Dell’ordine e del lasciarsi andare

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Una conversazione con Giuliana Bruno fatta in esclusiva per l’inclito pubblico di Nazione Indiana da Paola Bonini (che qui ringrazio assaissimo)

Lo spazio delle immagini in movimento e il movimento del corpo fra le immagini, l’architettura come territorio psichico e la psiche come architettura che preserva la memoria. Il lavoro di Giuliana Bruno, docente di Visual and Environmental Studies presso l’Università di Harvard e più recente ospite di Meet the Media Guru, è un viaggio che si compie per ibridazioni disciplinari, in cerca di percorsi e linguaggi di confine – confini che la studiosa attraversa, trovando terre di nessuno, incroci di culture, luoghi che creano altri luoghi. Nella raccolta di saggi Pubbliche intimità: architettura e arti visive (Bruno Mondadori, 2009) mette a confronto gli itinerari fisici e virtuali che si intraprendono passeggiando per il museo, la città, il cinema – la memoria. Lo fa con femminilità perseverante: trasformando, anche nel pensiero, la qualità di ricettività, di penetrabilità corporea, in potenziale di creazione – ed emozionandosi, nell’accezione etimologica di movimento e psicofisiologica di reazione agli stimoli.

Lei paragona la passeggiata museale all’esperienza cinematografica: non c’è alcuna differenza fra un percorso immaginario e uno reale?
Certo che c’è: non volevo dimostrare che sono due percorsi identici, ma che sono stati considerati troppo separati. La mia idea è che il percorso reale comunque ne contiene un immaginario:  l’attraversamento di un luogo fisico implica anche la maniera in cui quel luogo è stato già visto e rappresentato. Ogni luogo, anche se non lo conosciamo, contiene dentro di sé immagini che fanno parte del nostro bagaglio culturale e delle nostre forme d’immaginazione. Quando ci avviciniamo a un luogo reale lo facciamo anche in maniera immaginaria, seguendo dei desideri, che a loro volta si basano su forme di rappresentazione: la maniera in cui è stato raccontato, fotografato, dipinto, ripreso. Viceversa, quando si parla di luoghi immaginari o virtuali – innanzitutto il cinema, che ha rappresentato il primo attraversamento non fisico di luoghi – secondo me non si è considerata abbastanza la dimensione fisica. Alla teoria del cinema è mancata, insomma, la sensazione dell’attraversamento corporeo che si compie anche in maniera immaginaria; come è mancato, a chi si occupa di architettura e di città, l’idea di capire che non basta guardare un edificio come fosse una rappresentazione piatta: bisogna considerare il percorso fatto dal corpo della persona che lo attraversa portando con sé un immaginario. La teoria classica, postsemiotica, del cinema – e questo può essere esteso ai linguaggi virtuali – ha messo troppo l’accento sull’occhio e non si è quasi mai occupata del corpo, della maniera in cui lo spettatore esiste, e della dimensione fisica del suo sguardo. Quel che volevo dimostrare è che anche lo sguardo tocca. Nelle sale cinematografiche c’è una partecipazione tra corpi, menti ed emozioni di persone che non si conoscono fra loro, e che dentro questo strano silenzio in qualche maniera mettono in discussione un percorso intimo, vissuto in pubblico.   

Come al museo…
Il percorso museale non è equivalente a quello cinematografico, ma si tratta di due fenomeni storicamente nati insieme, in quanto istituzioni del guardare. È una coincidenza, questa? Se lo è, è interessante: è il percorso fisico e virtuale di uno spettatore nato con la modernità, che ha imparato a viaggiare più velocemente, con l’immaginazione e con il corpo – al cinema e con i mezzi di trasporto. Quello spettatore è il nostro progenitore: la storia dell’ultimo secolo è segnata dal fatto che questi due percorsi sono affiorati insieme. E vanno visti proprio in quanto percorsi… Chi si occupa di cinema spesso mi accusa di aver avuto già in testa il digitale quando ho scritto queste cose: ed è vero, ma è vero anche che io la vedo così storicamente. All’inizio del secolo si entrava in un un teatrino prefilmico  (NdA: gabinetti delle curiosità, cosmorami, diorami, ecc.) – e si guardava da uno spioncino per esplorare degli altri luoghi. In origine il cinema non era un luogo chiuso, ma aperto, metropolitano, da cui si entrava e si usciva come si entra e si esce dalle gallerie d’arte.

Come cambia il rapporto con lo spazio filmico ora che la sua fruizione avviene sempre meno al cinema e sempre più attraverso la televisione?
La televisione è una dimensione completamente diversa: è più domestica, non la si porta con sé come si può fare, per esempio, con un lettore DVD. Mi ha sempre dato un po’ noia, perché è una specie di mobile, sta ferma…

Anche lo schermo del cinema sta fermo…
Ma ti muovi tu. Esci dal tuo domestico, dal tuo quotidiano: è una dimensione di pubblica intimità e non di intimità domestica. La televisione ha fatto entrare il pubblico in casa, e questa può essere una gran cosa, ma non ha la dimensione di mobilità del mezzo, che ti trasporta e ti lascia trasportare, ti tira fuori dal privato e ti mette in relazione di socialità. Il pubblico, al cinema, va reinterpretato in quanto spettatore e in quanto sfera pubblica e di condivisione delle cose. In questo senso il momento di trasformazione è interessantissimo. Molti parlano della morte del cinema, ma a differenza di altri io credo che morendo le cose diventano più interessanti: il cinema è come una mummia, e preserva i documenti e le tracce di una storia in un momento di trasformazione… Un momento è difficile, ma pieno di potenzialità.

Parliamo dell’architettura del cinema, inteso come arte e struttura.
Trovo che si sia sempre data poca importanza alla funzione dello spazio vero e proprio – non tanto al formato del film, ma proprio all’architettura del cinema. Quando teorizziamo uno spettatore cinematografico che se ne sta lì, assorto, senza distrarsi e muoversi, invisibile e senza corpo, abbiamo in mente un modello architettonico di cinema in cui non c’è altro. E questo è legato al cinema come linguaggio dominante hollywoodiano; ma quando è nato, il cinema era più vicino a un negozio, c’era una dimensione di movimento. I palazzi del cinema degli anni Venti ospitavano migliaia di persone – lo spettatore, quindi, si immergeva in che cosa? Era la stessa architettura a trasportare altrove, non solo quello che si vedeva: quindi, come il formato, essa fa parte del linguaggio e di come si è evoluto nel tempo. Ho provato a sedermi in ultima fila, in uno di questi palazzi ancora esistenti: non si vedeva niente, era come guardare lo schermo di un telefonino… L’esperienza era diversa, ed era atmosferica, come la definivano gli architetti: il film, in quanto oggetto testo, era una parte molto relativa dell’esperienza cinematografica.

L’esperienza del film e dell’architettura divergono anche per arbitrarietà; il primo è un percorso guidato. Ora che la fruizione è più domestica e solitaria e il mezzo – la tv – confonde le rappresentazioni  – film e telefilm iperrealistici, reality e cronaca iperspettacolarizzati – l’abitudine di farsi condurre appresa al cinema rende più manipolabile lo spettatore? Sto pensando alle immagini del World Trade Center…
Spero proprio di no… Dipende da come è costruito il linguaggio. Mi sono immaginata e mi immagino che essere guidati non debba necessariamente dire essere passivi, condizionati. Anche le mappe per me non sono una dimensione che bisogna per forza seguire: rappresentano un percorso che esiste e sul quale uno si può muovere in maniera abbastanza indipendente. Nel montaggio cinematografico, come diceva Ejzenštejn, ci sono ellissi, spazi vuoti, transizioni, salti di spazio e tempo… momenti che consentono di deviare.

Ma è proprio la sua capacità straordinaria di montaggio che non mi fa deviare… È il manuale dei sogni di propaganda e pubblicità…
Ma sono dimensioni di collegamento che devi fare tu – c’è sempre una possibilità di guardare altrove. Puoi essere guidato in una certa direzione, ma la capacità associativa di mettere insieme i pezzi è tua.
Nella campagna elettorale di Obama, per citare un esempio recente, tutto succedeva in simultanea, e noi eravamo abituati a essere sempre presenti… a un certo punto ho iniziato a percepirlo come un ologramma inutile. La rappresentazione finisce per essere più importante della realtà, certo – basta pensare al World Trade Center; e questo è chiaramente figlio delle immagini del cinema. La nostra memoria non è più una madeleine proustiana, l’immagine è divenuta importante nel nostro legame con il ricordo personale e la storia. È una cosa complessa, che ha a che vedere con un ordine e con un lasciarsi andare, con un percorso e con la capacità di deviare.

E ce l’abbiamo, questa capacità di deviare? Di leggere le immagini e sapercene distanziare?
Non sono pessimista, in questo senso. Va detto che sono cambiati gli stimoli, ed è un discorso che mi interessa anche a livello cognitivo; trovo affascinante cercare di capire quanto di tutto questo, quanta di questa memoria venga ritenuta. Quanto ti passa dentro anche se pensi di non accorgertene, e quanto il cervello stesso si adatti – perché gradualmente ci siamo adattati a una situazione che un secolo fa avrebbe potuto essere aberrante. Impazziremmo, se dovessimo contemplare un computer e le sue cento finestre come si faceva un tempo con un quadro. Si impara a capire su cosa concentrarsi e suo cosa no: se si mantiene attiva la propria capacità di relazione con il mondo non è detto che si debba essere sommersi dalle immagini, si può trovare una maniera di navigarle. Perché c’è poco da fare, non si può tornare indietro – tutto è già cominciato con il cinema: le cose si ripetono, ed è come se la gente se ne dimenticasse. Quando è nata la televisione si è detto che era morto il cinema; e non è vero. Quando era nato il cinema, che era morto il libro. A livello medico, un tempo, chi viaggiava in treno era soggetto a malattie psichiche. Oggi il treno ci sembra rilassante… lo viviamo come dimensione contemplativa: ma fino a qualche decennio fa la gente non era abituata a un linguaggio visivo così veloce. Era come il cinema, 24 fotogrammi al secondo. Ci siamo sempre dovuti adattare all’incremento, non è iniziato ora il bombardamento di immagini: ne sono responsabili principalmente il cinema e i mezzi di trasporto. In questa prospettiva si capiscono delle dimensioni del quotidiano – la storia per me è importante non a livello nostalgico, ma perché è archeologia, esiste nella maniera in cui il mezzo si sviluppa. Dimenticarsene vuol dire non capire le potenzialità di questo mezzo. La scommessa seria è continuare a essere attivi.

La memoria, storica o personale, per attivarsi ha bisogno di uno spazio?
Nella filosofia, ma anche nell’idea comune, la memoria è legata al tempo. A me invece, siccome sono ossessionata dagli spazi in qualsiasi dimensione vengano rappresentati, sembra che ci sia un rapporto – che è stato visto, studiato, ma spesso dimenticato – dello spazio con la memoria. I luoghi stessi contengono le storie: le raccontano, ne conservano le tracce, comunicano delle atmosfere. Le sensazioni che abbiamo rispetto a un luogo sono una stratificazione della maniera in cui esso è stato vissuto. Il rapporto con il luogo è intimo, ma anche molto pubblico: a me questo sembra fondamentale, in alcuni percorsi di pensiero in particolare. Il modo in cui la rappresentazione delle memoria è emersa nella storia della filosofia è legata al poeta Simonide. A un pranzo cui è invitato cade il soffitto e tutti muoiono, tranne lui; gli viene chiesto di identificare i corpi, e avendo una memoria spaziale, lui si ricorda non le persone, ma dove stavano sedute. L’arte della memoria, che poi Cicerone e Quintiliano hanno elaborato, informando tutta la retorica, è nata sulla base di questo aneddoto. Non solo il modo in cui ricordiamo, quindi, ma anche il modo in cui ci rappresentiamo a livello di articolazione di pensiero è legato allo spazio. Quintiliano sostiene che quando ci si deve ricordare qualcosa si immagina un luogo, che può essere una stanza, un edificio, o addirittura una città – non è bellissimo? E per ricordare bisogna muoversi in questo spazio, investire delle energie, fare un percorso. La memoria non è un dato, ma attiva l’immaginazione e l’immaginario dello spazio. E viceversa: perché diventa anche una maniera di conoscere i luoghi, di capire come attraversarli nei loro sostrati di storia.

Certi luoghi sono deputati al ricordo: penso al cimitero.
In un breve saggio di Michel Foucault – che di spazio si è occupato poco, lui vedeva le cose in maniera molto più disciplinare e disciplinata di quanto a me a questo punto piaccia – si parla del cimitero come di un giardino, o come di un cinema: un luogo di strati, dove si raccolgono cose e memorie, che vanno comunque attivate e riattivate. Sono deputati a questo, vi si viene attratti per questo motivo: c’è un rituale, ma non è passivo. Sono stata a lungo contraria al rituale, ma ora ho capito che ha una sua funzione. Ti mette in condizione di dover riattivare qualcosa, e tenerlo dentro.

Anche il libro è uno spazio?
Certo! La mia idea di spazio non ha a che vedere solo con l’architettura. In italiano esiste una parola bellissima: spaziare, che indica la capacità di fare attraversamenti, di allargare e di collegare, di compiere un percorso di associazione. Letteratura e libri sono fra le cose che da questo punto di vista hanno fatto di più. Col libro, inoltre, c’è un rapporto fisico: è stato il primo oggetto contenente un’architettura di memoria trasportabile, al quale si può tornare in momenti diversi, e leggendo fa ricordare e vedere delle cose che non si vedevano prima. Per me è importante che i libri stessi siano degli oggetti di design, che venga voglia di toccarli: non è solo una questione di sguardo, ma anche di tatto. Le librerie, infine, il modo in cui i volumi sono associati, sono un museo personale, lo specchio del percorso delle persone e del loro modo di organizzare il pensiero…

L’ultimo spazio di cui si occupa nel libro è il corpo. Oggi le immagini in movimento ci restituiscono, soprattutto nel formato televisivo delle narrazioni mediche e investigative, un’ossessione di corpi morti, malati e dissezionati: al di là del loro statuto di esorcismo visivo, cosa ci dice questo?
Il corpo è stato sempre compreso nel discorso della rappresentazione. Il tracciato che ho voluto ripercorrere studiando la corporeità dell’immagine vuole che il primo cinema sia stato, forse, la Lezione di anatomia di Rembrandt. Per la prima volta c’era una forma spettatoriale, delle persone che guardavano un corpo, e dall’altra parte c’era il corpo dello spettatore che guardava chi guardava: un insieme di sguardi che circolava attraverso un oggetto corpo, inquietante, ma di scoperta. Un’altra cosa curiosa è che una delle prime sale cinematografiche a Napoli è nata al posto di un teatro anatomico: la disciplina alta dei grandi dottori è diventata un teatro popolare, dove la gente andava a vedere un cadavere che veniva scomposto. Ma un bel giorno non ha più funzionato, e cos’hanno fatto? Ci hanno messo un cinema. Ma come gli è venuto in mente? Gli è venuto in mente perché in fondo fa la stessa cosa…

La morte al lavoro…
Già. E poi pensiamo a chi, alle origini del cinema, vedendo un volto in primo piano pensava fosse una testa mozzata – cosa che per certi versi era. In questo immaginario, voglio dire, la relazione fra l’alto e il basso c’è sempre stata. Quel che cambia è il rifiuto del confronto con qualcosa che sembra si voglia e si possa mettere da parte: nel nostro mondo contemporaneo si può fare anche finta di non invecchiare, figuriamoci se si accetta la morte. La dimensione sociale, l’attrazione diffusa per questo immaginario macabro, ci dice che questo rapporto non è risolto, e non è risolvibile in altri modi. Abbiamo parlato di rituale: che cosa ci siamo inventati in questo mondo moderno per sostituirne la funzione e digerire – perché è una questione di digestione – la morte? La ripetizione delle immagini che la rappresentano… e anche Freud insegna che la ripetizione è una maniera per superare il trauma. Non abbiamo più un’articolazione di linguaggi sociali di pubbliche intimità, che ci permetterebbero nel pubblico e nel privato di condividere questo momento, di attraversarlo e di digerirlo; e la televisione, i mezzi di comunicazione lo hanno capito – oppure no, ma comunque funzionano da sintomo. Certo non risolve, se vedo un cadavere all’obitorio in televisione, ma è una ricerca, che tende alla possibilità di entrare in un percorso di identificazione e di partecipazione di intimità pubblica che ci permetta di ragionare sul decadimento fisico, sulla scomposizione e sulla morte.

NdA. L’ho detto che Giuliana Bruno sorride parecchio, anche con gli occhi, e ha uno dei sorrisi con gli occhi più luminosi che si siano mai visti?

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4 Commenti

  1. Grazie a Gianni-tramite e a Giuliana

    La mia idea di spazio non ha a che vedere solo con l’architettura. In italiano esiste una parola bellissima: spaziare, che indica la capacità di fare attraversamenti, di allargare e di collegare, di compiere un percorso di associazione. Letteratura e libri sono fra le cose che da questo punto di vista hanno fatto di più.

    bellissimo concetto e precetto di scrittura
    (almeno per me)

    [ oh gli scritti più belli e profondi van sempre deserti di commenti, si sa ]

    ,\\’

  2. Argomento straordinario.Esiste una pubblicazione di Giuliana Bruno in merito? La memoria degli spazi che cambia attraverso le diverse abitudini gestuali,la rapiditù di rifrangenza nel vissuto imposto e in quello scelto,le traiettorie semanticghe dsi ribaltamento,tutto un mondo esistentissimo importante da individuare. e a tuttora poco preso in considerazione,mentre invece a mio avviso è bussola quotidiana.grazie!

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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