Le stalle fetide [Eracle #6]
E si potrebbe pensare alle stalle
come a una città massicciamente visitata dalla morte,
e che Eracle venisse a insegnare le pratiche di sepoltura.
di Ginevra Bompiani
Si sa che le vacche appartengono al padrone dei campi, il sole. Sue erano quelle che gli rubò Ermes: sue quelle con cui banchettarono sacrilegamente i compagni di Odisseo. Ma di sole non ce n’è uno, ce ne sono tre: sole nascente, sole a picco e sole morente.
Queste appartenevano al terzo padrone, il tramonto. E se il sole ha sempre a che fare con la morte, quello ne è addirittura il complice. È un sole al confine, e la tristezza dei suoi raggi è probabilmente dovuta al loro avanzare piatti, rasoterra, anziché in piedi come i vivi. Questi raggi, caldi e rossi e ombrosi, crescevano le vacche dell’Elide e arricchivano la terra dei loro frutti di vita e di morte, latte e sterco.
Com’era accaduto che a un tratto l’equilibrio si fosse spezzato e i frutti putridi avessero tanto sopravanzato quelli freschi? E che le stalle si fossero a tal punto riempite di letame da appestare tutta la regione? Verrebbe da pensare alla città di Tebe e a quei corpi che imputridivano nelle strade e nei campi per l’ordine di Creonte di non dargli sepoltura. Ordine che Antigone disubbidì. Si trattava in qualche modo dello stesso fenomeno: non della morte ma della sua esposizione. E sembrava – come quando una rovina si contempla per anni senza vederla e di colpo appare in tutta la sua miseria – che all’improvviso sul capo di Eracle fosse caduto l’ordine perentorio: “che su questo scempio non cali il sole!”
Infatti per far sparire quel che si era accumulato in anni e anni, a Eracle fu concesso un giorno – ritmo solare. Comando assurdo, dettato dal desiderio di vederlo fallire? Oppure dall’orgasmo di chi si trova davanti a una catastrofe quasi non più rimediabile? A inclinare per la seconda ipotesi induce il fatto che a quell’impresa tenesse tanto Augia, re dell’Elide e usufruttuario delle stalle sudice, che Euristeo, tiranno di Eracle. Eracle intuì l’unica possibile soluzione: abattè le pareti esterne dell’edificio e vi deviò l’acqua di uno dei due fiumi.
Così l’acqua lavò e purificò i luoghi trascinando gli escrementi nel suo letto. Ma non si può dimenticare che il letame non rappresenta solo putrefazione, ma ricchezza: e questo sia per il suo valore reale di concime, che per il colore dorato, che il sole accende coi suoi riflessi. Due forme di ricchezza discendevano perciò dalle mandrie solari: una diretta alla vita l’altra alla morte. E l’odore, questa spia della morte, aveva avvertito che la frontiera era stata travalicata e un campo invaso dall’altro.
Che ricchezza ci fosse lo dice anche la pretesa di Eracle a una ricompensa da parte di Augia: terra o moglie che fosse. Ed è ovvio pensare che l’acqua, distribuendo nella campagna il letame, l’ingrassasse di concime e la rendesse più fertile.
Ma di una faccenda così grossolana non si sarebbe imbarazzato Eracle, se la fertilità della terra non avesse riguardato da vicino gli dei, che la dispensavano in ricompensa ai sacrifici.
Come sempre, sotto al quotidiano strisciava il sacro: la purificazione dietro la pulizia, la pietà dietro alla sepoltura. Ma seppellire prima del calare del sole si faceva coi morti in battaglia. La loro esposizione oltre quel termine era un delitto perché impediva alla anime di diventare, di entrare cioè nella condizione che gli spettava.
E gli escrementi che altro sono se non qualcosa che deve passare dall’interno del corpo all’interno della terra? E che solo così diventa ricchezza? L’esposizione dell’escremento è perciò sacrilega: turba un ordine e impedisce una metamorfosi. L’esposizione tratteneva qualcosa in uno stato intermedio e dunque impuro. L’acqua, abituale scrigno di segreti, doveva porvi rimedio.
Pare di nuovo di assistere alla discussione tra Antigone e Creonte sulla bontà rispettiva delle due leggi: quella dell’esposizione e quella della sepoltura: lo scoperto e il segreto. Creonte opponeva una legge umana a quella divina. Così come le stalle, offrivano un tesoro fittizio – il letame dorato – al posto di un tesoro reale: il concime.
E si potrebbe pensare alle stalle come a una città massicciamente visitata dalla morte, e che Eracle venisse a insegnare le pratiche di sepoltura. A insegnare cioè agli uomini quello che finora avevano incaricato lui di fare: nascondere la vista della morte, per permettere a ciascuno di continuare il suo giorno.
[Questo è il sesto di tredici racconti sulle dodici fatiche di Eracle e resto. E per dare altri numeri Le stalle fetide è incluso in una raccolta intitolata Le specie del sonno uscita nel millenovecentosettantacinque per i tipi di Franco Maria Ricci e riedita da Quodlibet nel millenovecentonovantotto. Nella prefazione Italo Calvino ha scritto Per i miti una prima volta non c’è mai stata; o ogni geroglifico si sovrappone la storia delle sue decifrazioni; è così che nel nostro confronto col mito, sia la sua immagine che la nostra immagine si moltiplicano come in una stanza foderata di specchi. E specchio sia, anche NI. L’opera in apice è di Piero Manzoni. La prima fatica di Eracle è qui, la seconda qui, la terza qui, la quarta qui, la quinta qui.
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La prima volta che mi hanno insegnato la morte avevo quattro anni e ne sarebbero passato altri prima di vederla in un corpo di famiglia. Il letto vuoto allora mi sembrò uno scandalo: se la morte era un sonno, perché mai mio zio non poteva continuare a dormire nel suo letto? Dov’era mai la giustizia di questo cielo se per arrivarci dovevi chiudere gli occhi alla famiglia e alla mia voce che chiamava? Avevo molto da imparare. Bisognava capire in fondo, ma forse aveva ragione Canetti quando scriveva “perché andare in fondo?ci sono tante cose in mezzo.” E in mezzo c’era molto, c’era la pietà. Sarebbero passati anni ancora prima di avere le idee più chiare sul sonno, sul cielo e le sue giustizie, sulla pietà d’una sottrazione e il candore testardo dei bambini. Poi un giorno ho letto L’Antigone di Sofocle: ero cresciuta abbastanza da accostarmi al greco antico e da giudicare. In quel caso Creonte mi sembrò un sovrano che conserva una scintilla di puntiglio infantile ben nascosto sotto la ragion di stato, la legittimità delle leggi scritte contro quelle dogmatiche degli dei, e la preferenza data allo Stato sul “ghenos (la famiglia, la stirpe)”. Oggi ho ripensato a tutto questo. E mentre Eracle “insegnava agli uomini la sepoltura”, ho rivisto Antigone che cosparge Polinice di polvere e intona per lui il compianto negato, e le due pietà mi sono sembrate gemelle. Confesso di non averci mai pensato prima di questo racconto. Si cresce forse per diventare forti abbastanza da sopportare un’assenza e la loro somma. Per ripetere il gesto di Eracle ogni volta che la morte fa un passo avanti.
P.S. trovo che il finale sia splendido. Ma non solo lì si è impigliata la bellezza…
sarebbe bello se riimparassimo a seppellire i morti invece che chiuderli a non diventare terra e sterco e pianta in quelle oscene librerie dove vai a ricordare guardando el terzo piano seconda file mentre la tua vicina deve fino al sesto ordine salire e in bare tanto rinforzate da sfidare ogni trasformazione finalmente in lombrico.
l’ostensione del corpo.
l’ostensione della bellezza.
l’ostensione della perdita.
e la benedizione della letteratura.
oggi mi sento così.
a “nascondere la vista della morte, per permettere a ciascuno di continuare il suo giorno”
[…] prima fatica di Eracle è qui, la seconda qui, la terza qui, la quarta qui, la quinta qui, la sesta qui. Questo articolo è stato scritto da chiara valerio, e pubblicato il 30 Agosto 2009 alle 10:00, […]