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La caduta

banana
di
Roberto Bugliani

Da domenica 28 giugno in Honduras è in corso un colpo di stato nella sua forma classica, che sembra tratta pari pari da un manuale della CIA degli anni Sessanta, con tanto di gorilla dell’esercito, stato d’assedio, sospensione delle garanzie costituzionali, dura repressione delle manifestazioni di protesta, arresto dei dirigenti sindacali e dei movimenti indigeni, sociali e popolari del paese, e che ha destituito il legittimo presidente Manuel Zelaya, un impresario cinquantaseienne del Partito Liberale eletto nel 2006, il cui mandato avrebbe dovuto scadere nel gennaio 2010. Zelaya aveva iniziato a governare il paese attuando una politica di centro-destra, ma negli ultimi anni aveva virato verso posizioni di centro-sinistra mal tollerate dall’élite oligarchica honduregna oltreché dagli ultimi governi zelantemente neoliberisti del subcontinente.

Vale la pena ricordare che Mel, come lo chiamano i suoi sostenitori, è stato uno dei promotori più attivi per la riammissione, avvenuta all’inizio di giugno, di Cuba nella OSA (Organizzazione degli stati americani, o OEA in spagnolo), da cui era stata esclusa nel 1962 per una risoluzione imposta degli Stati Uniti, e che, alla presenza della silenziosa Hillary Clinton durante il vertice tenuto nella città honduregna di San Pedro Sula, aveva concluso il suo discorso con le seguenti parole: “io dico al comandante Fidel Castro: oggi lei è stato assolto dalla storia”.

E, altra cosa “intollerabile”, Zelaya aveva integrato il suo paese nel gruppo dell’Alba (Alleanza bolivariana delle Americhe), che riunisce 9 paesi latinoamericani e caraibici, tra cui Venezuela, Ecuador, Nicaragua e Repubblica Dominicana, e che rappresenta la risposta dei governi progressisti latinoamericani agli ingiusti Trattati di libero commercio voluti dagli USA e, ultimamente, dalla UE.

Il motivo scatenante è stato attribuito dai golpisti honduregni alla ferma e ripetuta volontà di Mel Zelaya di indire per il giorno 28 giugno una consultazione, con la quale si chiedeva ai cittadini se nel prossimo novembre si dovesse convocare o meno un’Assemblea Costituente nel paese in contemporanea con le elezioni presidenziali, legislative e amministrative già previste per quella data.
Fermamente contrari all’installazione della “quarta urna” relativa alla consultazione non vincolante, che i media hanno chiamato in modo improprio “referendum” per la rielezione di Zelaya, si dichiararono da subito la Suprema corte di giustizia, gli alti vertici militari, la Chiesa cattolica e il Parlamento, compreso quello stesso Partito liberale cui Zelaya apparteneva. Insomma, tutta l’oligarchia militare, politica, economica, religiosa e mediatica (i più importanti media in Honduras sono nelle mani di impresari che rivestono incarichi importanti nei due principali partiti del paese, il Partito liberale e il Partito nazionale) si è trovata unanime nello schierarsi contro il progetto del presidente di elaborare una nuova carta costituzionale repubblicana, preoccupata che ciò comportasse la riduzione o la perdita di una parte di quei poteri e privilegi di cui gode da sempre, e che nel contempo conferisse al popolo un maggior potere di controllo democratico, senza peraltro curarsi minimamente del fatto che, secondo gli ultimi sondaggi, l’85% della popolazione vedeva con favore la consultazione. “La scrittura di Costituzioni partecipative, condivise con gli strati popolari della popolazione, dal Venezuela, alla Bolivia all’Ecuador è stata vista nell’ultimo decennio con crescente rifiuto da parte delle oligarchie tradizionali che, soprattutto nel caso boliviano, si è trasformato apertamente in eversione”, ha scritto Gennaro Carotenuto nella pagina on-line della rivista “Latinoamerica”.

Ma la decisione delle élites dominanti di sbarazzarsi con un colpo di stato di un presidente che si stava rendendo oltremodo scomodo e pericoloso non è nata da un giorno all’altro come l’amanite del Monte Amanos. Il golpe era in programmazione già da vari giorni, alimentato da un crescente contrasto tra il potere legislativo e giudiziario da un lato e quello esecutivo dall’altro. Il momento più delicato che convinse i golpisti ad accellerare i tempi fu la decisione di Zelaya di destituire dall’incarico il Capo di Stato Maggiore Romeo Vásquez Velásquez in quanto si era rifiutato di obbedire all’ordine presidenziale di permettere la consultazione del 28 giugno e di far distribuire dall’esercito le urne per il suo regolare svolgimento. Destituzione che la Corte suprema non aveva confermato, mantenendo nell’incarico il generale Vásquez e appoggiando di fatto la sua insubordinazione. Quindi, di fronte al successivo rifiuto di Zelaya di reintegrare Vázquez a Capo di Stato Maggiore, settori importanti dell’esercito occuparono a titolo intimidatorio punti nevralgici del paese, mentre nella sessione parlamentare del 25 giugno, il Presidente del Congresso e futuro golpista, Roberto Micheletti, chiese ai deputati di dichiarare il presidente Zelaya incapace di continuare a svolgere il suo mandato e di formare una commissione per la nomina del nuovo presidente della Repubblica, ma qualcosa andò storto (alcuni commentatori parlano di una telefonata “importante” giunta a raffreddare gli animi) e la mancata risoluzione impedì che il colpo di stato si effettuasse quello stesso giorno.
In risposta a ciò i movimenti popolari, indigeni e sociali, divenuti gli unici riferimenti di Zelaya, passarono al contrattacco e occuparono la base militare della Forza Aerea nell’aeroporto internazionale di Tocontín, impadronendosi delle urne e delle schede per la consultazione con l’intenzione di distribuirle comunque nel paese.

Nel frattempo Zelaya si era rivolto alla nazione ribadendo la propria volontà di mantenere la consultazione per il giorno successivo.
All’alba di domenica 28 giugno un commando dell’esercito circonda la residenza di Zelaya, spara, abbatte la porta di ingresso, irrompe all’interno e sotto la minaccia delle armi sequestra il presidente, che viene prelevato ancora in pigiama, trasferito in una base aerea militare, imbarcato su un aereo e deportato in Costa Rica, secondo uno stile già collaudato in passato, quando i regimi dittatoriali volevano disfarsi dei legittimi presidenti democraticamente eletti. A motivo ufficiale della deposizione di Zelaya i golpisti adducono il fatto che egli aveva infranto l’articolo 239 della Costituzione del 1982 che impedisce la rieleggibilità del presidente della Repubblica (di qui la spiegazione del golpe come opposizione al presunto “continuismo” di Zelaya fatta da molti media europei tra cui “El País” e la nostrana “Repubblica”, malgrado egli abbia più volte smentito di volesi ricandidare alle elezioni), accusandolo per questo di 18 capi di imputazione.

Fin dalla fine del XIX secolo l’Honduras è stato non solo il “patio dietro casa” degli Stati Uniti, come del resto lo sono stati quasi tutti i paesi latinoamericani in virtù della dottrina Monroe e del cosidetto Consenso di Washington, ma anche un territorio dominato e controllato dalla statunitense United Fruits Company, che, a seconda delle sue convenienze, ha imposto al paese dittatori o presidenti costituzionali al suo servizio. Ancora nel 1978 il generale Policarpo Paz, amico intimo del dittatore nicaraguense Anastasio Somoza, fu il “regalo” che la United Brands (il nuovo nome della United Fruits) fece al paese centroamericano. Ed è stato lo stesso dittatore Policarpo Paz, in sintonia con la CIA e con la compagnia bananiera, a redigere la costituzione del 1982, quella stessa che oggi viene invocata a giustificare il golpe contro Zelaya, entrata in vigore poco prima che il generale Paz consegnasse il potere a un presidente costituzionale, Roberto Suazo Córdoba. La Costituzione voluta da Paz non si preoccupava del fatto che l’80% della popolazione vivesse nell’indigenza e che appena 225 latifondisti fossero proprietari del 75% della terra del paese. In compenso però l’articolo 239 puniva con decorrenza immediata a dieci anni di interdizione dai pubblici uffici chiunque proponesse la rieleggibilità del presidente. E’ evidente che questo articolo ha fornito l’appiglio legale ai golpisti, i quali però fingono di ignorare che dal 1982 la Costituzione del paese è stata modificata ben venti volte e che lo stesso articolo 239 è stato modificato nel 1998, nel 2002 e di nuovo nel 2003, senza che nessun golpe in sua difesa si sia profilato all’orizzonte. Perché è altrettanto evidente che quelle modifiche rispondevano agli interessi della casta politico-economica honduregna. Ed è ancor più evidente che il vero bersaglio dei golpisti è stato il progetto di Assemblea costituente propugnato da Zelaya, un processo istituzionale che, se realizzato, avrebbe potuto essere prezioso elemento di democrazia, come lo è stato recentemente in altri pasi latinoamericani che si sono dati le carte costituzionali più avanzate d’America.

La stesso 28 giugno il parlamento honduregno ratifica il golpe nominando presidente della Repubblica il presidente del Congresso Roberto Micheletti, subito ribattezzato dal popolo Gorilletti o Pinochetti, e il nuovo governo golpista si affretta a render nota una falsa lettera di dimissioni di Zelaya per “motivi di salute” e per “mantenere la pace” nel paese, che lo stesso Zelaya, appena giunto all’areoporto San José del Costa Rica, smentisce categoricamente attraverso l’emittente Telesur. Il golpe produce subito i suoi effetti devastanti: oscuramento totale delle emittenti radio e televisive, sospensione dei diritti all’inviolabilità del domicilio, alla libertà di spostamento e di associazione, caccia ai dirigenti di movimenti e sindacati, arresto e detenzione preventiva degli oppositori. Il governo golpista di Micheletti cerca di giustificare il proprio operato dicendo che ha salvato il paese dal cadere nelle mani di Hugo Chávez e del comunismo (ogni volta che un governante neoliberista della regione deve giustificare un suo operato repressivo non manca di tirare in ballo il presidente venezuelano dipinto come un pericoloso sovversivo che mira a impadronirsi di tutta l’America Latina), mentre dimostra nei fatti il proprio continuismo dittatoriale, questo sì, circondandosi di personaggi infausti come il “consigliere presidenziale” Bill Joya Améndola che vanta un passato di torturatore all’epoca di Policarpo Paz, o il ministro degli Esteri golpista Enrique Ortiz, che non ha mancato di definire Barack Obama “un negretto”.

Nei giorni successivi si susseguono manifestazioni di appoggio ai golpisti, concentrate attorno all’edificio presidenziale, e manifestazioni e scioperi contro il gorilla Micheletti che paralizzano il paese. A livello internazionale il governo golpista è isolato. Le condanne del suo operato provengono da tutto il mondo, dall’Onu, dalla Osa, dalla Ue, dalla Comunità andina delle Nazioni e dalla Unasur. Inoltre, fatto inedito per la storia latinoamericana, anche gli Usa, per bocca dello stesso presidente Obama e della Clinton, dichiarano la loro netta contrarietà al golpe e il loro appoggio a Zelaya, non perché siano d’accordo con Zelaya, il quale più volte si è opposto alle politiche nordamericane, ma “in nome del principio universale per il quale il popolo deve poter eleggere i propri governanti”. Tuttavia, anche se questa dichiarazione di Obama non lascia dubbi in merito, non è immaginabile, come scrive il cattedratico brasiliano Theotonio Dos Santos, che l’ambasciata statunitense non fosse a conoscenza dei preparativi del golpe, soprattutto in un paese come l’Honduras da sempre legato a doppio filo con l’amministrazione americana, che è stato, nel periodo delle guerre di bassa intensità, la base di appoggio delle organizzazioni militari mercenarie (i “contras”) per destabilizzare il legittimo governo sandinista del Nicaragua. Sul piano internazionale, inoltre, i presidenti dell’Ecuador, Correa, e dell’Argentina, Cristina Fernández de Kirchner, assieme al segretario dell’Osa José Miguel Insulza, dichiarano di voler accompagnare il ritorno di Zelaya in Honduras previsto per domenica 5 luglio. Ma in seguito recedono dal loro proposito preoccupati per il “bagno di sangue” in cui rischierebbero di far precipitare il paese honduregno e affidano al presidente dell’Asemblea generale dell’Onu, Manuel D’Escoto, il compito di accompagnare Zelaya, il quale era già stato minacciato di arresto dal governo golpista se fosse rientrato in Honduras.

Nonostante lo stato di assedio, la clandestinità, la campagna di terrore, molte decine di migliaia di persone il 5 luglio si dirigono verso l’aeroporto di Tegucigalpa per accogliere il ritorno del presidente legittimo. “Ero dove hanno sparato, ho visto portar via il ragazzo. Prima era stata una marcia incredibile, una festa”, ha dichiarato una cooperatrice europea che vive in Honduras. “C’era un buon servizio d’ordine formato da giovani studenti universitari e da attivisti dei movimenti. Poi alla fine, eravamo già arrivati circondando l’aeroporto pacificamente sono saltati i telefoni cellulari e ho visto in azione molti provocatori che invitavano soprattutto ragazzi ad invadere l’aeroporto, cosa che era stata esclusa dal primo momento. Avevano aperto vari passaggi nella rete di recinzione. Io ho iniziato a cercare la gente per portarla via. Ed è lì che c’è stata la carica più dura”. Isis Obed Murillo di 19 anni è stata la prima delle due vittime della repressione scatenata contro la manifestazione pacifica a favore di Zelaya indetta dal “Fronte contro il colpo di stato”. E’ stato ammazzato con un colpo alla nuca mentre si allontanava dalle recinzioni dell’aeroporto di Tegucigalpa presidiato da mezzo esercito honduregno armato fino ai denti. Lo ha ammazzato un soldato che, secondo varie testimonianze, ha mirato e ha puntato proprio alla nuca di Isis secondo uno schema che è di tutti i regimi repressivi: “shock and awe”, colpire per terrorizzare. Mentre i manifestanti vengono dispersi, e oltre ai due morti il bilancio degli avvenimenti si aggrava con centinaia di feriti e numerossissimi arresti (si calcola che 800 siano a tutt’oggi gli oppositori arrestati a Tegucigalpa), all’aereo che riporta in patria il deposto Zelaya viene impedito materialmente di atterrare, perché l’esercito ha disposto uomini e blindati su tutte le piste di atterraggio, costringendo Zelaya a dirigersi verso il vicino Salvador, dal cui paese ha dichiarato “Il governo di fatto ha dimostrato di rappresentare solo se stesso e in una settimana non è riuscito a piegare la resistenza al golpe arrivando a sparare sul popolo. Perché torni la calma l’unica maniera è restaurare il governo legittimo, poi si potrà dialogare in forma cristiana, democratica, umana”. Dal canto loro gli Usa hanno reiterato l’appoggio al governo legittimo honduregno e la Clinton si è fatta parte attiva dello sblocco della situazione accettando come mediatore il premio Nobel 1987, il presidente del Costa Rica Oscar Arias.

I prossimi giorni saranno dunque decisivi per le sorti non solo del mandato del presidente Zelaya ma per quelle della stessa democrazia honduregna che ha subito una forte battuta di arresto, proprio quando i movimenti sociali honduregni avevano concordato la candidatura indipendente del sindacalista Carlos H. Reyes per le elezioni di novembre. E forse impedire a un candidato di sinistra di rompere l’assetto politico bipolarista del paese e di sconfiggere la sua potente oligarchia è stato il vero obiettivo di questo golpe da tempo annunciato.

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5 Commenti

  1. Complimenti per l’articolo che espone chiaramente la situazione in Honduras. Non conoscevo la situazione, non ho sentito niente alla radio.
    Viene in supplemento di un film che un amico mi ha prestato Il Che (prima parte) che ho visto da qualche giorno.

  2. La sola cosa che rimpiango nel film del Che, ma penso che è volontario, è l’assenza di riferimento all’infanzia. E’ un film storico, mi manca un po’ la dimenzione intima, anche se c’è una parola molto importante del film:
    quando il Che evoca il sentimento d’amore universale.
    Avrei ben voluto una storia d’amore con la ragazza ( guerillo) e il Che. Ma forse nella seconda parte :-)
    Mi piace di più la parte con il vincolo del Che con i contadini o quando cura la gente.

  3. Mi spiace, Veronique, ma nemmeno nella seconda parte Soderbergh indulge a mostrare il coté sentimentale del Che. Quantunque il Che non fosse un santo. Cmq il film nel suo complesso merita.
    Merci per il commento

  4. Vedro la seconda parte, perché la personalità del Che mi interesse. Forse perché mi aspetto malinconia con il confronto del Che, la sua lotta ultima. Spero non troppo scènes di battiglia :-)

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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