AntiLars [cinema sho(r)t #1]
di Carlo Mazza Galanti
Ossigenato il cervello e sciacquati gli occhi in un bagno di sana luce estiva, le vibrazioni apocalittiche dei titoli di coda che ancora filtrano dalla vicina sala di proiezione suscitano un sorrisetto pietoso.
Che dire della dedica conclusiva a Tarkovskij ? (“come si è permesso!” non ha potuto trattenersi il mio vicino di sedia), che dire dell’emissario diabolico dalle sembianze volpine che con voce tonante annuncia il trionfo del caos? (qualcuno in sala è scoppiato francamente a ridere – con grande sollievo del sottoscritto – ma non fosse stato per la extrasistole dovuta allo spavento della sequenza appena precedente, credo che a ridere ci si sarebbero messi proprio tutti), cosa dire infine del primo piano su un pene che eiacula sangue o della mutilazione a tutto schermo di una clitoride sforbiciata via, come una capocchia? (in sala, questa volta, nessun commento, nessuna risata).
Il minimo, e forse anche il massimo, che si possa riconoscere a Von Trier è il merito della coerenza, sempre che la coerenza meriti a priori. L’ossessione del martirio femminile che dalle Onde del destino fino a Dancer in the Dark e a Dogville ha riempito di eroine incredibilmente infelici i film del regista danese dovrebbe trovare, in Antichrist, la sua formulazione più radicale e (se non fraintendo le intenzioni dell’autore) la sua scena primaria : una scena antica, solenne, sulfurea. Inquisizione, Caccia alle streghe, Storia.
Così scopriamo, tra un sussulto e l’altro, che ci troviamo davanti niente di meno che alla Natura Umana, quella natura – come spiega la protagonista femminile (Gainsbourg), che prima di impazzire completamente stava preparando una tesi sul ginocidio – quella natura « che spinge gli uomini a desiderare di fare del male alle donne ».
Senza entrare nel merito del filosofico assunto, è difficile non muovere una semplice critica all’ultimo capitolo della lunga (e coerente) ricerca di Von Trier. La sceneggiatura di questo film pare poco più di un cocktail, neanche troppo abilmente composto, di clichè gotico-horror-psico-satanisti e delle ormai scontate idiosincrasie del regista, il tutto pimentato dall’inevitabile surplus di attenzione che riceve chiunque scelga, avendone la possibilità, di mostrare le cose di cui sopra nelle sale cinematografiche di mezzo mondo. Si sa, chi ancora riesce a scioccare passa per un grande creatore. Soprattutto se a giustificare la violenza dell’immagine viene in soccorso la suggestione psicanalitica (il protagonista maschile, interpretato da Willem Defoe, è un terapeuta, ma dubito che suoi colleghi utilizzino veramente piramidi massoniche per mappare l’inconscio dei loro pazienti). I critici francesi saranno andati in brodo di giuggiole davanti al clito-fallo evirato, come gli emo-adolescenti davanti ai disegni delle torture medievali e ai cadaveri femminei dalla pelle bianchissima.
L’estetismo patinato delle immagini di Antichrist non vola molto più in alto. La musica di Haendel aggiunge il giusto tocco di lusso barocco e di finezza da degustatore di preziose nature putrefatte witkiniane. Non vorrei fare una critica moralista, non è, il mio, un partito preso contro i lati oscuri e le pulsioni distruttive di cui l’arte indubbiamente si nutre, a volte con grandi risultati. E’ proprio la qualità complessiva dell’opera che fa problema, banalmente. Dopo una notte di sonno disturbato e alcuni vaghi tentativi di dare peso e unità all’universo simbolico del film, mi sembra questa l’unica conclusione sensata. Semplicemente il male, qualunque cosa esso sia, meriterebbe di meglio. Certamente qualcosa di più complesso e meditato di questa fastidiosa via di mezzo tra una liturgia caricaturale e scomposta, una riflessione filosofica piuttosto semplicistica, e un deliberato scuotimento di mente e budella.
La lunga depressione da cui l’autore sarebbe da poco uscito e che lui stesso si preoccupa di comunicare ad ogni intervistatore, ha tutta l’aria di una giustificazione preventiva. O peggio, di un tentativo di valorizzare autobiograficamente la sua discutibile impresa di terrorismo psichico.
Se potessi consiglierei a Von Trier di riguardarsi con maggiore attenzione tutta la filmografia di Tarkovskij, invece di citarlo, e prima di dichiarare la prossima inutile guerra « umanitaria » contro le sue fobie.
Trama (per chi proprio non può farne a meno): uno splendido bambino biondo, dopo avere osservato i genitori copulare in un mare di fiocchi di neve, si affaccia alla finestra e cade dal quarto piano, forse perché aveva il piede caprino. La giovane madre non regge il lutto ed il marito psicanalista la convince ad affrontare un’immersione reichiana nei luoghi delle proprie ossessioni. La capanna nel bosco è flagellata da una pioggia di ghiande e tre fiere si presentano con una certa frequenza ad annunciare l’apocalissi. Nella soffitta, il padre scopre le immagini inquietanti che la moglie utilizzava per la propria tesi sul ginecidio. La terapia deraglia in follia sanguinaria ed allucinazioni sataniche. Se il terapeuta non deve andare a letto con le proprie pazienti, come fare nel caso di una paziente che è anche la propria moglie? Forse per punirsi di un’emorragia provocata alle gonadi del partner, la giovane donna recide i propri genitali. Morirà, ma per altre ragioni, e in nome del genere femminile.
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hai scritto un bellissimo pezzo. A me, era venuto solo di pensare, che buffone.
Ho letto del tuo nuovo libro sul venerdì di repubblica. Ti auguro un grande in bocca al lupo. ciao
Condivido pienamente l’articolo per molte ragioni.
1 Non amo l’ambiente misogino del corpo femminile torturato, e non è a caso si è mutilato il clitoride, che rappresentava il diavolo in secoli di peso religioso. Non dimenticare che nel mondo essiste l’escisione.
2 Il trattamento del simbolo freudien ( le ghiande) mi pare grossolano, senza poesia.
3 La critica francese era sotto la presidenza di Isabelle Huppert che ha girato nella pianiste…
4 Penso che mostrare la follia la cinema è molto difficile. Il solo che ha mostrato genio è Antonioni in Deserto Rosso.
Per evocare la morte di un bambino mi sembrare che pudore sia la scelta megliore. Ma è vero l’inizio del film è già ridicolo: un bambino nel trauma della scène primitive si defenestra…
esiste, in cinema, mi sembra
ehi valentina,
grazie per i complimenti, ma il pezzo è di carlo mazza galanti.
invece crepi il lupo per il romanzo!
chi
Non capisco molto questo genere di recensione. Insomma, non è riduttivo affermare che *la lunga depressione da cui l’autore sarebbe da poco uscito […] ha tutta l’aria di una giustificazione preventiva […], di un tentativo di valorizzare autobiograficamente la sua discutibile impresa di terrorismo psichico*?
Insomma, di cosa dovrebbe giustificarsi Von Trier? Di aver girato un film forte e che in quanto tale pone di fronte a una scelta (di gusto e anche di pensiero)? E l’autobiografismo valorizza veramente un’opera? Non si dà piuttosto il caso che l’autobiografismo sia, di lato o di fronte, sempre presente in un’opera dell’ingegno? E se un film ottiene di fungere da atto di *terrorismo psichico*, non si può forse dire che esso ha ottenuto già molto?
Leggendo le dichiarazioni ai giornalisti, a me è parso di capire non tanto che il film in sé ha permesso al suo regista di uscire dalla profonda depressione in cui era caduto, ma che, più generalmente parlando, girare un film – in altri termini “lavorare” – gli abbia giovato. Il fatto che quel film sia stato proprio Antichrist può quindi dare da riflettere, e permettere di far luce sul genio del regista, sui suoi moventi e le sue dinamiche. Non certo affossare il senso e l’autonomia del film medesimo, né tantomeno quella del regista con la sua lunga depressione.
E poi, dico io, se un regista non piace, e con lui i suoi film, cosa spinge a scriverne? Con questa domanda non voglio certo delegittimare Mazza Galanti, solo supporre che Von Trier, anche con lui, ha colto nel segno. Poi si sa, da segno nasce segno.
… francamente, l’affermazione di Isak («se un regista non piace, e con lui i suoi film, cosa spinge a scriverne?») mi lascia sconcertato. Che qualcuno finisca su N.I. , un lit-blog così importante, e poi dica una cosa del genere mi fa un po’ cadere le braccia.
La ragione per cui si scrive criticando un’opera che si valuta come erronea, malfatta, sbagliata, è la stessa – e della medesima importanza – che può portare un critico a parlare bene di quella stessa opera, o di un’altra.
Il mio professore all’Università diceva sempre: «Leggi i romanzi belli, e leggi anche i brutti. Guai a leggere soltanto capolavori, e piuttosto rinuncia ai mediocri, ma mai ai disastri: ti insegneranno a scrivere e ti faranno capire la letteratura almeno quanto i libri riusciti».
Lo stesso per i film: una simpatica commedia, di mestiere, può intrattenerci, sollevarsi dalle ansie quotidiane per un’ora e mezza. Ma un film autoriale riuscito male, può insegnarci molto delle insidie del cinema stesso, e contribuire a farci riconoscere la prossima volta un capolavoro (o comunque un bel film) quando lo vedremo.
Non mi pare poco.
@marco v. mi sa che hai capito ‘na mazza. Provo a riformulare: qual è il movente di una recensione a un film non gradito? La domanda è proprio a buon cuore, e in buona fede: ci sono opere che lasciano indifferenti, e che non fruttano dunque scrittura, altre che entusiasmano e dunque portano a scriverne, altre ancora che provocano un contrasto (si dice che non piacciono) ma che come le precedenti fanno scrivere. Il caso di cui sopra mi pare il terzo, e siccome è un caso tipico (è accaduto anche a me con Inland Empire di Linch, ché ne ho parlato per una settimana intera) mi interessa realmente capirne la natura. Diciamo che era una domanda filosofica.
E poi, la citazione del tuo professore diceva già tutto: «Leggi i romanzi belli, e leggi anche i brutti. Guai a leggere soltanto capolavori, e piuttosto rinuncia ai mediocri, ma mai ai disastri». A parte il fatto che non capisco come si possa dire di leggere i romanzi belli e anche quelli brutti: è forse un dato acquisito e tramandabile? Il mio professore mi direbbe di leggere tutto quello che stimola la mia curiosità e il mio interesse, a patto che siano onnivori (curiosità e interesse), insomma, direbbe di leggere tutto.
In ogni caso, la distinzione tra capolavori/mediocri/disastri mi pare illuminante. Il primo e il terzo tipo valgono l’interesse del fruitore, il secondo no. E’ chiaro perché il secondo tipo non lo valga. Più chiaro ancora (sembrerebbe) perché lo valga il primo. Ma il terzo, a me rimane proprio un mistero bell’e fatto.
[mi scusino il parziale OT]
ciao a tutti,
è strano quanto clamore abbia suscitato questo film. è strano soprattutto quando i recensori, anche a distanza di mesi dall’apparizione nelle sale, ritornino sull’argomento per sottolineare ancora una volta quanto il film sia ridicolo, e privo di fondamento, e tutto sconclusionato.
ma già questo lascia capire che il film e il suo autore hanno lasciato un segno, anzi un graffio, sui modi compiti ed eleganti, a tratti moralistici, di fare critica cinematografica. in un modo o nell’altro, si è impresso nell’immaginario di chi lo ha visto. e questo è dovuto a scelte molto coraggiose e alla maestria dispiegata nel girare e montare il film.
intendiamoci, non è il suo film migliore, non è tra quelli più riusciti, nè è esente da errori, specie nell’introduzione in bianco e nero, ma se volete davvero sapere come la penso su questo, basta andare a rintracciare il mio commento lasciato sempre su nazione indiana ad un post intitolato “antichrist” e scritto da mauro baldrati:
https://www.nazioneindiana.com/2009/06/07/antichrist/
ma qui di un’altra cosa mi piacerebbe parlare, soprattutto mettere in discussione quanto scrive carlo mazza galanti nel suo post, cioè:
“L’ossessione del martirio femminile che dalle Onde del destino fino a Dancer in the Dark e a Dogville ha riempito di eroine incredibilmente infelici i film del regista danese dovrebbe trovare, in Antichrist, la sua formulazione più radicale […]”
per capire i film, e il cinema, ma anche e soprattutto lars von trier, non basta sottolineare il genere dei personaggi, e la fine che fanno nel corso della storia. non basta sottolineare per stroncare i film il modo in cui i personaggi femminili sono trattati nel corso delle narrazioni. se così fosse, non solo faremmo torto ai film, ma nemmeno capiremmo cosa davvero ci stanno raccontando.
se fosse così, interi capitoli della storia del cinema potremmo rubricarli come pessimi e ripungnanti. non potremmo più spalancare gli occhi di fronte a “toro scatenato” di scorsese, nè ricordare “l’accattone” di pasolini, nè rimanere stregati di fronte all'”isola” e quasi tutti i film di kim ki-duk, nè potremmo apprezzare quel capolavoro assoluto che è “apocalypse now”, soprattutto nella sua versione estesa, “apocalypse now redux”, dove davvero veniamo a conoscenza di che fine fanno le conigliette di play boy nel corso della guerra.
oppure, per riportarla in letteratura, dopo le prime pagine, dovremmo buttare via “i canti del caos” di antonio moresco, visto che neanche lì molti personaggi femminili fanno una bella fine.
cioè, la domanda da porsi è: cambiarebbe qualcosa per noi, se le peggiori sorti all’interno di una narrazione – sia questa cinematografica, letteraria o musicale – toccassero ad un personaggio maschile o femminile, oppure ad un bambino/a o anziano/a? cioè, il genere e l’età del personaggio suscitano in noi più commozione, ci muovono di più nell’interno, scatenano in noi forme diverse di condivisione e immedesimazione? vogliamo dire che tra le vittime, perfino le vittime del mondo reale, possiamo fare una sorta di hit-parade suscitata dall’età e dal genere della vittima di una storia o della realtà? vogliamo dire che ci sono vittime di serie a e vittime di serie b? e non è anche questa una forma di scelta moralistica e di discriminazione a priori?
questo per dire che guardare il cinema analizzando soprattutto il genere dei personaggi, non porta da nessuna parte. del resto, è stato lo stesso lars von trier a ingrippare questo meccanismo ermeneutico riguardante generi e vittime di una storia.
a guardare bene “dogville, vediamo che alla fine il genere non conta più di tanto, poichè la protagonista nel corso della storia è capace di attirare a sè tutta la dolcezza e tutta la mostruosità possibile. per non parlare di “antichrist”, dove il finale a sorpresa inverte ancora una volta i ruoli, e questa volta è il protagonista maschile ad essere circondato e minacciato da donne, anche se il finale sospeso ci impedisce di sapere come andrà a finire la storia.
comunque, non è che sto dicendo che quello del genere non sia un tema eticamente da dibattere. credo soprattutto che bisognerebbe prestare attenzione ai “media live”, quelli che fanno della diretta la loro caratteristica principale, e mi riferisco soprattutto a certa televisione, e alla pubblicità, dove non c’è niente di nascosto da questo punto di vista, ma è tutto riportato ed esibito, anche arrivando a toccare le forme della pornografia.
per il resto, è tutto più complesso rispetto a quanto è stato riportato in questo post, e mi andava proprio di ribadirlo.
a presto
giuseppe
von trier è unico. ha cambiato la storia del cinema. sottoscrivo l’intervento di zucco, infastidito da questo pezzo, scritto pure male.
Intervengo ancora una volta a sproposito, come feci in merito all’altro articolo postato su NI su L’anticristo, quello di Mauro Baldrati.
La mia opinione, in sintesi, è che Lars Von Trier sia un grande paraculo e un grande regista. Oggi ho anche assodato che Von Trier faccia indignare il genere femminile, e che Tarkovskij non possa essere citato.
alla fine dopo tanto parlare mi son sentita di doverlo vedere. Trovo giuste e equilibrate le critiche del pezzo su tutto il film fatta eccezione per il Prologo con la musica di Haendel (il famosissimo Lascia ch’io pianga in una versione che ho trovato ultraterrena come il buio tra le stelle e giustissima per le immmagini tanto da diventare indivisibili). Il Prologo per me era bellissimo, perfetto e straziante e di un linguaggio di immagini efficace e mi ha lasciato un dolore fisico che persiste e credo persistera’. Peccato per tutto il resto che cercava di demolire quanto di possobile ci sarebbe stato, mi e’ sembrata una occasione mancata.