Diktiriovskaja
di Giovanni Catelli
Dimmi, forse tu sai, ancora, i numeri degli anni, tutta la catena infaticabile dei giorni, che hai ceduto all’avvenire, o alla memoria, senza serbare per te che il puro istante, l’attimo, di gesti che segreti andranno col silenzio, con ogni tuo furtivo allontanarti nel domani : dove sono le ore, dell’ignoto guardarti, dal vuoto, nella stanza percorsa dai venti del settembre, dalla luce dell’alba, bianca, e senza peso, tutti gli anni che ho salvato a trattenerti, a circondare d’attenzioni quelle ore, quelle fragili evenienze del fuggire, del più lesto infinito dissiparsi : dove scappavi, tu, dove cercavi, oltre una pallida foresta di macerie, sola ed imprendibile, severa, con già pallida memoria d’altri viaggi, d’altre vite, città polverizzate, nella memoria o nell’oblio, forse smarrita, già lontana, oltre il dono sempre fatale della giovinezza : forse, non ci siamo davvero incontrati, nello spazio segreto, irripetibile degli occhi, quella stanza d’aria e di silenzio, dove proseguire soli, e avvicinarci, eternamente, oltre i mesi fondi e le separazioni, per colloqui di sere, autunni, treni vuoti, albe : ci siamo attesi, a lungo, semplicemente certi del nostro arrivo, in altri appartamenti, altri destini, città lontane, dalla paura e dal ricordo, silenziosi ospiti dell’ombra, passeggeri, nelle stazioni del tempo : tu sei rimasta, senza più parlare, in quelle stanze vuote sulla Diktiriovskaja, pettinandoti allo specchio, a volte cercando il crepuscolo ai vetri, oltre la fuga dei tetti, seguendo la luce nel cielo, vuotando piano le bottiglie, nella cucina popolata d’altre vite, dall’assiduo cadere della polvere, dai ritratti di bambini che ancora parevano chiamare ; io non ho più ricordi dal futuro, limpidi sguardi accanto alla finestra, sereni tragitti alla stazione, solo pallidi frammenti, un brindisi alla Juzni, un saluto, il suono del tuo riso, la certezza che il tempo viaggiasse lontano da noi, che il presente sempre ci potesse aspettare, come una perenne primavera, come la luce di quelle mattine invincibili, sul lungomare di Yalta, con ogni residua meraviglia offerta in dono, alle mani timorose, allo stupore del silenzio, alle voci che cercavano nell’aria tenue sostegno alle parole.
I commenti a questo post sono chiusi
lettura deliziosa, come un preludio. Grazie.
Molte grazie, di cuore, a Sparz, che ha sempre incoraggiato queste mie prose.
La prosa è notevole, ma mi lascia un senso d’incompiutezza. Voglio dire che non è Campana perchè alle volte la musicalità scade, e non è Rimbaud perchè spiega troppo (“la certezza che il tempo viaggiasse lontano da noi, che il presente sempre ci potesse aspettare”). Mi si potrebbe replicare che è Catelli, punto e basta. Ma io citando i due giganti credo e spero di fargli cosa grata, e se li cito è perchè a mio avviso ne vale la pena. Insomma, leggendo e rileggendo, mi trovo innanzi a un prosatore abile che talora è più abile che “di cuore”, e talaltra invece troppo “sentimentale” invece che abile. Occorrerebbe un’affettività più scaltrita, oppure una tecnica più infiammata. Affinché questa sequenza di parole – sostanzialmente sostantivi e aggettivi – raggiunga la miccia dell’esplosione lirica, manca qualcosa; è come se gli ingredienti ci siano tutti, ma mescolati in modo imperfetto. VAGABONDI, fra le ILLUMINAZIONI di Rimbaud, mi pare un esempio conchiuso, non più migliorabile, non perfettibile, della dinamica spazio/sentimento sviluppata (comunque bene, ripeto) in questo brano.
perché
perché
tal’altra
ci fossero tutti
tecnica infiammata – cos’è, il duodeno? la vescica?
bella ed affannata prosa scandita dalle pause “ossessive” delle virgole in un narrato continuo di visioni mnemoniche.