IL SOGNO DI EVADERE TUTTO

[Questi frammenti critici sono tratti dal volume: Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance, a cura e con un saggio di Cecilia Minciacchi Bello, introduzione di Niva Lorenzini, con illustrazioni in b/n, antologia multimediale in dvd a cura di Daniela Rossi e con la partecipazione straordinaria di Paolo Fresu, Firenze, Le Lettere, Collana “Fuori Formato”, 2009].

di Cecilia Bello Minciacchi

per creare dei fuochi che durino, visibili anche in lontananza
Patrizia Vicinelli

In qualche rara immagine di letture o incontri del Gruppo 63 Patrizia Vicinelli è ritratta con un tubino nero e un filo di perle: è il 1967, lei siede con eleganza accanto a Giorgio Celli intento a leggere Il parafossile . Di famiglia borghese, di buone letture e buoni studi, Patrizia Vicinelli, non ancora ventitreenne, al convegno di La Spezia del giugno 1966 aveva letto i suoi testi e stupito l’uditorio, meritando, per le sue doti vocali e interpretative, le lodi immediate e spassionate di Cathy Berberian. Il suo impatto sugli ascoltatori è stato forte fin dalle sue primissime prove pubbliche e quell’energia, quell’intensità comunicativa dimostrate agli esordi non cesseranno mai, negli anni successivi, di caratterizzarne scrittura e performance. Nel giro di poco il bon ton del filo di perle scompare, tanto da essere per noi, oggi, una curiosità iconografica: l’immagine fisica di Patrizia Vicinelli sarà poi legata, piuttosto, a esperienze di cinema underground, a letture di testi poetici in cui non erano certo né la misura né l’aurea medietà a dominare, e neppure il rispetto delle convenzioni o il risparmio di sé.

Eccola, allora, sempre diretta, mai schermata, col volto e il collo totalmente esposti dai capelli cortissimi e biondi, con gli zigomi alti che sembrano scolpiti e la pelle segnata dalle cicatrici di un incidente d’auto in cui, per proteggere la figlia Anastasia poco più che neonata, non si era riparata il viso con le mani. Corpo e parola poetica per Patrizia Vicinelli erano non solo complementari ma inscindibili. Entrambi portatori, testimoni di esperienze biografiche filtrate, sì, ma molto intense. Al corpo silenzioso poteva essere affidata anche l’eco di versi non detti: in una sequenza di La Nott’e ’l Giorno (1973-’76) Gianni Castagnoli riprende lentamente Patrizia che fuma stando seduta, in silenzio; ne riprende il corpo dal piede alla testa, con inquadrature che insistono sui dettagli – occhio, fronte, braccia, dita – e la mostrano a poco a poco, per frammenti, come per frammenti aveva inquadrato alcuni riflessi della Gioconda su pezzi di specchio. Tanto in questa suggestiva sequenza quanto nelle letture poetiche il corpo di Patrizia è da intendersi come mezzo e come stendardo dell’esperienza. Di un’esperienza da comunicare attraverso una triplice contemporanea mediazione fisica: della parola, della pura voce, del gesto. In effetti si trattava, per lei, di comunicare oltre che di esprimere. L’effusione dell’io non poteva interessarla, la interessava invece una capacità di coinvolgere che la portasse «al cuore degli uomini», che instaurasse una condivisione: «Più che la parola è il suono la radice dell’essere. È anche un concetto filosofico. Non è importante ciò che il poeta pensa ma ciò che dice e che fa. La persona è tutt’uno con l’opera e non è possibile essere dei grandi creativi se non si vive creativamente rischiando. I grandi – Artaud Genet Alighieri – hanno avuto una vita dolorosa e in qualche modo epica avendo alla base un bisogno di eticità. È verità assoluta da portare agli uomini che ne valuteranno l’autenticità. […] Solo l’energia e la forza del poeta con la lettura delle sue opere possono andare al cuore degli uomini» . In queste dichiarazioni compaiono alcuni dei suoi convincimenti basilari: importanza del suono (fino ai singoli costitutivi fonetici delle parole); unione di parola e azione (oralità e gestualità); identità tra autore e opera (vita e scrittura in rapporto di reciprocità); legame tra rischio esistenziale e bisogno di eticità (dolore e autenticità); necessità di energia comunicativa. Il profilo che se ne ricava, ammettendo alcuni tratti eroici in odore di romanticismo, è quello di un autore che teoricamente lega e non teme di compromettere insieme, in un nucleo coerente, biografia, scrittura e comunicazione diretta.
[…]
Su «questa coscienza dell’essere e conoscenza del mondo» sembra fondata l’opera forse maggiore di Patrizia Vicinelli, l’unica opera da lei edita in vita in volume, Non sempre ricordano. Poema epico.
[…]
Del suo «poema epico» Patrizia diede qualche anticipazione a stampa in periodici e in antologie – in Poesia degli anni settanta Antonio Porta incluse H. is my life – ma soprattutto diede letture pubbliche e performance. Quando poi Patrizia Vicinelli rinunciò alla parte visiva e policroma compresa nei tazebao, troppo complicata e dispendiosa da riprodurre, e pubblicò il testo in volume, l’opera si presentò subito come marcata deviazione rispetto al panorama poetico coevo. Nanni Balestrini parlò di «spezzone incandescente» che si imponeva sulle grigie sedimentazioni della poesia dei primi anni ’80, parlò di «poesia del dissenso, della rottura, dell’innovazione» e la definì un «ottimo antidoto» contro la normalizzazione. Francesco Leonetti, che ne scrisse la prefazione, aprì i giochi convocando senza mezzi termini Dino Campana a raccordare i «canti struggenti e selvaggi di Patrizia» con certi espressionisti italiani, in particolare vociani. Anni più tardi, anche Guido Guglielmi, in accordo con Leonetti, parlò di Campana e di espressionismo soprattutto per la dimensione del viaggio e per la relazione io-mondo: «Potremmo parlare di illuminazione; o di comunicazione di esistenza. […] Per la Vicinelli la manifestazione del mondo coincide con la manifestazione di sé. Il viaggio nel mondo è un viaggio nella mente; e viceversa» . In uno scritto dedicato a Chagall e Campana appena rinvenuto fra gli inediti – Su Marc Chagall, in contemporanea a Dino Campana. O il misfatto dell’essere –, una sorta di cortocircuito interpretativo sui due artisti, Patrizia Vicinelli parla di «effluvio di un inconscio imploso», di «memoria anamnestica». In entrambi, Chagall e Campana, la questione basilare riguarda la conoscenza delle cose e di sé, attinta per via privilegiata attraverso l’affioramento dei sogni e le proiezioni artistiche “eccedenti” rispetto alla norma. In uno stile acceso, esso stesso ai limiti del visionario, Patrizia scriveva: «Per entrambi la notte è la grande profondità in cui cercare, scorgere fiamme nell’onirico, esserne presi o prigionieri, in ogni caso è di conoscenza che parlano, le immagini del mondo in parallelo, il misterioso l’istigato dal desiderio viene rivelato». Ed è la stessa Patrizia, poco oltre, a parlare di viaggio sia per Chagall che per Campana: «punto più oscuro del viaggio dentro la propria luce e l’ombra, che in punti eccelsi si fondono in Chagall, e sfumano ai limiti di un eremo immerso nella nebbia alla fine del percorso, in Dino». La dinamica che più le interessa è proprio quella che si istituisce tra l’io e le cose, quella attinta per forza di indagini oniriche e visioni trascorrenti ma palpabili.

Nella sua interpretazione di Non sempre ricordano, Guglielmi molto insisteva, e con ragione, sul rapporto con le cose: «la Vicinelli si incontra, incontrando la fisicità delle cose. L’apertura al mondo è apertura su se stessa. Difficilmente potremmo isolare la voce di chi parla dal mondo frammentato di cui parla. Le circostanze dell’io fanno parte della sua costituzione: lo invadono, gli lasciano tracce e ustioni, trapassano il linguaggio. L’io non è che un’occasione per le cose di rivelarsi, e questa rivelazione è tutto il loro senso».

Oltre a Campana, che pur agendo come suggestione importante – non ultimo movente la compresenza di lirismo e di desublimazione – non basta però a spiegare tutti i meccanismi compositivi del poema epico, occorre chiamare in causa altri autori di autentico snodo: l’«amico re» Emilio Villa, e poi Eliot e Pound, e insieme D’Annunzio che lei molto amava per l’opulenza delle immagini e della lingua, unitamente alla lezione sperimentale dei Novissimi. A queste componenti letterarie Patrizia aggiungeva il suo naturale virtuosismo nell’uso dei toni, nel riuscire a “reggere” con la voce (nel duplice senso dell’emissione sonora e della voce poetica) flussi ininterrotti eppure spezzati, bagliori della memoria privata, frammenti di esperienze altrui, datità fenomenica basilare e funambolici salti immaginativi.

La sostanza del poema epico è tutta oggettiva, materica, e giustamente e dichiaratamente narrativa; pone in questione l’io, ne prende le distanze, ma a tratti lo avvicina e lo trapassa con lampi folgoranti, con immersioni a capofitto nell’universo psichico privato. Il carattere primario del libro rimane quello del suo incedere narrativo, non continuo, beninteso, né appagante come una pura storia, ma tuttavia innegabilmente narrativo, e coinvolgente. Questa poesia è piena di cose, di fatti, di fatti rivelati nell’io, per tornare a Guglielmi. Eventi inquadrati da tagli obliqui, dettagli messi di colpo in luce nitida e intensa, sequenze narrative disarticolate tra loro ma in sé compatte, giustapposte o fluenti l’una sull’altra. I toni mutano: all’empito eroico e al tono irrevocabile delle sequenze iniziali, aperte in levare dal fragore del tuono – «TUONAVANO» – e dall’annuncio di un «ULTIMO VIAGGIO» e di «un’avventura con la morte», rispondono contrastivamente sezioni più crude e quotidiane: i morti necessari a finire in prima pagina – «CI VOGLIONO / DEI MORTI STIRATI AMMAZZATI» –, il ragazzo che infila «i suoi tozzi ditoni nei buchetti bianco-grigi / dell’apparecchio telefonico», e il «sergente / del 113» e subito «la prima pattuglia VOLANTE / avvertita per radio».
[…]

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5 Commenti

  1. Chissà perché, tra tutte, l’ opera della Vicinelli è sempre risultata ostica, respingente, se ne avesse dimestichezza oppure no, voglio dire che, sovente, mi è capitato di difenderla anche da chi non mi sarei aspettata: audace ma sterile, ambiziosa al punto da scegliersi maestri a lei infinitamnete superiori, nessuna originalità ma mero epigonismo..e tanto tanto altro che non le rende giustizia. bersaglio preferito è il suo lavoro sul suono disarticolato che si può o meno apprezzare o sforzarsi piuttosto che rinunciare del tutto a comprendere, e finire per ignorare, a patto però di ammettere quanto mutata ne sia la ricezione, isolata, di un esperimento che non si sa bene come classificare rispetto allo stesso, appena appena contestualizzato, vuoi in una cornice terorica vuoi cinematografica, come in Transfert per Camera di Alberto Grifi (disponibile in rete solo un anno fa, ora non più, purtroppo http://www.youtube.com/view_play_list?p=C23B47AB2E1398F8). detto questo, però, ricordo perfettamente che la mia stessa reazione ad una prima lettura delle sue opere non fu delle più pacifiche, combattuta tra attrazione e ripulsa, ingaggiai un corpo a corpo personale per darne una lettura delle più ingenue, parziali, assolutamente incompetente, dettata solo dalla mia incoscienza, ma che può dare la misura della difficoltà di un puro esercizio di lettura, di quanto sia complicato il mondo poetico delle Vicinelli e di come sia altrettanto complicato entrare in contatto con quel mondo, nonostante la sua insistita, assidua, molteplice, plurima, disperata richiesta o ricerca di contatto.
    http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article412

    ad ogni modo, mi scuso per la rudimentalità dei miei strumenti.
    fortunatamente oggi ho abbandonato del tutto certe velleità, che riporto qui solo come testimonianza di una difficoltà che fu anche, prima di tutto, inizialmente la mia e ringrazio invece i veri critici come Cecilia Bello o Niva Lorenzini per il loro prezioso contributo.

  2. – Frammenti di un’intervista, in parte pubblicata su un giornaletto locale,
    nel marzo 1987 –

    “… Più che la parola è il suono la radice dell’essere. Non è importante ciò che il poeta pensa, ma ciò che dice e fa. La persona è tutt’uno con l’opera. Non è possibile essere dei grandi creativi se non vivi creativamente rischiando. Dante, Artaud, Genet hanno avuto una vita difficile, dolorosa e in quache modo epica, avendo alla base un bisogno di eticità. La parola è verità assoluta da portare agli uomini che ne valuteranno l’autenticità…

    “… Quando Pound leggeva le sue cose c’era una tale tensione, pur non comprendendo i testi si veniva coinvolti emotivamente, a livello profondo, di coscienza. Questo stesso dono lo possedeva anche Ungaretti… ”

    “… Il Gruppo ’63 come movimento è chiuso definitivamente. Già nel 1967 molti scrittori smisero di scrivere, scegliendo un’attività di tipo politico, eravamo già nel ’68, oppure di meditazione, per quanto riguarda la scrittura. Fino al 1975 non è stato prodotto alcunché di nuovo, nemmeno Sanguineti né Pagliarani hanno pubblicato cose decenti…”

    “…10 mesi di galera in seguito al processo Braibanti. Fino all’80 ero “incastrata”.
    Ricorderai certamente il processo a Braibanti, in un clima liberticida, da caccia alle streghe, il “diverso” di qualsiasi specie è sempre stato perseguitato dal potere, fui arrestata nell’aprile 1968, qualche mese dopo la cattura di Aldo Braibanti e poi… una latitanza durata circa 11 anni, in Marocco, ma la storia sarebbe troppo lunga e complessa…

    A Tangeri incontrai Vittorio Reta che venne apposta per conoscermi, era timido, introverso, con frequenti crisi depressive, lessi le sue poesie, mi sembravano un po’ immature, “grezze” ( ammetto di essere stata allora un po’ rigida), riscrisse ben tre volte il manoscritto e poi… Nanni Balestrini lo pubblicò nel 1976 da Feltrinelli con il titolo: “Visas”, cioè visti, passaporti, ma anche cose viste. Mi dedicò il libro, ma dopo qualche mese, come ben sai, Vittorio si ammazzò con un colpo di pistola in bocca. Era nato nel 1947, aveva problemi esistenziali con la famiglia, mi telefonò due giorni prima… ero a letto, febbricitante”.

    “… Per quanto riguarda i contemporanei non amo Antonio Porta, Roberto Roversi, Andrea Zanzotto, tanto per fare qualche nome; pur essendo famosi non li considero degni della fama di cui godono…

    “… Preferisco Emilio Villa, Edoardo Cacciatore, Nanni Balestrini, Amelia Rosselli, Giulia Niccolai ed anche Gian Pio Torricelli, anche se da tempo non scrive più, con lui sperimentai poesia fonetica (eravamo i primi), Giangiacomo Feltrinelli ci spronò a leggere in giro e così venne fuori il primo disco. Attualmente Torricelli vive, ignorato, a Modena”.

    “… Questo proliferare di letture, festival, etc. da un lato è stato come se la poesia si affermasse come arte sublime, rendendola popolare, a livello di massa, si è un po’ dequalificata. Ci vuole più rigore, è prematuro il tempo della poesia per tutti, anche perché nelle scuole viene fatto di tutto, da parte degli insegnanti impreparati, perché i ragazzi odino la poesia.. Tanta gente, oggi, si improvvisa poeta, non è un fatto di scrittura essere poeta, ma forse esperienza di una certa qualità. Se riesci a sopravvivere a un tipo di esperienze che la gente non ha il coraggio di fare e se dopo tutto questo hai qualità linguistiche e creative che te lo permettono, ossia la tua cultura si può esprimere attraverso il linguaggio, sei un poeta. Non è dato a tutti. E’ come un destino, difficile da accettare. Quando lo accetti comincia la tua storia di poeta…
    Bisogna passare attraverso la poesia per arrivare ad essere uomini e vivere sempre, con tutte le proprie forze…”

    “… Nel riflusso attuale, in questi momenti il poeta riesce ad esprimersi al meglio perché la funzione del poeta è quella d’interpretare il proprio tempo e lo fa sempre con un certo anticipo sui tempi reali. In un momento così chiuso creativamente i poeti autentici riescono a vedere i germi che questo porta. Il poeta in parte “fa” il mondo, aiuta gli altri a diventare persona, a prendere coscienza di se stessa e in questo senso ha un ruolo sociale importante…”

    “… Certamente non un poeta aulico, cantore infelice alla Leopardi, è irreale, non è più questo concetto retrivo, riduttivo, pieno di sé e dei suoi dolori… E’ più attuale come figurazione del poeta il maudit alla Baudelaire, Rimbaud e Lautréamont, o guerriero come Omero, mi sta bene anche Dante; amo i poeti che stanno dentro il mondo, che riescono a sperimentare i conflitti, sia nei problemi “assoluti” che in quelli contingenti…”

    “… Nell’80 “Messmer”, un romanzo fiume, con un linguaggio violento e un ritmo molto sostenuto, ambientato in una non troppo lontana III guerra mondiale; la storia di una donna che cerca la propria coscienza, ancora in progress. 10 capitoli ognuno 10 cartelle. Attraversare il mondo dentro le manifestazioni di buio e di luce…

    “… Il poeta crepa letteralmente di fame… Non scrivendo canzonette attiriamo soltanto chi vuole un po’ di cultura… Dal 15 marzo su alcune tv commerciali ci sarà questo filmato in cui leggo una poesia futurista, in calzamaglia, per reclamizzare i prodotti sanitari della ‘Tenax’. lo scorso anno era toccato ad Arrigo Lora Totino… eravamo i più adatti…

    … Sto lavorando in questi giorni, alla stesura di quattro quartetti con un titolo collettivo: ‘I fondamenti dell’essere’, divisi in: 1) Il Cavaliere di Graal; 2) Tempo di Saturno; 3) Eros e Thanatos; 4) Up and down.
    A proposito dei “Fondamenti”, Gianni Castagnoli curerà la direzione artistica per uno spettacolo tratto da quest’opera che verrà dato nella Chiesa di San Carpoforo, a Milano, il 4 aprile, con musiche di Giusepe Chiari…
    E poi mi piacebbe leggere le mie poesie nella tua isola, non ci sono mai stata e conto di venirci al più presto…”.

    – Bologna, Via Siepelunga 22 – 9 febbraio 1997
    Pat risponde ad alcune domande di Giorgio Di Costanzo

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