Cono d’onda
di Lorenzo Esposito
Direi che, come si presenta attualmente, esso è un lampo fissato nel suo bagliore, un’onda pietrificata mentre si frange sulla riva.
(J. W. Goethe, Sul Laocoonte, 1798)
Ecco qualcosa di ineliminabile: il divario fra l’immagine e la sua comunicazione, fra la comunicazione e la sua immagine. “Quale comunicazione, scriveva Guy Debord, si è desiderata, o conosciuta, o soltanto simulata?”, concludendo poco più avanti: “L’infanzia? Ma è qui; non ne siamo mai usciti”. L’uscir fuori dalla forma, da tutte le formalità della visione, proprio a partire da una forma mai vista prima, è il sogno già realizzato e mai abbastanza compreso di Walt Disney. Eppure: cosa viene prima, il sogno della metamorfosi o il lapsus del fotogramma che la procura, l’adulto o il bambino? Méliès, che se lo è chiesto per tutta la vita, alla fine cercò una risposta sulla Luna… L’animazione costituisce il velo che continuamente si posa e si solleva fra i due regni, ne è il profilo tragicamente irrin-tracciabile, il documento della torsione continua del suo impossibile, il sintomo stesso della creazione che nasce dalla e nella crisi delle forme.
Non a caso l’automatico giudizio ‘adulto’ davanti a un film d’animazione riguarda le fattezze del disegno. Quanto più semplificato, disincarnato, come per esempio nell’ultimo Ponyo di Miyazaki Hayao, tanto più percepito come non completamente riuscito. Tuttavia è probabile che per il film (d’animazione), le uniche categorie da evitare siano quelle del bello e del brutto. Di fronte a questa linea dinamica, a questa eterna incerta traccia di mano infantile, bisognerebbe invece fare il conto delle attrazioni e delle dispersioni, delle impurità e delle fragilità, delle emersioni e degli addensamenti.
Visitando in Giappone la stanza di lavoro di Miyazaki allestita allo Studio Ghibli, ancor prima delle successioni visive che portano alla creazione dei personaggi, colpiscono dei quadernoni a tema nei quali è raccolto un gigantesco inventario geo-etnografico: fotografie e riproduzioni grafiche di luoghi, paesaggi, uccelli, corsi d’acqua, piccoli agglomerati urbani e portuali, valli, foreste, piante, ponti sospesi sul vuoto, gallerie (a questo proposito un’amica della zona mi fa notare come il taglio costiero e portuale in cui si svolge Ponyo assomigli moltissimo a quello ligure, di cui Miyazaki si era detto affascinato dopo un viaggio in Italia). Non il disegno, ma la punteggiatura sognata del mondo che lo precede e lo attende. Non la precisione delle fattezze, la restituzione oltre-umana del cartoon, ma la materia plastica delle cose, la combustione spontanea che le pone in attesa della metamorfosi. Il tratto la piega il lembo di una posizione immaginaria disposta sempre a mutarsi. Qui ha vita quel processo di riconoscimento della distanza, che in un film d’animazione fa ridere un bambino e piangere un adulto. Correndo paralleli sui binari di una stessa rotaia, entrambi percepiscono la frattura e lo smarrimento di una forma che per esistere si deve perdere, che letteralmente sopravvive eccedendosi. E allora si ride: troppo emozionante la girandola di intrecci fantastici; e si piange: quel momento è già passato e forse non verrà più. Così, superato l’olimpico intreccio che nei film precedenti riusciva a fare dei brevi apporti digitali quasi un effetto subliminale, in Ponyo è come se Miyazaki avesse posato nella mano di un bambino dei pastelli e il film ne diventasse il gioco atmosferico e cutaneo: minuscolo, emotivo, tenero, morbidamente grinzoso come la mano d’infante che prova i colori.
È una questione di resistenza delle tracce e di pura intensità del gesto. Resiste il gorgo invisibile di memorie perdute, che ora si possono solo animare, fantasmi guizzanti in cerca dei loro corpi. Si intensifica la storia minerale di tutte le immagini, il doppio fondo duttile e sismico che d’improvviso può rovesciare su se stesso l’altro fondale che è il mondo (viene in mente la danza engrammatica delle immagini come fossili di Aby Warburg. Non a caso nel mondo sommerso di Ponyo compaiono, come permanenze che risalgono la corrente, pesci preistorici. Per inciso, conviene accennare qui alla vicinanza fra i diari grafici di Miyazaki e gli atlanti aperti di Warburg, storyboard insieme aneddotici e universali del mondo, di quella storia geologica delle immagini ancora tutta da scrivere). Il tratto grafico mutante di nome Ponyo è talmente inatteso al mondo, da costringerlo a inabissarsi e arrestarsi nel cono d’onda, che mentre si pietrifica già si scaglia contro il cielo fin quasi a toccare la Luna. Non c’è posizione di partenza, non c’è arrivo, c’è l’incertezza assoluta dell’attimo congelato in cui tuttavia ogni cosa preme per fuoriuscire (la pesciolina vuole denti mani piedi, ma è l’infezione del sangue umano a provocare la mutazione!). Non più solo, come sempre in Miyazaki, la catastrofe in sé, ma il presentimento di un male che si avvicina, il terrore e la pietas di quando si riconoscono i segni di una sofferenza lontana che riemerge dagli abissi (è forse di questo che parlano nel loro dialogo silenzioso le due madri – la madre-terra e la madre terrestre – di spalle, sul bordo placentare di una bolla d’acqua, mentre l’una affida all’altra la propria figlia).
Per far questo è necessario essere semplici, così come è semplice e terribile ciò che incarna il disegno animato: il nudo passare da uno stato all’altro, una gigantesca erosione la cui fecondità sta proprio nell’informità raggiunta. E al limite far scambiare tanta malinconica lucidità per un’operina in tono minore (per quanto sublime), come da più parti è stato detto. Ma Miyazaki è minore come lo sono gli ultimi de Oliveira o Eastwood, o come poteva esserlo l’ultimo Rossellini (ma è così evidente, all’inizio di Ponyo, la fantasia sottomarina..) o ancora, per dirla tutta, nel modo in cui Deleuze parla di Kafka. Capace cioè di “trascinare lentamente, progressivamente, la lingua nel deserto”, essere “nella propria lingua come uno straniero”, rendere inapparente il linguaggio e impersonale la macchina, essere non l’onda, ma il punto in cui va a infrangersi, oppure le radici del seme sottoterra, che già diramano spezzando e soprendendo la forma stessa, tali che il contenuto “sarà necessariamente in rottura con l’ordine delle cose”. Oltre l’animazione, il suo unico assillo è il che fare della memoria, cioè lo spostamento continuo di se stessi all’incrocio dei conflitti (magari solo, come ha ulteriormente dichiarato, per avere una favola in più da raccontare alla madre nell’aldilà). Per chi al contrario ci vede solo disegni riusciti male e impacci narrativi, meglio chiudere ancora con Goethe: “Quando un’opera d’arte figurativa deve veramente animarsi davanti agli occhi, bisogna cogliere un momento di passaggio: un attimo prima, nessuna parte dell’insieme deve essersi trovata in questa posizione, un attimo dopo, ogni parte dev’essere costretta ad abbandonarla. L’opera in tal modo rivivrà ogni volta per milioni di spettatori”.
Che bel pezzo porcapaletta.. poetico e figurativo!.. sigh!.. non mi riuscirà mai di scrivere così, son troppo grezzo.. bello, bello, bello
Magnifica analisi. Apre la porta dell’infanzia, il lettore si tiene sulla soglia come un bambino. Poi è preso del sentimento della bellezza, è immerso nella lingua che fa apparire la luna di luce fantastica, il mare con raggi blu soprannaturali.
Vedere un film di Miyasaki è salire nello spazio dei sogni, provare il viaggio, essere creatura alla scoperta dell universo, marino, piccolo nel suo scafandro, spalancare gli occhi.
Amo molto l’ultima immagine della donna con il secchio, si vede nel fondo
l’embrione del suo bambino immaginario, porta il secchio, in gravidanza.
Grazie per questo splendide post.
Ciao Lorenzo, bellissima analisi dal punto di vista dell’immagine animata, ma vorrei aggiungere che la cosa più “esplosiva” di Ponyo, per me, è stata vedere in atto la capacità di narrare “alla pari” di un bambino di quattro anni.
Il tema delle età dell’infanzia e della giovinezza (ma più in generale, delle età dell’umanità se non ci limitiamo all’amore di HM per i protagonisti giovanissimi) è sempre molto sentito. Ma mai come questa volta io ho sentito Miyazaki fare funambolismi per limitare l’adultità dell’opera.
Brani di discorso scientifico usati quasi come formule magiche, piani e “problemi” degli adulti appena accennati, la tranquillità da parte degli adulti nell’accettare la magia in azione. Tutto come fosse un film (particolarmente articolato e coerente) nato nella testa di un bimb@ di quattro anni, come il racconto di un suo sogno.
Quando ho visto il libro con le immagini del film avrei voluto prenderlo, ma la narrazione adulta della prima pagina ha spezzato l’incantesimo. Il libro è rimasto lì.
Non sono d’accordo solo su una cosa di questo bel pezzo di Lorenzo Esposito. Quando dice: “Tuttavia è probabile che per il film (d’animazione), le uniche categorie da evitare siano quelle del bello e del brutto”
Cazzate. Ponyo è bello. Un vero gioiello, e ‘sti cazzi a chi “legge” i film al posto di guardarli (e perciò non li capisce). ;-)
Molto intensa la fascinazione per ciò che “anima” l’ animazione, meno nel circostante mi trovo ad apprezzare Ponyo in particolare. Sono sempre stato un grandissimo estimatore di Miyazaki, ma quest’ ultimo lavoro è poco più di un’ esercizio. Chi ha visto Laputa, Mononoke e la Città Incantata sa che il “nostro” è capace di ben altro.
Come diceva di lui Kurosawa, “Hayao non è un disegnatore. Non è neanche un regista. Hayao è un poeta”.
(A Gianni Biondillo non voglio ovviamente contestare il gusto; ma Ponyo è un film che Miyazaki aveva già fatto un paio di volte).
Woland, è che sono un estimatore di Myazaki e riesco a trovare il suo universo narrativo sempre “fuori fase” rispetto alla norma. Questo mi affascina, anche con opere meno clamorose (per clamorose intendo “La città incantata” per dire). Gli stati d’inquietudine che mi ha dato Ponyo neppure un film di Romero me li ha saputi dare.
non so.
testo che poteva essere interessante se non inciampasse continuamente in periodi come questo: “Correndo paralleli sui binari di una stessa rotaia, entrambi percepiscono la frattura e lo smarrimento di una forma che per esistere si deve perdere, che letteralmente sopravvive eccedendosi”.
vecchio vizio, che si riproduce sempre uguale a se stesso: il testo atteggiato.
Ecco appunto.. lo dicevo io.. doveva esserci qualcosa d’imperfetto ^__-
incontro felicissimo di scrittura – Esposito – e immagine fuori canone – Myazaki -. Leggere e appuntare, prodi redattori di N.I.
errata corrige
zoydwheeler
La principessa Mononoke avrebbe dovuto fungere da ideale epitaffio artistico (così l’aveva immaginato senpai Hayao)
poi invece sono arrivati La città incantata e Il castello errante di Howl
tutti quanti abbiamo voluto “il lieto fine”, nella sfera di cristallo che rifletteva il muso del cane
il trittico della “cura” era concluso.
adesso il tratto è tornato indietro, quando Miyazaki era giovane e ancora non colorava di verde la giacca di Lupin – per certi aspetti mi ha ricordato molto Cyborg 009.
oh, all’Italia è interamente dedicato Porco Rosso. e Totoro è il più bel film degli anni Ottanta!
Ciao, mi collego solo ora, sono all’estero. Desidero ringraziare tutti per i commenti.
E sempre grazie a NI, naturalmente.
Lorenzo