Antichrist
di Mauro Baldrati
Sembra di essere tornati negli anni Settanta con l’ultimo film di Lars von Triers, quando filmakers e gruppi teatrali d’avanguardia proponevano performances che venivano accolte con fischi, insulti, contestazioni. Queste reazioni, talvolta anche cruente, erano parte della performance stessa, costituivano un modus comunicativo tra artista e pubblico, benché polemico e conflittuale.E’ quanto è accaduto in una sala bolognese dove si proiettava Antichrist. La sequenza iniziale, un rapporto sessuale tra i due protagonisti – e unici personaggi di tutto il film – la bravissima Charlotte Gainsbourg (straordinariamente sospesa tra la bellezza anglo-intrigante della madre Jane Birkin e la bruttezza esistenzialista del padre Serge Gainsbourg) e un sempreinforma Willem Dafoe, con un primissimo piano della penetrazione, ha suscitato improvvise, torrenziali risate, che si sono protratte anche durante la scena successiva, quando il loro figlioletto si arrampica sul davanzale della finestra e, forse, si butta di sotto, in un rallenty così estremo da risultare aggressivo, scandito dalle note struggenti di Lascia ch’io pianga di Haendel.
Il resto del film è una lunga, angosciante elaborazione di questo lutto, fino a una discesa agli inferi che lascia molte domande senza risposte certe.
Lui è uno psicoterapeuta, e decide di sottrarre la moglie alle cure farmacologiche di uno psichiatra che definisce il suo dolore “particolare”. Si trasferiscono in una baita isolata tra i boschi dove Lui, contravvenendo tutti i protocolli di psicanalisi che vietano di prendere in cura un familiare, assiste Lei cercando di riportarla alla realtà. E’ un confronto difficile: lo psicologo politicamente corretto, e quindi la razionalità, rimuove il dolore del padre e lavora sullo strazio senza fine di Lei, che non si dà pace, che si consuma tra sensi di colpa e accuse. Arrivano segnali inquietanti, visioni, che iniziano a configurare un complesso codice di minacce, messaggi di pericolo, di morte e di orrore della natura ferina, demoniaca. E di Lei. Lei, la donna, che sembra assorbire la linfa maligna della natura, sembra chiamarla su di sé e dentro di sé, attraverso una identificazione con eventi del XVI secolo, quando le donne venivano torturate e bruciate perché accusate di essere creature del demonio. Lui scopre una raccolta di materiale in soffitta, disegni di torture, ritagli di articoli, pagine di libri di storia. E’ un lavoro letterario che Lei ha iniziato in passato sulla strage delle streghe, che strappano brividi allo psicologo razionalista, che inizia a sospettare una sorta di transfert con la presunta natura demoniaca della donna.
E qui, il demone irrompe. Quando Lei si dichiara guarita, lasciando Lui di sasso, e il film sembra subire una battuta d’arresto, lo stordisce con una sassata alle spalle, gli scaglia un macigno sui genitali (grida di raccapriccio dalla platea), lo masturba, con un primo piano di eiaculazione di sangue (nuove risate e gruppi di spettatori che escono dalla sala imprecando), poi smonta una pesante mola di pietra da arrotino, gli fa un buco in uno stinco con un trapano e gli applica la mola, imbullonata. Quindi se ne va, a vagare tra la natura demoniaca.
Lui si sveglia urlando, e per venti minuti striscia con la mola attaccata alla gamba. Lei lo cerca, grida “bastardo!” (cui risponde la platea con: “bastardo chi? Lui?”), lo trova, lo disseppellisce da una piccola caverna dove si è rifugiato, lo trascina di nuovo in casa, Lui sviene, Lei cerca di farsi masturbare dalla sua mano inerte (risate e battute dalla platea), poi prende un paio di grosse forbici, si taglia il clitoride in primo piano (urla di orrore, soprattutto femminili, mentre altre persone escono dalla sala), gliele pianta in una gamba quando si accorge che Lui sta svitando il bullone della mola, fino all’inevitabile, prevedibile epilogo.
Forse Lars von Triers, con questo film, ha voluto mostrare l’impotenza della psicanalisi, il fallimento della razionalità di fronte al lato oscuro, maligno della natura umana. Oppure, più semplicemente, della donna, rappresentando così il suo terrore del femminino, ossessione di cui soffrirebbe il regista, da poco uscito da una pesante crisi depressiva.
Girato con tecniche avantgarde, bianche e neri lividi, apo e iper-cromatismi, inquadrature sghembe, movimenti di macchina nervosi, da filmaker underground, rimandi pittorici (molto Hieronymus Bosch), supportato da una poderosa équipe di consulenti psicologi e horror (c’è anche un insegnante psicologo di Willem Dafoe), è un film che lascia il segno, benché fino alla fine ci si domandi cosa ha voluto dire veramente, o domandarsi il regista.
Forse il vero finale l’ha riassunto uno degli spettatori sopravvissuti alla proiezione, quando ha allargato le braccia e ha gridato, alla platea decimata: “Ci vediamo all’Antichrist 2”!
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Perchè lui e lei con la maiuscola?
Sono sempre più convinto che von Triers sia un regista sopravvalutato: non mi piacciono questi mezzucci da horror di quarta (è facile sconvolgere così) come non mi sono mai piaciute tutte le sequele di mozioni degli affetti, di colpi emotivi sotto la cintura che infliggeva sistematicamente agli spettatori, alternandoli e mischiandoli a istanze avanguardistiche che fanno pensare a un maldestro “brechtismo di destra” (ircocervo horribile). Vedi “Dogville”: vuole insieme “straniare” con la scenografia da cantina sperimentale, e “coinvolgere” e spingere all’identificazione irrazionale lo spettatore nella sequela di atrocità sociali. Ma lo si sapeva già ai tempi di Brecht: o di qui o di là. E poi: che originalità parlare del fallimento della psicanalisi…
Scrivo la prima cosa che mi è venuta in mente, la prima cosa che ho pensato in sala qualche settimana fa: si può ipotizzare che, a parte tutto, Lars von Triers sia un grande “paraculo” ?
Scrivo questo facendo presente che certe cose si possono pensare solo dei “grandi”. L’altro grande “paraculo” è Lynch ad esempio. Ricordo di aver visto in un cinema d’estate, senza aria condizionata, in una specie di sauna, tutto “Inland Empire”, con la gente che scappava disperata e qualche raro santone che piangeva commosso.
Le sequenze più crude dell’Anticristo, quelle da leggere in senso necessariamente psicanalitico, sono “pesantissime” da vedere e, proprio per questo, banali.
Quando ho inziato a scrivere mi sono accorto che non ricordavo i nomi dei protagonisti. Così ho guardato il cast sui siti specializzati e ho scoperto che non hanno nome, Lui e Lei. Nelle intenzioni del regista sono dei personaggi assoluti, con la maiuscola.
Non conosco il significato di paraculo. Certamente è uno che sta male, e si può forse definire uno che si compiace del proprio star male. Ma lo fanno in molti. Il più grandi degli autocompiacenti era Baudelaire. Quindi è in buona compagnia…
Ma se il pesante è quasi sempre banale e il leggero è quasi mai interessante, non è poi che la prossima volta che vado al cinema qualcuno si metterà a sghignazzare anche per la Love Scene di Zabriskie Point?
La categoria antropologica del “paraculo” è ricca di sfaccettature e controverse interpretazione. Volendo semplificare, nello specifico di Lars von Triers, ho l’impressione che giochi a sorprende lo spettatore, a schifarlo, a far parlare di sé, soprattutto quando l’eccesso non è niente altro che un forma di compiacimento dell’autore (e su questo immagino Baldrati convenga). Non sono d’accordo ad esempio con Sanguineti (Edoardo, e non Tati) quando paragona Lars von Triers a Buñuel, o a Ciprì e Maresco in quanto artisti RIVOLUZIONARI nello stile. Oltre tutto, e per una mia deformazione professione in fatto di sofferenza ed incredulità, sono sempre scettico nel merito della sofferenza pubblicizzata; sono portato a leggerci dentro un’ironia tutta speciale che forse colgo solo io.
Non credo che Lars von Triers farà mai più un film del genere.
Non voglio vedere il film, perché non posso soffrire di vedere una mutilazione sessuale. Il solo pensiero mi dà la nausea. Per trattare del lutto o della follia non è bisogno mostrare il corpo femminile mutilato.
Preferisco vedere l’ultimo Almodovar ( ho visto tutti i films) e quelli di Jane Campion.
Per il lutto penso à la chambre du fils de Moretti, bellissimo.
ou Petits arrangements avec la mort de Ferran,
ou Tout sur ma mère d’Almodovar.
Von Trier è un regista che ripete ossessivamente sempre lo stesso discorso, e qua sta la sua grandezza (come in Dogville) e le sue cadute (come in Antichrist). A volte riesce a trovare il piano di consistenza del discorso, a volte no. E credo che riesca quando pone il suo discorso – sempre un’ethica more geometrico demonstrata – sul piano astratto, dove la messa in scena stessa esibisce l’astrazione. Quando invece, come in questo film, opera a rovescio, sfiora in effetti il grottesco, sebbene il discorso in sé sia interessante (e non condivido assolutamente il giudizio di Alias, che qui la donna è vista in sé come demone: piuttosto si tratta dell’introiezione di un discorso culturale in cui vittima e persecutore trapassano l’uno nell’altro – e questo meccanismo è giocato bene da Von Trier).
ma certo che von triers è un paraculo, del resto la maggioranza di quegli artisti, da warhol in poi che hanno deciso di collocarsi nella difficile congiunzione tra arte e industria lo sono. ma è anche uno dei più geniali registi della sua generazione, almeno nelle opere più riuscite (penso all’inesauribile inventiva di kingdom, all’incandescenza emotiva di le onde del destino ma anche all’humour nero del grande capo, tutto scrittura e recitazione, che rivaleggia con i grandi maestri dell’assurdo). è anche vero che quest’ultimo film, talmene scivoloso a livello interpretativo da costringere il coraggioso recensore a descriverne semplicemente le scene, corre il rischio, sempre in agguato per chi come von triers è sempre stato in equilibrio tra una dimensione ultraautoriale e una (altrettanto ultra) spettacolare, di far precipitare il suo cinema nel baratro della cazzata pazzesca.
p.s.
nei titoli di coda, tra i tanti esperti di tutto, c’è anche una voce che recita : esperto di misoginia
Beh, se ha suscitato tutto ‘sto casino in sala, come non succedeva dagli anni Settanta (il che è tutto dire)…allora vuol dire che qualcosa ha funzionato in questo film, almeno nel rompere col gusto post-tutto del cinema di confezione -d’autore o meno . Von Trier è quello che ha fatto LE ONDE DEL DESTINO? (Breaking Waves) e Dogville? Questi li ho visti: il primo m’intrigò molto, c’era tensione, un punto di vista molto interessante; Dogville mi lasciò un po’ perplesso, secondo me giungeva con almeno quindici anni di ritardo , e altri han fatto meglio di lui (mi viene in mente RITORNO AD ALPHAVILLE, di quello, il francese della new wave (ahi, le mie amnesie!) e la messa in scena di TONY SERVILLO con FALSO MOVIMENTO. Andrò a vederlo, e debitamente messo in guardia dai colpi a tradimento, grazie a voi commentatori/postatori.
qualsiasi film di lars von trier andrebbe visto a prescindere dal contenuto, perche’ dei geni di ogni settore bisogna sempre conoscere tutto.
ovvio che tra tutti gli esperimenti9 i geni abbiano una maggiore probabilita’ di sbagliare”” qualcosa, o comunque di non essere compresi dal pubblico.
andro0′ a vedere antichrist con questo spirito, e se anche non dovessi apprezzarlo come altri film di von trier, non ne faro’ un dramma.
Di fretta perché sono in partenza. Grazie per i contributi intanto. Sulla presunta natura demoniaca della donna (marco). Non riesco a vedere un disegno preciso, culturale o psicologico, nelle intenzioni del regista. Per dire, ci ho trovato anche una cover di Shining, che però è nitido, lineare, mentre antichrist non lo è del tutto. La Natura è piena di segnali di morte, di male (il capriolo col feto morto, gli uccellacci, gli alberi che si spaccano, il vento, i toni dark ecc), e la donna sembra assorbirli, sembra subire una sorta di trasfigurazione nel male e nella follia. Non mi convince il discorso del passaggio tra vittima e persecutore. Però sono per così dire letture terziarie di me spettatore. Più semplicemente mi sembra che von Triers abbia voluto scaricare vibrazioni negative, violente, subendo una sorta di soddisfazione nella sofferenza; cioè un tentativo di esorcizzare immagini ossessive rappresentandole col massimo della violenza espressiva. In altre parole: una sorta di ribaltamento – o negazione – dell’atto creativo come “pensare” dentro lo stesso pensiero, per un grido e un tuffo nel buio che annulla il pensiero stesso –
Per restare in tema “genitali”, vi citerò un discorso che ho sentito fare dal vivo ad Antonio Moresco a gennaio durante una riunione alle Manifatture Knos di Lecce (spero di essere il più fedele possibile all’originale), permettetemi la simpatica divagazione: «A me questa storia del genio non sta bene. Chi è il Genio: forse uno che ha due cazzi? È sufficiente averne uno e saperlo usare bene!»
Ovviamente riporto a orecchio quelle parole, sperando che l’elicio Antonio non mi fulmini dall’alto.
p.s.
Secondo me von Triers ne ha due (in senso nevrotico).
Se avete tempo da perdere, vi segnalo questo vecchio thread interessante
https://www.nazioneindiana.com/2003/12/28/nuovo-cinema-paraculo-come-ti-smonto-e-rimonto-unumanita-da-cani/
E giusto per il piacere di rompere i coglioni, vi elenco i maestri del cinema contemporaneo che mi fanno sempre più venire l’orticaria
von Trier (integralmente)
Tarantino (quasi tutto)
i fratelli Coen (vedi sopra)
Credo che l’interessante del discorso di Von Trier (al di là della su resa filmica poco soddisfacente) sia proprio la culturalizzazione della Natura. E’ qui che le interpretazioni di un vontrier misogino ecc… sbagliano, non cogliendo proprio questo, che la vicenda parte dall’introiezione di un dispositivo culturale che va a semantizzare in quel certo modo corpo/natura. La donna – “soggetto” di quel discorso – ne è oggettivizzata e lo fa proprio, lo attiva. Quella che tu dici “trasfigurazione” a me pare essere proprio questa presa in carico su di sé di quel dispositivo culturale “sacrificale” – una lettura, questa, che mi pare tanto più probabile proprio in relazione a tutta la “poetica” di vontrier, a tutto quel discorso (lo stesso, dicevo) che ha fatto in tutti i suoi film.
La chambre du fils de Moretti rappresenta l’elaborazione del lutto in una famiglia borghese, il tipo di famiglia che Moretti continua a proporre da Caro diario almeno in poi.
Trovo la rappresentazione dell’elaborazione del lutto compiuta in Antichrist molto più efficace. Non saprei come dire, è come se fosse più di una rappresentazione, è come se coinvolgesse in uno psicodramma.
Peccato che la recensione del film non sappia andare in profondità, trovo quest’ultima fatica di Von Trier non certo una caduta, piuttosto un momento emblematico della sua Opera.
https://www.nazioneindiana.com/2005/03/06/dogvilleovvero-un-trattato-di-teologia-politica-per-capire-il-nostro-tempo/
Ribatto con questo allora :-)
Vi prego … non fermatevi alla trama ed alle considerazioni del pubblico … c’è molto di più.
Con stima infinita.
Rob.
ciao a tutti,
ho guardato il film un paio di sere fa. confesso che non l’ho trovato il migliore film di von trier, non ha la stessa forza dirompente ed emblematica di “dogville”, “le onde del destino”, “dancer in the dark”, “gli idioti”, ed ho trovato che l’inizio stile videoclip/pubblicità in montaggio alternato tra la scena d’amore e la morte del bambino c’entrasse poco con il resto del film – una scena talmente estizzata che non ti lascia dentro nessun dolore, ma solo bellezza, e ritmo, e immagini giuste al posto giusto, e rallenti ispiratissimi in una fotografia stupenda, come se il “dolore dello spettatore” fosse già questo arrendersi alla bellezza della forma cinematografica senza poter davvero accedere al dolore della storia che quella forma sta raccontando.
però non ho trovato nessun compiacimento. nessuna voglia di stupire, scandalizzare, far balbettare, solleticare lo spettatore. molto più semplicemente ho avvertito il coraggio di una persona, in questo caso del regista von trier, che cerca di restituire con i suoi mezzi – del resto, a possederne mezzi del genere! – la sua visione del mondo e delle cose.
c’è uno scambio di battute tra i personaggi del film in cui loro dicono – cito a memoria – freud è morto, il modo di interpretare i sogni non serve più. sembra una battuta buttata là, ed invece alla fine del film ti rendi conto che in quella battuta c’era già il senso del film, perchè le immagini si dipano molteplici, doppie, ramificate proprio al modo dei sogni.
so che appare un modo datato di guardare le cose. ma a guardare bene il film cerca di mettere in scena le forze, gli impulsi, le scorciatoie, la carica, gli istinti e il desiderio che da sempre covano e governano gli uomini. la grande invenzione della psicoanalisi – anche se con il tempo ha finito per incatenare nelle formule il magma costitutivo dell’inconscio, basta leggere deleuze per capirlo – era questa: indicare e cercare di scoperchiare il fondo in cui si annidavano dentro di noi il primitivo, l’ancestrale, la vita degli antenati, gli espedienti che la specie ha messo a punto nei millenni che ci hanno preceduti. per questo regge poco la querelle sulla misoginia, che con i film di von trier torna puntale come un ritornello: perchè i due personaggi, da una parte la razionalita di lui, dall’altra l’istintività di lei, sono la faccia della stessa medaglia. del resto, nel primo capitolo del film, dall’esplicita denominazione “dolore”, i due personaggi, l’uno di fronte all’altro, mentre stanno discutendo, con uno scavalcamento di campo degno della storia del cinema – almeno per la forza di questa scelta che è tanto estetica quanto narrativa – li ritroviamo entrambi sul lato destro dello schermo, come a dire, assumendo entrambi la stessa posizione, che i due personaggi in fondo sono la stessa cosa, e che la loro somma, o moltiplicazione, in realtà non dà altro che la “visione”, non trovo parola migliore, di von trier, cioè di tutti noi, con un’aderenza non alla realtà, ma al modo in cui il Reale, per dirla con lacan, affiora dentro di noi.
(tra l’altro, solo così si riesce a capire il perchè di questo titolo, l’anticristo, appunto. il film infatti non ha nulla a che vedere con l’avversario o l’antagonista di cristo, molto più semplicemente evidenzia che gli esseri umani hanno poco in comune con la psicologia cristiana che da sempre, per sua stessa missione, colpevolizza e mette all’indice le forze misteriose che si agitano dentro di noi, scindendo in questo caso ciò che è umano dall’umano, dimenticando e nascondendo una delle parti più umane dell’umanità).
per questo lo trovo un film non riuscito, ma coraggioso. perchè il regista analizza fino in fondo se stesso, senza paura di cadere negli eccessi, di essere così leale con se stesso da sembrare agli occhi degli altri ridicolo, per consegnare una sorta di mappatura dell’umano, quando l’umano si percepisce senza esserne coscente. molti hanno accusato von trier di essere anti-umano, di allestire storie che uscivano dalla messa in forma delle più elementari forze dell’umanità, e penso che molti di questi commentatori si ricrederanno di fronte a questo film, perchè è raro trovare un cinema così intenso che dispiega in modo molteplice e doloroso le forze che ci governano, con cui tutti giorni, istante per istante, scendiamo a patti, stringendo compromessi che salvano e solidificano questa cosa che chiamiamo civiltà.
la cosa divertente in mezzo a tutto questo è vedere come i più grandi registi oggi arretrino rispetto alla narrazione classica per presentarci queste mappature dell’umano, del modo di percepire e sentire dell’umanità, che nessuno negli ultimi tempi ha avuto la forza e la capacità di mostrare: tanto che l'”antichrist” stringe molti legami con “inland empire” di david lynch, o “un’altra giovinezza” di francis ford coppola. neanche questi film sono davvero riusciti. ma forse la scommessa è troppo grande per essere vinta. anzi dev’essere questo, ho pochi dubbi a proposito.
a presto
giuseppe zucco
Sì, Lars von Triers ha visto Inland Empire.
Morgy, how would you say in english “uallera infinita”?
a caldo il mio commento era simile a quelli sopra pubblicati, ora, a freddo, mi resta l’impressione di una storia del tutto trascurabile, di una prova registica non delle migliori, ma anche alcune vivide immagini, e questo mi porta a pensare che non siamo più abituati ad un cinema di immagini, se un utente medio di cinema oggi andasse a vedere un film di Antonioni, metti che ne so L’avventura, Blow up o Professione reporter rimarrebbe spiazzato dalla difficoltà di rintracciare il filo narrativo, di fronte ai pochi e scarni dialoghi, nonché ai movimenti di macchina che mostrano più che spiegare… insomma Lars Von Trier rimane uno dei pochi registi in circolazione che abbia ancora un’idea in testa di cinema… mi ha colpito poi nei titoli di coda l’omaggio a Tarkoskj, un regista che avevo coltivato all’università ma che avevo trascurato da un pezzo.
la volpe, il corvo e il cerbiatto sono simboli, come simbolica e bellissima è l’ultima scena e come sono belle le prime scene dell’atto sessuale e della morte del bambino, ripeto belle immagini, vivide, che restano impresse nella retina e lavorano in profondità, delle parole e della trama non ci resta nulla, se ne vanno via come il sale del mare dopo una doccia, se penso alla mia esperienza di cinefilo mi rimangono in testa soprattutto le immagini, penso ai cavalieri con i mantelli svolazzanti di Sergio Leone, o alla danza nello spazio delle astronavi di Kubrick o al generale che cavalca il missile atomico nel Dottor Stranamore, o i quadri viventi di Barry Lyndon, o il pianosequenza di Donnie Darko nella scuola, o Charles Foster Kane che passeggia nella sua reggia-mausoleo, Kandalu, o l’esplosione finale di Zabriskie Point…
Come diceva il verso dell’Eneide che apriva la Traumdeutung?
Se non potrò piegare gli dei del cielo, rimesterò gli inferi.
Ora lo possiamo ben leggere come il manifesto di una sconfitta:
cosa ci dice in più il ricalco di von Trier?
helena: Morgy, how would you say in english “uallera infinita”?
It’s such a bore
@ helena,
se anche a me il von Trier e il Tarantino fanno venire un’orticaria boia (io ci aggiungo anche il David Lynch), consentimi di dissentire sui Cohen. Un esempio di sfuggita: “Non è un paese per vecchi”. Ora, quasi tutto il film è giocato sull’inseguimento tra il killer e la vittima. Ebbene, il “canone” vorrebbe che la scena dell’incontro tra i due e dell’uccisione dell’inseguito fosse il clou narrativo, la scena madre per eccellenza. E invece questa non viene nemmeno fatta vedere allo spettatore, solo fatta immaginare. Per me è sufficiente questo aspetto di rovesciamento delle regole narrative a renderlo un capolavoro.
PS.: Non ho letto il libro, ma anche se lì vi fosse l’omissione, ciò non toglierebbe nulla alla narrazione filmica
Chiuso l’OT
leggendo la rece sembra di vedere il film, come essere in sala.ci sono così tanti commenti, appassionati nel bene e nel male che mi incuriosisce assai,però non ho una gran voglia di assistere a scene horrr-sessuali.Cmq grazie di averne parlato.
@nicola pasa
Cosa sarebbe il cinema senza il linguaggio delle immagini.
Il cinema non è (solo) la storia (la sequenza degli eventi narrati per il tramite degli esistenti).
Il cinema è un linguaggio, come lo è, da sempre, quello associato alle arti figurative.
Lo spartiacque è questo.
C’è chi usa il cinema limitandosi a narrare storie (dalla commedia americana a Verdone).
E c’è (per fortuna) chi lo usa come strumento di comunicazione, anche, e, soprattutto, simbolica ed allegorica, quasi come se lo schermo non fosse solo lo schermo, ma, anche e soprattutto, una tela pittorica.
Questi registi (le cui immagini ti rimangono impresse), ci costringono a riflettere, ad interpretare, ed a recuperare parte di quell’immenso patrimonio comunicativo, che rappresenta l’immagine, quando è usata con sapienza e consapevolezza del mezzo.
Ora, anche qui, io credo che chi si limita a cercare di capire la storia (come lo stesso Mereghetti), sbaglia, come dire, la scelta della lente con cui analizzare questa, come tante altre, opere.
Chi, invece, si spinge oltre, e cerca d’interpretare i segni, le allegorie, i simboli, credo che non finisca più di rimanere catturato da un regista che è, si, un provocatore, ma che utilizza fino a tre cineprese (come nel caso di specie), per tentare di restituire al suo spettatore, tutto ciò che, con quest’opera, ha tentato di racchiudere. E sottolineo il tentato perché lo stesso Antonioni diceva che il film non è che una verifica parziale di ciò che è l’immagine rivelata:
“Ma noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’é un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai.” (Michelangelo Antonioni)
Vedetela come volete ma io ammiro questo sforzo, e questa categoria di registi.
Sto pensando (dovrei dire addirittura) questa estate di fare un viaggio in Danimarca, e di andare a visitare il centro di produzione Zentropa … chi fosse interessato può contattarmi dal mio blog.
Grazie a tutti.
Rob.
Sono pochi i registi di cui amo davvero i film – nel modo in cui posso amare un libro o uno spettacolo teatrale o una canzone – (qualche film di Pasolini, Bergman, Nouvelle vague, tutto Tarkovskij, Bellocchio, Nanni Moretti): Lars Von Trier è tra questi, in particolare per Le Onde del Destino, Dogville.
Antichrist – che a Tarkovskij è dedicato – mi ha impressionato positivamente. Ho pensato le stesse cose che qui ho letto riguardo alla pesantezza di alcune scene.
Ho trovato tutto il materiale astratto del film reso in modo molto organico (meccanismo sacrificale, natura maligna ecc..), tendo però a preferire il non-detto per alcune scene “pesanti” che, metaforizzate in modo più lirico e leggero, avrebbero mosso di più la fantasia e i sensi degli spettatori.
In Stalker o in Andrej Rublev di Tarkovskij c’è moltissimo dolore ma il regista non spettacolarizza continuamente il film, anzi lo rende un’opera quasi mistica sia nei modi di realizzazione che negli intenti.
Con questo non voglio dire che Von Trier abbia particolari intenti di spettacolo, ma giudico il lirismo “leggero” di Tarkovskij molto più corretto per il tentativo del cinema di avvicinarsi a realtà altre..
difatti la mutilazione dei genitali della donna non rappresentano l’elaborazione del lutto bensì la punizione ad una natura indomabile e satanica, la natura in generale quanto la natura femminea..
Ma se il film non lo vedete.. quantomeno non commentate…
In ritardo sulla ‘discussione’…come sempre Baldrati, al di là di quello che scrive, rivela una forza narrativa molto interessante.
Perché i film ce li fa vedere (anche a me che non l’ho visto e mai lo vedrò, perché se horror deve essere…che sia horror puro…)
Leggendo la sua recensione ho ‘viaggiato’ tra i fotogrammi
Pierfrancesco
Tarkosvskij?? 0_O ma lasciamo perdere, per carità! Von Trier è un regista di finzione, fintissimo, che finge, che si sta sempre a guardare… è un misogino schifoso, malato, con una mentalità neomedievale, regressiva.
E soprattutto, molti commentatori si impegnano a dare interpretazioni cerebrali del regista, andando alla deriva («un cinema così intenso che dispiega in modo molteplice e doloroso le forze che ci governano, con cui tutti giorni, istante per istante, scendiamo a patti» .. «la vicenda parte dall’introiezione di un dispositivo culturale che va a semantizzare in quel certo modo corpo/natura. La donna – “soggetto” di quel discorso – ne è oggettivizzata e lo fa proprio, lo attiva» .. «una sorta di ribaltamento – o negazione – dell’atto creativo come “pensare” dentro lo stesso pensiero, per un grido e un tuffo nel buio che annulla il pensiero stesso» ..).
Tante parole, per non dire che ha girato l’ennesimo film onanistico ! Una supercaz..ta! ;)
L’atto intellettuale, il cinema a tesi è scivolosissimo. Per questo mi commuove sempre il finale di 8 e mezzo: lì sì che il cinema si prende quel che gli spetta, a l’autore abbandona la pretesa di spiegare tutto il mondo. Hitchcokc diceva «se voglio mandare un messaggio, scrivo un telegramma» :-D
«se voglio mandare un messaggio, scrivo un telegramma» :-D
Se sei un idiota è normale che per mandare un messaggio mandi un telegramma! Ma siccome la Divina Commedia è pur essa un messaggio, e non veiicolata da un telegramma, è evidente che la scelta di un modello, pur discutibile, ha pari dignità di un qualunque altro modello.
A scanso d’equivoci e nel pieno rispetto delle opinioni altrui sottolineo che dicendo idiota non mi rivolgo a Marco V bensì al concetto generale di analisi decontestualizzata.
Permettetemi di esprimere dapprima la mia indignazione nei confronti della odierna critica cinematografica italiana. Il livello gretto, dozzinale e meschino, le volgarità di basso profilo espresse nei raffazzonati e superficiali commenti che appestano le riviste cartacee di settore ed il web, sono degni di un paese mediocre, e non di un grande film quale “Anticrist” di Lars von Trier.
Leggere commenti e considerazioni talmente banali nei rispetti di un soggetto cinematografico complesso, rende la visione di questo film un “must” a chi soltanto avesse voglia di essere ancora al centro di una “visione” innovativa e non patinata, di una esplorazione introspettiva senza compromessi.
Innanzitutto parliamo di grande cinema: il magistrale uso della macchina da presa, la fotografia sublime, il montaggio superbo, l’uso moderno e consapevole del sonoro, i riferimenti colti e “scekerati” al cinema di Tarkovsky (espliciti nei titoli di coda), al Bergman di “Persona” nella prima parte, qua e là chiosando il Lynch di “Strade Perdute”, alla pittura di Bosh, sono solo alcune gocce sparse nell’andirivieni di meraviglie messe in atto dal grande cineasta danese.
La tematica dell’Anticristo funge certamente da collante alla trama (?), la demistificazione del concetto di Male espressa nell’incarnazione della “femmina” – tematica che del resto ci portiamo dappresso da circa duemila anni di nostra storia religiosa-, il concetto manicheo di Colpa e Redenzione tanto caro al nostro regista, sono solo alcune tracce, appunti oseremmo dire, paludamenti, forse di una cornice ricca e variegata.
Il nocciolo della questione rimane l’attacco devastante alla psicanalisi ed alla psicoterapia. Gli “azzardi” del marito analista, funzionali ad un processo di guarigione, ad una elaborazione del lutto da parte della moglie dopo la morte del figlio, denotano i limiti di una disciplina che prende a prestito antiche tecniche yogiche e ritualità ancestrali per usi e scopi terapeutici consoni ad una ricerca del benessere propria della società dei consumi.
Cosicché nel percorso indotto dal marito-terepeuta, la Gainsbourg, finisce con il regredire al concetto primevo di paura, sprofondando laddove essa s’annida, oseremmo dire ontologicamente, nella selva, nella fauna, nella Natura.
Ed il viaggio da immaginifico si fa concreto, “reale”; s’abbandona la città e ci si addentra nel bosco alla ricerca dell’orrore senza nome, come in una fiaba dei fratelli Grimm (le sembianze della strega e/o dell’orco essendo una maschera).
La casa sperduta nel bosco rappresenta così, per usare delle categorie freudiane, il nucleo ancestrale: l’Es della Gainsbourg, poi di Dafoe, indi di tutti noi spettatori.
Il percorso diventa regressivo e la Natura prende sempre più il sopravvento nei rispetti dell’etica e della ragione.
La violenza che ne scaturisce non è quella pasoliniana de “Le 120 giornate”, ossia violenza come strumento del Potere e veicolo per la sua legittimazione; piuttosto qui siamo di fronte al trionfo degli istinti primari, che finiscono poi con lo sconfinare nel panteismo più assoluto, vanificando persino l’edificazione di una logica necessità antropomorfica, ovvero del bisogno di Dio.
La mutilazione dei genitali che ne consegue, è del resto archetipo e rituale che trova “senso” proprio nel recondito mondo dominato dalla Natura, regione interdetta all’uomo moderno che ha finito con il confinare nel museo l’immensa simbologia relativa al proprio passato remoto, fatta di statue, miniature e bassorilievi inneggianti a “lingam”, falli, vulve, spade, torri e teste mozzate.
Gli “archetipi viventi” non parlano dunque più all’uomo contemporaneo, a meno di non tentare approcci radicali e rischiosi: in poche parole di sfidarla questa natura abbandonandosi al mandala piuttosto che alla scalata del K2.
E man mano che la trama del film s’addensa, ecco lo psicologo-Dafoe farsi dapprima esorcista e poi stregone.
La cerimonia prevede la sostituzione del concetto di “Guarigione” con quello del “Sacrificio”, di una ritualità che culmina nel rogo della moglie-strega.
Così veniamo pervasi da un’inquietudine che non ci lascia dopo tempo, ma anche di un senso di sollievo e di liberazione, molto simile a quello che in “Dogville” lo spettatore vive dopo che la Kidman opera “Giustizia” legittimando l’omicidio come catarsi.
E’ l’urlo del nostro richiamo ancestrale che continua a risuonare ovunque, e che noi continuiamo a far finta di non sentire.
L’urlo di von Trier è agghiacciante e si promana per ogni dove: nella sala e fuori…nel bosco.
francesco cusa
Non ce l’ho fatta a leggere tutto, quindi non so se qualcuno ha già detto che la scena dell’automutilazione della donna ha un grande precedente (che secondo me ha lasciato il segno come si deve in Von Trier) in Sussurri e Grida di Bergman. E Antichrist stesso sta nel filone del Settimo Sigillo. Altro che balle! Un film potente e soprattutto molto molto serio.
perfettamente d’accordo!