un borghese, eccetera.
(una partita di pallone ellenica alla tv di questo bar ellenico mi obnubila in ulteriore il già obnubilato intelletto)
ora caro binaghi, io come molti altri, non solo sono disperato, ma percepisco nelle parole di gilda una disperazione simile alla mia: possibile che – ridotti come siamo, in un paese in cui sentiamo pronunciare enunciati politico-ideologici di marca razzista et parafascista, dove l’intellettualità è ridotta al suo minimo storico di incidenza e le masse sembrano preda molle e amorfa di mezzi di comunicazione di massa e di un’informazione manipolata et serva, un paese stretto in una tenaglia fatta dal paganesimo pornografico dei berlusconiani da un lato e dal conservatorismo retrogrado e normalizzante di un cattolicesimo in completa fase di rinnegamento del Vaticano Secondo, dall’altro – possibile dicevo che nella situazione sommariamente descritta NON SI RIESCA a costruire, a trovare un perno politico (sì politico) attorno a cui radunare forse intellettuali residue con l’obbiettivo di contribuire, per quanto possibile a una qualche rinascita/riscatto da tutta questa merda?
ma è proprio sulla natura di questo contributo (che si porta appresso diverse et pesanti implicazioni di ogni genere) che occorre riflettere: sembrava a un certo punto che stesse passando la linea della necessità di farsi tutti saviani, aggrappati al presente a alle sue brutture denunciabili, quando alcuni per fortuna hanno detto più o meno due o tre cose.
la prima è: attenzione, nessuno ci legge: saviano, ammesso che se ne sia capaci e sia giusto savianizzarsi non può diventare la regola.
la seconda: nessun obbligo per favore, né di forma né di contenuto, nello scrivere libri, men che meno l’obbligo dell’OPERA esaustiva, men che meno l’obbligo del “rinnovamento delle forme” (che si rinnovano non a comando ma solo quando “i tempi sono maturi” e qualcuno lo fa e basta).
la terza è: attenzione a non rimanere ancorati a un’idea accademica di scrittura (dovrei dire di letteratura) proprio nel momento in cui occorre invece drizzare le orecchie per cogliere alcuni fenomeni che possono diventare decisivi per una trasformazione del ruolo della scrittura come mai si è visto prima nella storia (paragonabile a gutemberg).
quale trasformazione?
non so rispondere, come non so rispondere niente di sensato all’istanza politica, al bisogno di “rinnovamento delle forme”, eccetera.
vorri solo che ognuno scriva i suoi libri e che chi si prende la briga di leggrli per capirli e giudicarli e incasellarli in pur necessarie (?) scale valoriali, non si prenda alche la briga di dirci preventivamente come dobbiamo scriverli e su quali argomenti.
e poi senti binaghi, io non so.
proprio non so.
grazie mozzi: finalmente si può leggere l’articolo di giglioli
mamma mia, non ho avuto il coraggio di leggere tutti i commenti. E così, in un certo senso, trovo il coraggio di farne uno anch’io (nella ragionevole certezza che altri non avranno il coraggio di arrivare tanto in fondo da leggerlo): mi sembra che viviamo un’epoca in cui chi non sa scrivere critica, e chi sa scrivere non sa criticare. Però non è sempre stato così. Interroghiamoci su quello che potrebbe essere accaduto…
@Pec
Anch’io non so Pec. Palla lunga e pedalare è quello che mi viene in mente.
Anzi una cosa la so: politico e pubblico non coincidono più.
E’ il preludio alla clandestinità?
Ti voglio bene Pec.
@Pecoraro
Trovo molto pertinente il tuo discorso su Balestrini e troverei importante per questa discussione recuperare proprio quella relativa al romanzo, avuta da Balestrini stesso con i suoi sodali del Gruppo 63. In sostanza, dove si era negli anni Sessanta? Ci si chiedeva, al di là dei gusti personali (anche a me Cassola fa tutt’altro che orrore, se è per questo), quale fosse la direzione da intraprendere per raccontare il mondo. Tagliare i fili con la realtà, diceva proprio Balestrini, e Sanguineti ricordava che la letteratura è pur sempre un organo dell’immaginazione. Sono parole che mi piace sempre ripetere perché da lì non ci si è più mossi, e anche le discussioni di qualche mese fa sul “ritorno alla realtà”, vero o presunto, è attorno a questi punti nevralgici che si incagliavano: rappresentare o descrivere, raccontare o riprodurre, derealizzare o imitare, la bella pagina o l’elenco dei mortiammazzati. Concordo senz’altro con te sull’esigenza di privilegiare forme nuove, maggiormente legate al presente (e se penso alla tua esperienza di scrittura, mi viene in mente che una delle forme più nuove di espressione degli ultimi anni è proprio il blog, declinato al meglio), ed esattamente in nome di quell’istanza di realismo di cui andrei comunque a rivendicare la necessità. Non posso invece seguirti sulla mancanza di influenza e di effetti della stagione neoavanguardista: le cose migliori dell’ultima parte del secolo sono arrivate da quella zona (o anche da aeree di ferma opposizione: ma comunque da un confronto dialettico con l’avanguardia), ovvero gli scrittori non solo più dotati stilisticamente, ma anche più attrezzati teoricamente. (Quelli che citavo in questo pezzo, Aldo Nove e Frasca, ad esempio, pur nell’assoluta distanza delle posizioni e degli intenti, nonchè ovviamente sul piano della realizzazione concreta, sono poi assolutamente assimilabili quanto alla ricerca di forme di espressione straniata, di racconto, diciamo procedendo schematicamente, antimimetico. Sbilanciati, certo, il primo più sul versante “mortiammazzati”, il secondo più “bella pagina”, ma senza incarnare a pieno né l’uno e nell’altro filone, e comunque scostandosi dagli aspetti deteriori dell’uno e dell’altro).
La neovanguardia e i suoi epigoni (o i nemici dei suoi epigoni) è l’ultimo movimento ad aver prodotto e condotto un dibattito “politico”: era in discussione il senso della letteratura in un mondo che cominciava a vivere potendo farne decisamente a meno. Mi viene in mente l’intervento di Manganelli contro il rovinoso compito ideologizzante cui si sarebbero piegati i “narratori” (termine che Manganelli preferiva a quello di romanziere, perché il romanzo ha il problema di dover chiudere in una singola storia, per giunta verosimile, un mondo troppo multiforme, per giunta gravido di menzogna).
E oggi che i libri si pubblicano in quantità imparagonabili a qualunque altra epoca storica e forse meno che in qualunque momento storico si leggono, la direzione da scegliere è ancora quella della critica (serrata, seria, argomentata) a ciò che si scrive. Non tutto ciò che si scrive (o si pubblica), ma una linea che ci si senta di dover sostenere, con la parzialità che è propria del mestiere e cui possono e devono contrapporsi altre parzialità. Il pluralismo non ha mai implicato la compresenza bachtiniana di più voci in un solo individuo, ma la possibilità che molte voci differenti si esprimano sul medesimo argomento. Mi è parso sempre molto saggio quando lo si è ricordato a proposito dell’informazione, specialmente politica. Perché invece il critico dovrebbe leggere tutto ciò che si pubblica? Non può scegliersi una linea come fosse un partito (che non si sceglie per caso, ma aderendo a un’idea), sostenerlo, decidere che il resto non vale le ore tolte al sonno o alla vita materiale?
Tra l’altro mi viene in mente che Alfonso Berardinelli definiva in un pamphlet recente i movimenti e i gruppi “partiti politici dell’arte”. Ottimo, anzi, che male c’è?
@Mozzi
Riformulare la domanda, si può?
Ancora una volta mi sento in assoluta simbiosi con francesco pecoraro. Tranne quando si interroga su
quale reale incidenza ebbero (gruppo 63) sia sulla letteratura di allora e di dopo di allora, sia sui lettori che in pratica e nella gran parte non ne seppero nulla e se l’avessero saputo sarebbe stato lo stesso:
Sicuramente Alfabeta (qualche anno più tardi) – ma allora ricordiamoci pure di gianni sassi http://www.giannisassi.org/indice/poesia/alfabeta.htm
ha proposto un progetto che senza temere il confronto con mezzi e linguaggi nuovi poteva flirtare sia con i mezzi di comunicazione di massa ( pubblicità, radio, televisione) che con le forme artistiche più pop ( basterebbe rivedersi il catalogo Frankenstein alias gianni Sassi, con gli Area di Stratos o i Gang).
Oggi è augurabile confinare il progetto di cui parli ( sento la stessa violenza e sofferenza che evochi) in una semplice e autistica prospettiva letteraria?
Rinunciando per esempio a uno sguardo (e a un confronto) esteso a tutte le arti, poetiche, maggiori ( teatro, architettura, pittura cinema musica) e minori che siano Videoarte, danza, performance ecc.impegnate comunque in un tipo di progetto e di ricerca? E in quale sede? In quelle istituzionali (festival, accademie, università, fiere)?
effeffe
“ti voglio bene pec?” ma siete impazziti?
Pecoraro mi trova d’accordo, sostanzialmente. L’operazione di Policastro mi sembra giusta: farsi un’idea chiara e portarla avanti con coerenza. Dove forse pecca è nell’eccesso di coerenza, di sicurezza. Le sue affermazioni su Nove sono azzardate. In attesa d’una eventuale risposta di Mozzi, le rispondo io: WOOBINDA è del 1996; dopo di allora cito un po’ di shock letterari italiani (i quali non mi sono necessariamente piaciuti) che mi vengono in mente alla rinfusa: PERCEBER, GOMORRA, LA MACINATRICE. Ma, appunto: che cos’è uno shock letterario, per Policastro? Per Policastro è più sconvolgente il contenuto di AMERICAN PSYCHO o la forma di INFINITE JEST?
Gilda, detto sinceramente, ti chiedi:
“Perché invece il critico dovrebbe leggere tutto ciò che si pubblica? Non può scegliersi una linea come fosse un partito (che non si sceglie per caso, ma aderendo a un’idea), sostenerlo, decidere che il resto non vale le ore tolte al sonno o alla vita materiale?”
Perché un critico (in quanto intellettuale) deve essere curioso, non cercare pedisseque conferme a teorie già date per scontate.
Perché se uno aderisce a un partito lo fa perché ha chiare le diverse alternative, altrimenti perché sceglie? In nome di cosa? Aderisce così, accettando come testi sacri quelli della sua area politica, senza sapere cosa dicono gli altri? Ma che modo è di vedere il mondo questo? Anche solo strategicamente è errato: “conosci il tuo nemico se lo vuoi combattere” diceva Lenin.
Il “non l’ho letto e non mi piace” va bene come motto di spirito fra borghesi annoiati, non fra “interpreti del mondo”. Il pensiero critico è un pensiero antidogmatico, che si mette continuamente in dubbio. Deve accettare la possibilità di un salto, di uno scarto, di un errore, si deve rimettere in gioco di continuo.
Ma – continuando a usare la tua metafora dei pariti politici – te lo vedi un dibattito dove un politico si pone come alternativo ad un altro senza che sappia nulla del suo programma politico? Verrebbe fatto a pezzi, riempito di pece e piume. Qui siamo al “crociati vs infedeli”, allo “scontro di civiltà”, al, cioè, “Milan vs Inter”, non a una visione la più ampia possibile della complessità del mondo.
Certo Gilda, riformulo subito. Tu hai scritto a un certo punto del tuo articolo: “L’ultimo choc letterario che si ricordi rimonta agli anni Novanta: quando in Woobinda di Aldo Nove si ammazzavano i genitori perché non usavano il bagnoschiuma Vidal”.
Poiché tu hai scritto questo, immagino che tu pensi che sia vero. A me ovviamente interessa sapere se è vero o no. Mi domando – e ti domando, quindi, già che ci sono – se c’è un modo per provare che quanto affermi in questa frase è vero (o che non lo è).
[…] a grande e giustissima richiesta, il misterioso ur-testo della polemica ritrovato non a Zaragoza, ma su Vibrisse (come Giulio Mozzi ci ha segnalato in un […]
@Mozzi (ed altri)
Da Galilei in poi la scienza necessita di “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”. La scienza. Una mia affermazione (mia, di critico) si autolegittima nella coerenza del discorso che svolgo, non ha bisogno di essere “dimostrata” nel senso delle scienze sperimentali. Il mio discorso parte da alcune premesse (opzione in favore di una letteratura di qualità, possibilmente non avulsa dal mondo, ma collocata rispetto ad esso in modo sghembo, a partire dallo sguardo straniato dell’autore) e arriva a delle conclusioni (alcuni movimenti o correnti o autori hanno incarnato tali caratteristiche meglio di altri: e dunque Woobinda sì, Gomorra no). Ciò detto, se la letteratura di genere (romanzo storico, noir, poliziesco, graphic novel o altro) non incontra il mio favore perché nell’aderire alle aspettative del mercato si colloca immediatamente al di fuori dell’area di qualità che vado tracciando, non vedo perché occuparmene (leggere per mio diletto, è altra cosa). Ci saranno sicuramente in quest’ambito dei libri più che discreti, ma anche nei libri di Moccia ci saranno delle righe un po’ meno destrutturate. Il critico che alcuni di voi invocano è “curioso” (cioè vorace, instancabile, onnivoro) e non ne mancano nel nostro panorama attuale esempi mirabili. Ma per me la critica è selettiva: non solo nell’indirizzo delle sue scelte, ma soprattutto nel sostegno espresso ad alcuni autori e non ad altri. E non per faziosità o manicheismo, ma perché una scelta di campo nasce da un riconoscimento di un terreno comune di ricerca e se non può esaurirsi nel perseguimento di una sola direzione, del tutto a scapito di altre (elencavo qualche commento fa, ma dev’essere stato cancellato dal rumore di fondo, libri ed autori non propriamente sperimentali o neoavanguardisti da me recensiti nell’ultimo anno), non può nemmeno concretarsi in una inesauribile mappatura di tutto ciò che si pubblica. Quella è ossessione compilativa, io proverei a fare altro: “krino”=1.distinguo, scevero, secerno, separo; 2. scelgo, preferisco; 3. decido, giudico (per chi non avesse il Rocci a portata di mano).
Gilda,
ma nel tuo selezionare c’è anche il non rispondere alle domande in modo continuativo?
Ti ribadisco quelle che ho già fatto due giorni fa:
Franz Krauspenhaar lamenta la tendenza a parlare l’idioletto critichese, usato come arma contundente da calare su chi è fuori dal circolo essoterico. Una critica che non è capacace di comunicare e che parla solo a se stessa e su se stessa che ruolo vuole davvero avere oggi?
Francesco Forlani cita un testo di Rizzante come exempla di scrittura critica contemporanea. Non c’è cioè opposizione fra lo scrittore e il critico, ma reciproca attenzione. La Policastro conosce il testo?
Alcor (che non so chi sia, immagino uno che scrive) e Pecoraro fanno a pezzi la premessa ideologica della presenza di una ipotetica “borghesia progressista” che legge libri, così come da Zublena indicato. Che ne pensi, sei d’accordo?
Alle domande di sopra ne aggiungo altre, partendo dal tuo ultimo commento.
Dici: “Il mio discorso parte da alcune premesse”
1) “opzione in favore di una letteratura di qualità.”
In cosa consiste, nei fatti, tale qualità? Quali sono gli elementi, tecnici, formali, di contenuti, etc. etc., che la contraddistinguono dalla non-qualità?
2) “possibilmente non avulsa dal mondo”
Come può un libro, qualunque libro, e perciò qualunque forma di letteratura, essere “avulso” dal mondo?
3) “ma collocata rispetto ad esso in modo sghembo”
Cosa significa “modo sghembo”? Che categoria critica è? Cosa mi fa capire che il libro che sto leggendo è posto in modo sghembo rispetto al mondo?
4) “a partire dallo sguardo straniato dell’autore”
Come si riconosce uno sguardo straniato? E perché DEVE essere straniato? E’ questo uno degli elementi che rendono qualitativo un testo?
5) “se la letteratura di genere (romanzo storico, noir, poliziesco, graphic novel o altro) non incontra il mio favore perché nell’aderire alle aspettative del mercato…”
Puoi dimostrare che la letteratura di genere incontra, sempre e comunque, le aspettative del mercato? In Italia, per dire, le grafic novel hanno enormi problemi ad essere pubblicate, la fantascienza è praticamente senza mercato, dell’horror non se ne ha alcuna traccia da anni, i gialli, dopo il picco di qualche anno fa, vendono sempre meno. Oggi tirano le indagini, le inchieste, i reportages e i romanzi che vanno allo Strega.
6) “… si colloca immediatamente al di fuori dell’area di qualità che vado tracciando”
Perché l’eventuale fortuna editoriale di un libro esclude automaticamente dall’area di qualità che vai tracciando il libro stesso?
Gilda, scrivi: “Una mia affermazione (mia, di critico) si autolegittima nella coerenza del discorso che svolgo, non ha bisogno di essere “dimostrata” nel senso delle scienze sperimentali”.
Ma la mia domanda riguardava questa frase: “L’ultimo choc letterario che si ricordi rimonta agli anni Novanta: quando in Woobinda di Aldo Nove si ammazzavano i genitori perché non usavano il bagnoschiuma Vidal”.
Questa frase afferma che un evento è avvenuto: in un momento determinato, causato da un determinato libro, e da determinate pagine di quel libro. Non mi pare una affermazione che possa essere “autolegittimata nella coerenza del discorso”.
Pietro Malavola mi ha tolto le 6 domande di bocca! Aggiungo: Policastro, hai il diritto di coltivare un tuo campo preferenziale, ma nel momento in cui rinunci a essere “onnivora” perdi anche il diritto a eleggere il campo che coltivi come paradigma di validità/verità. Dal canto mio, io sono “onnivoro” e credo che lo si dovrebbe essere il più possibile (anche i cattivi libri possono insegnare qualcosa, specie a chi scrive). Ciò non significa che debba sprecare il mio tempo con Moccia o Faletti: ma la piramide del talento umano è così alta e variegata che uno dovrebbe salire (o scendere) il maggior numero di gradini possibile.
Minchia, Pietro, mi sembri peggio di Mozzi! ;-)
A Gilda Policastro:
Già che ci siamo, ripeto io, riformulata, la mia domanda di mille commenti fa: Gilda, credi davvero che dopo Woobinda ci sia il deserto?
Non trovi invece che siano stati pubblicato alcuni romanzi – li cito di nuovo ma sono solo degli esempi di un elenco molto più ampio – che facciano una “una letteratura di qualità, possibilmente non avulsa dal mondo, ma collocata rispetto ad esso in modo sghembo, a partire dallo sguardo straniato dell’autore”?
Tipo:
“Lezioni di tenebra”
“Le cose come stanno”
“Tritolo”
“Fùtbol Bailado”
“Canti del Caos”
“Il tempo materiale”,
etc. etc.?
Aggiungo un’altro paio di domande:
non trovi, Gilda, che grafic novel come “Maus” o “Watchmen” abbiano una qualità “non avulsa dal mondo, ma collocata rispetto ad esso in modo sghembo, a partire dallo sguardo straniato dell’autore”?
La loro fortuna editoriale (e perciò l’adesione alle aspettative del mercato. Ché se uno aderisce ma non vende ha errato le aspettative, no?) e l’essere considerati da te “letteratura di genere”, inficia la tua valutazione?
Infine: Essendo Aldo Nove un autore che vende molto di più del 95% degli scrittori di genere (che vendono – tranne quei soliti 6 o 7- in media circa dalle 500 alle 800 copie a romanzo), e pubblicando lui per la più prestigiosa casa editrice che fa parte del gruppo editoriale più potente, questo fa, oggettivamente, di Nove un autore che materialmente aderisce alle aspettative del mercato. Perché questo non te lo fa collocare “immediatamente al di fuori dell’area di qualità” che vai tracciando?
(ok, questa era una domanda maliziosa. Le altre no)
(detto fra noi, mi auguro che Nove venda molto di più, come oggi sta finalmente accandendo a Tiziano)
Scrive Gilda Policastro: “La letteratura di genere […] non incontra il mio favore perché nell’aderire alle aspettative del mercato si colloca immediatamente al di fuori dell’area di qualità che vado tracciando”.
Aspetto ancora di capire perché “aderire alle aspettative di mercato” e “essere di qualità” debbano necessariamente escludersi a vicenda.
A meno di non dover dedurre che il “mercato” sia fatto di idioti incapaci di apprezzare la “qualità” o che, rovesciando la prospettiva, la “qualità” debba essere automaticamente priva di mercato.
Insomma, siamo davvero ancora lì, quanto a categorie critiche? O sono io che non capisco?
gilda,
la prego
risponda
mi sta venendo l’ansia, per gilda, che non conosco ma verso la quale nutro un sentimento di solidarietà diciamo femminile.
in merito al discorso non mi pronuncio, non sono all’altezza e la barba (metaforicamente) me la faccio fa sola.
baci
la funambola
senta Policastro, quando ha tempo, potrebbe dirmi cosa ne pensa di Aldo Busi, della prosa dico, i primi romanzi specialmente?
– quello che segue può anche non leggerlo, è un metacommento ticchettato più che altro per soddisfare il godimento del mio inconscio elettrico –
per me è un maestro (busi) e, insieme a wallace, lo sento molto vicino e maestro, amico, mi ci rispecchio in troppe sue andature mentali,
(io distinguo tra dick, evangelisti e busi, wallace, perché dick-evangelisti li pilucco come stuzzichini non proprio fondamentali al mio fabbisogno giornaliero [come le patatine o le noccioline piluccate dalla ciotola al pub con la birra] mentre di busi, wallace et sim. mi nutro [come un buon piatto di spaghetti al ragù con del buon vino] per il normale e salutare fabbisogno calorico quotidiano), ma questo non significa che abbia un qualche senso compiuto quello che ho appena digitato (accidenti, quando è che si ricomincia a scrivere con la mano?) e nemmeno la forma del contenuto contiene un senso che crea un mondo fantastico in cui io fingo di scrivere un commento sensato.
@Pietro Malavola
Chiedi:
”Puoi dimostrare che la letteratura di genere incontra, sempre e comunque, le aspettative del mercato?”
Posso dimostrarlo, tanto quanto le tue seguenti affermazioni:
”In Italia, per dire, le grafic novel hanno enormi problemi ad essere pubblicate, la fantascienza è praticamente senza mercato, dell’horror non se ne ha alcuna traccia da anni, i gialli, dopo il picco di qualche anno fa, vendono sempre meno. Oggi tirano le indagini, le inchieste, i reportages e i romanzi che vanno allo Strega”.
I dati tanto invocati, non li vedo nemmeno qui. Scarpa, ad esempio, non vende quanto Giordano lo scorso anno, dunque anche l’effetto Strega è tutto da riconsiderare. E che poi le vendite siano effettivamente indice di lettura, è anche questo tutto da verificare.
(Per l’ansia da mancata risposta, tua e di altri, non c’è che il sedativo: pur sforzandomi, non trovo altre questioni da dibattere senza ripetere quanto già scritto da me o da altri in questo thread, per il momento. Per certi chiarimenti che mi si chiedono, infine, vanno bene anche i classici dizionari: ve ne sono anche on line, per non scostarsi nemmeno un secondo dallo schermo, come invece alcuni di noi sono costretti, di tanto in tanto, a fare).
Visto ciò che scrivi nell’ultima parentesi, Gilda, riformulo la questione.
Quando scrivi: “Una mia affermazione (mia, di critico) si autolegittima nella coerenza del discorso che svolgo, non ha bisogno di essere ‘dimostrata’ nel senso delle scienze sperimentali”, ciò vale anche per quelle tue affermazioni che asseriscano l’esistenza di un fatto empiricamente constatabile?
@Mozzi
”Venite a noi parlar, s’altri nol niega” (Inf. V, 81)
Un n’è pe’ criticavvi, ma e mi sembrate tutti un po’ grulli.
aria fritta. il post. della serie esisto e compulso (giustamente, direi, visto il livello lessicale e sintattico) dizionari. Il primo che interviene a parlare di illuminismo, borges e rizomi lo fucilo.
”e disse: ‘Or va tu sù, che se’ valente!’ ” (Purg. IV, 114)
@Giulio Mozzi. Aggiungi al pezzo di Policastro una manciata di *a mio avviso*, 100 gr. di *secondo il mio giudizio*, sale, pepe (ulteriori!), e *questa è la mia opinione* a piacimento. Amalgamali per bene di modo che si ottenga una distribuzione a strati, un paio almeno per riga, ed ecco fatto che il tuo dilemma è fritto!
Oppure, se era un applauso per il fatto che hai studiato filosofia e lo vuoi dimostrare, bastava, certo, invocarlo (!).
Certe che ne avete di tempo da perdere in quisquilie: evviva i letterati (italiani)!
pardòn:
*Oppure, se era un applauso per il fatto che hai studiato filosofia e lo vuoi dimostrare, che cercavi, bastava, certo, invocarlo (!).*
Gilda: non ho capito.
Il mio discorso parte da alcune premesse (opzione in favore di una letteratura di qualità, possibilmente non avulsa dal mondo, ma collocata rispetto ad esso in modo sghembo, a partire dallo sguardo straniato dell’autore) e arriva a delle conclusioni (alcuni movimenti o correnti o autori hanno incarnato tali caratteristiche meglio di altri: e dunque Woobinda sì, Gomorra no).
Dovrebbe esserci un limite anche al delirio dei critici.
@i finti gnorri.
Gilda voleva dire, con ogni probabilità, “parlami, esprimiti, dimmi qualche cosa, esci da quel mantra per dio!, a meno che qualcheduno te lo impedisca”. Qualcheduno che per Dante era Iddio, ma che per Mozzi è la sua celibe attitudine polemica.
In altri termini: cosa vuole ottenere Giulio Mozzi? E perché nel mezzo di una polemica già di per sé infruttuosa – per non dire inutile -, condita qui da altre&ulteriori&periferiche micropolemiche ancor meno fruttuose – per non dire utili -, anche lui ci si fissa con un tormentone che di tormentone ha solo, giustamente, il noioso tormento?
…ora capisco: aldo nove ha pubblicato con giglioli e quindi dopo woobinda il deserto;
…ora capisco: questo post dovrebbe essere come certi programmi televisivi con il bollino -per alcuni e non per tutti.
…certo in quest’epoca di critici-critici e scrittori-scrittori ci vorrebbe un antiitaliano-antiitaliano che mettesse certi intellettuali-intellettuali o baroni-baroni (di quelli che dicono questo vale perché lo dico io) sulle proprie ginocchia e gli prendesse a sculaccioni.
[….che è ‘sta cosa: mafia intellettuale?]
“Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.” (Inf. III, 51)
Trovato, intanto, il tempo di leggere il primo dei numerosi link proposti all’inizio del thread da Biondillo, superando refusi, incongruenze, sgrammaticature d’ogni sorta: errori in cui, se avesse studiato, poniamo, con Romano Luperini, l’autore dell’articolo non sarebbe mai incorso, perché il primo insegnamento che si riceve a una scuola di dottorato qualunque, più che mai a quella di Romano Luperini, è la necessità di scrivere correttamente, e, solo in secondo luogo, la possibilità di tentare una scrittura brillante, personale e originale. Ad ogni modo, superate queste difficoltà in nome di quell’ibridismo tra critico e blogger cui mi richiamavo qualche commento fa, provo a dire qualcosa, prescindendo dallo stile (che pure rimane, per me, l’uomo) sul contenuto del primo pezzo di Biondillo, quello che si propone di sfatare il “pregiudizio intellettuale” contro la letteratura di genere. Biondillo cita a proprio sostegno i capolavori della tradizione italiana, dal “Furioso” ai “Promessi Sposi”, per sostenere il primato dei generi proprio nell’ambito della letteratura alta, e, soprattutto, per rivendicare la legittimità della parodia (più che un genere vero e proprio, però, una modalità di relazione intertestuale, tra le più praticate, effettivamente, di ogni epoca), contro la supposta avversione dei critici high brows. Biondillo ignora, a quanto pare, il dibattito critico che si è sviluppato negli ultimi anni grazie all’influenza anglosassone anche da noi in Italia, gli studi dedicati proprio al genere, la possibilità di riconoscere nella scrittura di secondo grado non un gioco erudito (secondo la versione postmoderna della cosiddetta parodia bianca), ma una possibilità di rilettura del mondo attraverso quella che i teorici americani chiamano la “ripetizione con differenza”, ossia, propriamente, la parodia declinata nel senso della contestazione di un universo extraletterario, attraverso la mascheratura del gioco citazionistico colto (come è ad esempio per la favola delle tre melarance “travestita” da Sanguineti nel 2001, con attacchi violenti alla “televisivazione contemporanea” per il tramite del canovaccio gozziano). Così per (citando solo qualcuno tra i più noti critici che si siano occupati dell’argomento) Dentith, Rose, Hutcheon, e, in Italia, Segre, Almansi, Pasero, Menechella, Bonafin e, dato l’andazzo autopromozionale che qui vige, anche, volendo, la sottoscritta (dossier della rivista “Moderna”, o anche, volendo e due, un libro uscito nel 2005). E questa ignoranza del dibattito critico (per quello sul romanzo basta anche solo il classico saggio di Asor Rosa “La storia del romanzo italiano”) da parte di alcuni che poi si arrogano il diritto di pontificare contro l’ignoranza dei critici che non leggerebbero i romanzi (no, Moccia non lo leggiamo, e i temi elencati da Evangelisti, per me a quelli dei libri di Moccia pari sono), è un bel sintomo della separazione ormai conclamata dei ruoli, e dunque una conferma dell’obiettivo polemico dell’articolo di Romano Luperini e, in fondo, pur nel dissenso che ho espresso più volte al suddetto su Saviano, anche della sottoscritta: gli anni Settanta sono finiti, non c’è stato un passaggio del testimone da parte degli scrittori-intellettuali di quell’epoca, circola oggi una pletora di scrittori-scrittori o critici-critici, spesso ignari gli uni degli altri e ignari, gli uni come gli altri, della propria limitatezza di sguardo. I primi, ad esempio, si mostrano completamente digiuni del dibattito teorico attorno ad alcune questioni capitali degli ultimi vent’anni (come fa Biondillo a sostenere che i critici non riconoscano la rilevanza dei temi e dei topoi, non dico mica dopo Curtius, ma dopo il monumentale dizionario dei temi letterari Ceserani-Domenichelli-Fasano, e, soprattutto, dopo decenni di discussioni agguerrite –anzi, tra le più agguerrite degli ultimi decenni – sulla cosiddetta critica tematica?); gli altri, è vero, ostinatamente sordi alle sollecitazioni provenienti dal mercato o dal carrozzone dei premi letterari. La riflessione sul perché certi libri si scrivano o circolino oggi maggiormente di altri (non ai tempi di Ariosto o di Manzoni, che scrivevano e riscrivevano, comunque, quelli che oggi consideriamo capolavori indiscussi, insoddisfatti della lingua, ad esempio, come nessun narratore di oggi riuscirebbe mai a riconoscere di sé), mi sembra ancora tutta da avviare. Ma la pretesa catalogatoria credo sia la via più infertile: una scelta di campo (la letteratura di grado superiore alla cronaca, al reportage, all’inchiesta, per lingua, stile, contenuto, forma del contenuto e via discorrendo) s’impone. Più lo scrittore si abbassa a riprodurre le forme e i linguaggi del mondo senza mediazione intellettuale (cioè consapevolezza teorico-critica anzitutto della tradizione e poi della necessità di uno scarto da essa, ma rimanendo su un piano alto di ricerca e di sperimentazione e non adeguandosi alla mancanza di stile dominante o assecondando l’impoverimento linguistico che dilaga), meno ci si avvicina alla capacità che hanno avuto i capolavori della tradizione di restituire il senso di un’epoca.
Apro a caso due scrittori, citati, rispettivamente, da me e da Biondillo: Giuseppe Genna e Tommaso Ottonieri.
Da Italia De Profundis leggo:
Le domande non sono di rito. Non sono anagrafiche. Non concernono le patologie di cui soffriva mio padre. Intendono comporre un ritratto esistenziale dell’appena scomparso Vito Antonio Genna. Sediamo, io e la nana, al tavolo in cucina, uno di fronte all’altro. Gli altri, attaccati con le spalle alle pareti, sono allibiti.
Io, no.
Io sono lo scrittore Giuseppe Genna.
Io sono quello che, in un frangente simile, prende il timone e dirotta la nave verso le spiagge a cui mira.
È la volta di Ottonieri, Le strade che portano al Fucino (altro libro sul “padre” ma un libro declinato alla seconda persona):
Lì, ecco, è la porta.
La cornice bianca della porta.
Il vetro smerigliato, incastrato nella porta.
O forse a sbalzo, bugnato minutamente come nell’uso del tempo.
A nido d’ape: una scacchiera di microcelle tondeggianti infuori, da passarci dei minuti.
E minuti, interi, a carezzarne i tracciati la tramatura liscia il diafano ondulato. La lastra dietro cui non indovinavi che ombre, immobili o oscillanti; e di lui l’ombra oscillante.
Il passo è preso da due capitoli in cui si parla esattamente dello stesso tema.
Devo ancora spiegare cosa voglia dire “sghembo, straniato”?
postilla:
tutti i cretesi sono bugiardi, diceva Epimenide il cretese.
qui si sta perdendo tempo, diceva il tale, perdendone a sua volta.
E’ bello che proprio il 1° settembre, settantesimo anniversario del massimo capolavoro suo e dei suoi accoliti, torni a dire la sua il dottor Goebbels: “Il primo che interviene a parlare di illuminismo, borges e rizomi lo fucilo”; “ci vorrebbe un antiitaliano-antiitaliano che mettesse certi intellettuali-intellettuali […] sulle proprie ginocchia e gli [sic] prendesse a sculaccioni”.
Gilda, ti ricordo la domanda. Quando scrivi: “Una mia affermazione (mia, di critico) si autolegittima nella coerenza del discorso che svolgo, non ha bisogno di essere ‘dimostrata’ nel senso delle scienze sperimentali”, ciò vale anche per quelle tue affermazioni che asseriscano l’esistenza di un fatto empiricamente constatabile?
sono d’accordo con Cortelessa
Ragazzi, è evidente
è evidente
è evidente
che Gilda non ha letto il mio libro.
Procurateglielo.
Poi, se vi interessa un pettegolezzo sul Viareggio di quest’anno (ero candidato) che vale mille polemiche Scurati-Strega, lo vendo al miglior offerente!
“superando refusi, incongruenze, sgrammaticature d’ogni sorta: errori in cui, se avesse studiato, poniamo, con Romano Luperini, l’autore dell’articolo non sarebbe mai incorso, perché il primo insegnamento che si riceve a una scuola di dottorato qualunque, più che mai a quella di Romano Luperini, è la necessità di scrivere correttamente, e, solo in secondo luogo, la possibilità di tentare una scrittura brillante, personale e originale”
Anche se
“La grammatica può anche essere una forza che ostacola lo sviluppo della logica e un’importantissima fonte di confusioni logiche e di pseudoproblemi”. (vedi “La retorica della prosa non-letteraria” in Anatomia della critica di Frye.)
Leggere un obbrobrio come “critici high brows” in un commento scritto da una persona che inizia rimproverando sgrammaticature e refusi all’interlocutore – e prosegue citando letteratura critica anglosassone – è molto divertente.
Per il resto sono d’accordo con le posizioni espresse da Gilda Policastro, specialmente dove scrive “provo a dire qualcosa”.
Non avete il sospetto che passi la voglia di leggere, leggendo articoli come questo?
Adesso che la virulenza della discussione si è spostata altrove, andando persino più in vacca di quanto sia andata qui, mi verrebbe da aggiungere qualche parola sulla figura del «critico militante» così come l’ho personalmente esperita nella mia formazione (nel senso di costruzione di una forma mentis) che, come alcuni sanno, est architettonica.
Il critico militante era un individuo che per SUA formazione si era costruito un’idea di come i suoi contemporanei dovessero fare architettura, che era un’idea tutta linguistica, vale a dire tutta di «stile» (termine che peraltro odiava).
Secondo Zevi compito dell’architetto contemporaneo era quello di scardinare e di stanare, sempre e comunque, ogni forma di compostezza post rinascimentale che eventualmente ancora si annidasse nella propria forma mentis.
Non la faccio lunga ¬– anche se è una questione interessante et molto «novecentesca» e anche se la linea sostenuta da Zevi, non solo gli è sopravvissuta ma ha vinto su tutti i fronti –: accadeva dunque allo Zevi di sperticarsi in elogi di architetture i sé molto difettose, cioè non risolte, non compiute, non riuscite, solo perché gli sembravano andare nella direzione dei suoi convincimenti autonomi di critico e di studioso.
La sua rivista era piena di questi esempi scrausi (talvolta anche di successo, o scioccanti, o «rivoluzionari», ma sostanzialmente scrausi) di un modo zeviano di pensare e produrre edifici e in essa non trovavano posto, né era possibile che ciò accadesse, esempi di architetture orientate in tutta un’altra direzione, ma magari profondamente poetiche (valga per tutti l’esempio di Aldo Rossi).
Era il modo giusto di fare critica?
Di creare scale valoriali (all’apice di quella zeviana si collocava Wright)?
Oppure davano e dicevano di più critici e storici come Tafuri (su tutti) che instancabilmente analizzavano le CONDIZIONI di produzione del progetto come fattori molto importanti per la determinazione dell’esito linguistico, senza prendere partito, ma indicando (non senza errori, certo) gli esempi di raggiunta qualità?
Non dovrebbe il critico tessere instancabilmente la tela dell’analisi, trasmettendo, sia a chi scrive (e in questo ha ragione Policastro: il critico DEVE essere più colto e consapevole di chi produce direttamente scrittura) che a chi legge, le coordinate posizionali, i venti e le correnti e i contesti in cui ci si trova a leggere e a scrivere?
La risposta sembra ovvia, ma non lo è poi tanto.
Used colloquially as a noun or adjective, highbrow is synonymous with intellectual; as an adjective, it also means elite, and generally carries a connotation of high culture. The word draws its metonymy from the pseudoscience of phrenology, and was originally simply a physical descriptor.[1] “Highbrow” can be applied to music, implying most of the classical music tradition and much of post-bebop jazz; to literature, i.e. literary fiction; to films in the arthouse line; and to comedy that requires significant understanding of analogies or references to appreciate. As the former buzzword has lost some currency and sounds slightly passé, its use now gives an impression of mild irony.
e, in tema di differenza di genere, ve n’è tra un commento, scritto a caldo e di slancio, e un post, qual è quello di cui qui si proverebbe a discutere, senza i rumori di fondo, o quello, successivamente esaminato, di Biondillo. yawn (onomatopea per lo sbadiglio tipicamente highbrow: la grafia è incerta).
Polverosa e affascinante.
Beh su questo sono proprio d’accordo e ha ragione:
“Ma la pretesa catalogatoria credo sia la via più infertile: una scelta di campo (la letteratura di grado superiore alla cronaca, al reportage, all’inchiesta, per lingua, stile, contenuto, forma del contenuto e via discorrendo) s’impone. Più lo scrittore si abbassa a riprodurre le forme e i linguaggi del mondo senza mediazione intellettuale (cioè consapevolezza teorico-critica anzitutto della tradizione e poi della necessità di uno scarto da essa, ma rimanendo su un piano alto di ricerca e di sperimentazione e non adeguandosi alla mancanza di stile dominante o assecondando l’impoverimento linguistico che dilaga), meno ci si avvicina alla capacità che hanno avuto i capolavori della tradizione di restituire il senso di un’epoca”.
(OT:
Chiedo scusa preventivamente a tutti per questo mio intervento fuori tema, ma continuo a ricevere messaggi in forma anonima sul mio telefonino: l’invito è a smetterla di scrivere in questo spazio, ripetuto in varie forme. dal momento che non ho modo di replicare in nessun’altra modalità a messaggi mandati attraverso il web, rubo solo un secondo alla discussione per invitare a mia volta l’anonimo disturbatore a cercarsi un’altra occupazione quotidiana, dal momento che non ho nessuna intenzione di smettere di fare ciò che più mi sta a cuore: dialogare.)
Per fortuna la letteratura con tutto questo non ha nulla a che fare.
alcune domande per Gilda Policastro: se ho ben capito lei attende capolavori che restituiscano il senso di un’epoca, immagino questa, che poi vorrei sapere quale sarebbe; ma non saranno comunque generazioni future ad accoglierli? Dal momento che non si vuole essere letti oggi ma prima o poi capiti in futuro appunto, altrimenti il capolavoro quand’è che si manifesta, le sue attese hanno qualche speranza?
Le metafore documento e monumento mi piacciono, ma sono complementari. La sua scelta di campo è comprensibile, quasi autolesionista se posso permettermi, però non capisco una cosa: la maggior parte degli scrittori di genere che vengono pubblicati sanno scrivere bene per chi è felice di leggere, e penso che stiano tracciando oggi dei percorsi, delle mappe di un mondo, di un’epoca. Secondo lei invece saranno gli altri a metterci le firme?
quali autori di musica ascolta e le piacciono, se ci sono?
naturalmente se sono stato impertinente e non le andrà o magari neanche leggerà le mie domande va bene lo stesso.
Gentile Gilda Policastro, in inglese gli aggettivi non prendono mai la ‘s’ del plurale: one highbrow critic, two highbrow critics, ecc. Per questo “critici high brows” resta un obbrobrio anche dopo il copiaincolla da Wikipedia.
Quanto al dialogo, a me sembra, e posso sbagliare, che si possa dialogare soltanto partendo da (e anche difendendo a spada tratta) posizioni diverse su un terreno comune. Se i terreni sono radicalmente diversi — scrittori-scrittori vs. critici-critici — temo che non si possa andare molto oltre il modello indiani vs. cowboy.
Ai critici-critici chiederei, se possibile, uno sguardo il meno possibile straniato e sghembo su quanto gli scrittori-scrittori vanno scrivendo e gli editori-editori pubblicando: un bello sguardo diretto e ravvicinato alla produzione letteraria contemporanea, prendendosi la responsabilità di dire cosa è letteratura di qualità e cosa no, e per quali motivi. Leggere che il Nove di Woobinda è stato l’ultimo shock letterario dagli anni Novanta in qua fa pensare piuttosto a uno sguardo distratto e prevenuto.
Detto questo, e scusandomi per il rumore di fondo, colgo l’occasione per mandare affanculo chi la invita a demordere usando metodi di stampo mafioso.
grazie andrea cortellessa, li e non gli. correggi anche gli altri commenti? Grazie.
Chiedo a Nazione indiana di fare una pubblica dichiarazione di solidarietà, magari in home page, a Gilda Policastro, che ha scritto:
“…continuo a ricevere messaggi in forma anonima sul mio telefonino: l’invito è a smetterla di scrivere in questo spazio, ripetuto in varie forme…”
Io esprimo a Gilda Policastro la mia totale solidarietà.
Aggiungo che mi sento molto lontana dai toni personalistici, esagitati e sovraesposti di questa polemica.
,\\’
Ringrazio sinceramente Gilda Policastro per aver speso parte del suo tempo per leggere e commentare il primo dei miei link.
Trovo semplicemente ignobile che qualcuno si permetta di comportarsi in un modo odioso (e idiota) mandando anonimi messaggi sul suo cellulare. Anche la mia solidarietà a Gilda Policastro è totale. Così come sono certo lo sia quella di tutti i redattori di NI.
Laddove occorresse sono pronto a proporre la chiusura di questi commenti e anche di quelli degli altri post.
La chiusura dei commenti rischierebbe di fare il gioco di chi sta cercando di intimidire Gilda Policastro, perché le impedirebbe di continuare a discutere.
io penso che tutto questo sia imbarazzante.
che passare dalle parole alle persone, come ho già detto, porti per forza a trascendere e a trasmigrare dalle argomentazioni contro, alle minacce personali. mi sento personalmente responsabile (solo nei confronti di Gilda Policastro) per aver postato questo pezzo dal quale è scaturita QUALSIASI cosa che NON aveva a che fare con il contenuto.
a fortiori i commenti sono chiusi da adesso.