Ci salveranno i piedi, non le radici – Intervista a Marco Aime
di Marco Rovelli
Marco Aime, docente di Antropologia culturale all’università di Genova e scrittore, ha pubblicato di recente due libri: La macchia della razza (Ponte alle Grazie), Il primo libro di antropologia e Una bella differenza (entrambi per Einaudi). Ma è soprattutto un appassionato antropologo che guarda al nostro presente, e ci è parso importante riflettere con lui, mettendo in gioco il suo acuto «sguardo da lontano», su quella che è la vera emergenza italiana di questi tempi: l’emergenza razzismo.
Nel suo «La macchia della razza» riflette a lungo sul linguaggio, sulle parole usate per «dire» l’immigrazione: una grandissima operazione di mascheramento, di costruzione di una realtà fittizia.
«La retorica comunicativa relativa al problema immigrazione, come a quello della sicurezza è significativa di una precisa volontà di stravolgere i fatti. Pensiamo al grande spazio dato agli sbarchi e ai respingimenti. La percentuale di stranieri che arriva dal mare è irrisoria, ma adeguatamente mediatizzato questo diventa il problema principale. Innanzitutto, quando avviene un reato si enfatizza l’origine se a commetterlo è uno straniero, ma non si fa la stessa cosa se a delinquere è un italiano. Così si mettono le basi all’equazione “straniero uguale criminale”, tacendo sulla stragrande maggioranza di immigrati che lavorano onestamente nel nostro paese. Poi si passa all’etnicizzazione del crimine. Basti pensare alle aberranti parole di Calderoli: “Ci sono etnie che hanno propensione a delinquere”. Ecco come ci si avvicina pericolosamente alle teorie razziali. Nel Manifesto della razza del 1938 c’era scritto: “È ora che gli italiani si proclamino francamente razzisti”. Il tono non è molto diverso da quel «Finalmente cattivi» della Padania, il giorno dopo i primi respingimenti».
Nel libro lei scrive che all’origine di questa «emergenza razzismo» c’è anche una politica senza pensiero, senza orizzonte, che non scalda i cuori. E una sinistra che si è dimessa da se stessa.
«Purtroppo è così. La politica si è ridotta ad amministrazione e a soddisfacimento dei sondaggi. Non si sente nessun politico italiano in grado di suscitare qualche emozione, rilanciando un’idea di politica che significhi tentare di realizzare una società migliore. In fondo è quello che ha fatto Obama, cambiando linguaggio e puntando a un futuro, non limitandosi a osservare l’oggi, come accade da noi. La politica deve appassionare, altrimenti è pura contabilità o burocrazia. L’appiattimento su un livello retorico becero o comunque arido e povero è uno dei segnali della mancanza di vero pensiero. Il groviglio dei tatticismi e delle speculazioni minime è invece segno di autoreferenzialità, che esclude la gente dalla partecipazione».
Un punto qualificante del suo libro è la riflessione sulla perdita di memoria. Una memoria che fa selezione dei ricordi, e che dimentica quanto dovrebbe essere ricordato. Una selezione forse inevitabile, dacché la memoria è sempre vittima dei rapporti di forza, e noi oggi, che siamo i forti, siamo «condannati» a dimenticare. E allora, più che ricordare il nostro passato di emigranti (che è precisamente ciò di cui ci si vuole dimenticare) non converrà piuttosto come strategia retorica – ciò che lei fa peraltro – ricordare il razzismo istituzionalizzato dall’Italia fascista, e guardare la nostra faccia di forti e feroci?
«L’una e l’altra cosa, direi. Dimenticare la nostra storia, peraltro molto recente, per quanto amara, significa privarsi di ogni possibile metro di comprensione. Significa osservare e giudicare ciò che sta accadendo, come se fosse la prima volta che ciò avviene. È curioso che i fondamentalisti della tradizione e i fanatici delle “radici”, finiscano poi per sorvolare sul fatto che la nostra tradizione è fatta anche di tanta emigrazione e che molti di noi si sono salvati perché avevano piedi e non radici. Allo stesso tempo rievocare le tragiche derive razziste del ventennio mussoliniano è indispensabile perché molte cose sembrano ripetersi. Una fra tutti e l’apparente disinteresse generale. Sembra che tutto ciò non ci riguardi, che debba accadere ad altri. Immagino sia successo qualcosa di analogo, mentre i fascisti iniziavano a insinuarsi nelle pieghe del potere. Si è minimizzato, si è lasciato fare, tanto…».
Un altro punto qualificante del suo discorso – e in questo si manifesta il debito con Giorgio Agamben – è la finzione dei diritti umani. La negazione dello statuto di persona quando non c’è nome, e diritto. Ciò che rende necessaria, allora, una lotta per il «diritto universale».
«Il problema è che non basta nascere per esistere. E non basta esistere per avere dei diritti. Con l’introduzione del reato di clandestinità, si è arrivati a punire una persona non per ciò che fa, ma per ciò che è. Siamo alla negazione dello status di essere umano, alla riduzione delle relazioni umane ad atto burocratico, asettico. In questa progressiva spersonalizzazione mi sembra di risentire gli echi della “banalità del male” descritta da Hannah Arendt. Si spostano le tragedie umane su un piano formale, giuridico, privo di emotività e di senso di umanità. Poi ci si trincera dietro all’asettico rispetto delle norme. Esattamente come facevano i capi nazisti, che dicevano di avere semplicemente eseguito ordini».
(pubblicata su l’Unità, 10/7/2009)
Il bisogno d’identità è indispensabile, la sua reificazione narcisistica una prigione ed un pericolo. Perché un islamico non può continuare a professare il suo credo pur rivedendo alcune rigide norme stabilite millequattrocento anni fa? Perché un occidentale democratico non può riconoscere nella propria storia il contributo fecondo della cultura islamica? Non tutti sono in grado di mettere in discussione se stessi. Sappiamo bene che nell’incontro e nella comprensione dell’altro c’è in gioco anche la possibilità della rinuncia a sé. La sovrabbondanza delle esperienze e delle influenze di rado è contenuta dentro gli angusti limiti di una singola mente, che ha bisogno di semplificare ed unificare e per questo giunge a rifiutare ciò che non conosce bene, preferendo il noto, il familiare, il sicuro. Tuttavia poche menti lucide avrebbero la sfrontatezza e l’egomania di asserire la superiorità della propria tradizione, unica depositaria della verità. Il mondo sempre più si sta aprendo alla verità del molteplice, sta apprendendo piano piano la difficoltà, ma anche la splendida opportunità di ascoltare insieme le voci di Buddha, Gesù, Maometto, Mosè, Socrate, Kant, Nietzsche. La strada è lunga e tortuosa, ed a molti, forse la maggior parte, pare ancora più agevole rinchiudersi nel culto delle radici immutabili e dei padri incontestabili, come nella comodità di piccole comunità in cui si ripeta continuamente il coro tranquillizzante del “Siamo tutti uguali”. E’ inevitabile anche che molte categorie di persone che hanno subito a lungo la persecuzione o l’emarginazione, si sentano in diritto di rivendicare la loro diversità e protestino contro l’uniformazione. Questi soggetti minori e svantaggiati hanno la ragione dalla loro parte quando combattono per il riconoscimento della loro storia e per la cancellazione di tutte le oppressioni subite. Donne, omosessuali, immigrati, anziani, disabili soffrono ed hanno sempre sofferto la sventura di non essere quel naturale soggetto di diritti che è l’uomo bianco lavoratore occidentale. Loro sanno, non perché ierofanti della religione delle radici, ma perché lo vivono direttamente, che giusta è la rivolta delle differenti minoranze, tutte le volte che ottenga il potere un pensiero unico omologante. Per fare un esempio tra tanti: le storie delle badanti straniere vanno raccontate e ascoltate, questo è un dovere morale e politico. A loro gli europei agiati stanno delegando dei sentimenti che sempre più sembrano dei rifiuti inutili per la nostra produttività indaffarata: la cura amorevole, quella dei nostri cari, gli infanti in età prescolare e gli anziani negli ultimi anni di vita. Quante donne europee, colte ed emancipate, durante la discussione con le amiche sui diritti delle donne, dimenticano di immedesimarsi nella vita di quelle, ucraine o rumene, che magari proprio in quel momento stanno portando loro il vassoio col caffè? E, per uscire dalla stereotipia delle facili accuse, quanti pensano alla mancanza di mezzi, occasioni, parole, insegnamenti, di quegli incolti che si gettano nelle braccia della xenofobia più rozza? L’umanità non si vede ad occhio nudo, pochi la scorgono; ed appena vista, fugge via.
Il razzismo italiano è diventato legge con l’introduzione del reato di clandestinità. Adesso, nessuno può fingere di non sapere che vive in un paese dove il razzismo ha trovato sua piena espressione politica. Tutto ciò avviene in una situazione di inerzia, che suscita in me che scrivo vergogna per il mio paese, vergogna nei confronti della cultura che storicamente ha difeso i valori dell’uguaglianza e vergogna di me, in quanto individuo, perché ancora incapace di trovare una forma di reazione minimamente adeguata alla circostanza. Anche su NI ci siamo spesi nell’analisi e nella denuncia della mentalità razzista e dell’uso politico del razzismo. Ma ora anche queste analisi hanno fatto il loro tempo. Ciò che si deve pensare oggi sono forme concrete di opposizione che sappiano saldare tra loro diversi motivi di lotta: da quello per il reddito a quello per i diritti delle minoranze. Non abbiamo un soggetto politico di riferimento credibile per questo progetto. Non abbiamo neanche veri e spregiudicati dibattiti sulle alternative possibili. Grazie comunque a chi come Rovelli e Aime non sono passati a pensare “ad altro”.
andrea inglese scrive:
Analisi e denunce oramai danno pochi frutti e bisogna inventarsi altro. Atti concreti che spostino la realtà di singole persone.
sottoscrivo a.i. parola per parola
io credo sia di fondo la maledizione di Babele che è ancora presente nella memoria ancestrale di ognuno: l’altro è tale perché ha diversa pelle, lingua, cultura, religione, diverse tradizioni famigliari, e diverso modo di atteggiarsi nelle sue relazioni con gli altri. Questo ha reso l’altro sempre meno comprensibile, strano-estraneo, potenzialmente pericoloso perché portatore di nuovo e dunque di ignoto.
L’umanità questo non lo ha ancora superato, anche se molto lavoro è stato fatto e si sono create società, o strati sociali all’interno dei quali si è sviluppata una coscienza più alta dell’appartenenza a un’unica specie umana. Ma, come per altri casi pure assai importanti, a questo residuo di memoria ancestrale si sono, in modo, importante, sovrapposti ragioni di altro tipo, tipicamente economiche, che su quella memoria hanno fatto aggio e che quella memoria si sforzano di mantenere viva e vigorosa.