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Il primo amore non si scorda mai

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Scurati, una teoria per ogni stagione
di
Carla Benedetti
da primo amore

Tre anni fa Antonio Scurati, autore di un romanzo storico, sosteneva che l’unica cosa che oggi uno scrittore può fare è scrivere romanzi storici. Oggi, autore di un romanzo su un fatto di cronaca, sostiene che l’unica cosa che uno scrittore può fare è misurarsi col tempo della cronaca.

È una mania tutta italiana quella di fabbricarsi dei piccoli teoremi storico-epocali per magnificare ciò che si fa. Teoremi di impostazione storicista, che pongono sempre la letteratura al traino dei tempi e della società, come se non fosse possibile scrivere in contrasto con lo spirito dell’epoca, e inventare vie diverse, impensate. Teoremi superficiali, che cancellano fette lancinanti di mondo, di energie insubordinate, di esperienze e di spinte altre che coesistono in uno stesso tempo .

Scurati parla sempre alla prima persona plurale. Ecco uno dei suoi enunciati tratto dall’ultimo “Tuttolibri” dellla “Stampa”:

“… noi ci troviamo oggi imbozzolati dentro un tempo angusto, il tempo della cronaca, la cattività del presente. È come se ormai vivessimo dentro unità temporali scandite dalla giornata. Non viviamo più anni, decenni, ere, epoche, ma giorno dopo giorno. Imprigionati in una struttura iterativa, in cui le vicende dell’esistenza individuale e collettiva ci sfuggono perché noi le misuriamo con un metro corto, un giorno alla volta. Non c’è progressione, non c’è crescita, c’è solo accumulo. […] Proprio per questo, una delle grandi sfide che la letteratura può raccogliere oggi è di misurarsi con il tempo della cronaca, scendere sul suo terreno.”

Tre anni fa Scurati pubblicava L’inesperienza. Scrivere al tempo della televisione, oggi a “Officina Italia” coordina la tavola rotonda, Prigionieri del presente: la narrativa al tempo della cronaca”. Per celebrare l’evento, ripubblico un mio articolo di tre anni fa, che sollevava forti obiezioni al suo precedente teorema. Penso che possa servire anche a discutere di questo suo secondo.

***

Perché si parla tanto di “inesperienza”?

Da un po’ di tempo in Italia si parla molto di “fine dell’esperienza”. Il concetto viene da Water Benjamin che lo introdusse più di 70 anni fa per descrivere alcuni aspetti distruttivi della civiltà industriale e della società capitalistica. A rilanciarlo oggi, in tutt’altra chiave, sono scrittori e critici. Tra essi Antonio Scurati, nel breve saggio La letteratura dell’inesperienza (Bompiani).

Perché quel vecchio concetto riceve oggi tanto consenso tra i letterati italiani? E come è possibile applicarlo a una situazione sociale e planetaria nel frattempo così mutata, e che ai tempi di Benjamin non era nemmeno lontanamente immaginabile? La mia impressione è che vi sia in questo un grande desiderio di chiudere gli occhi di fronte alle emergenze odierne.

Cento anni al massimo e la terra sarà inabitabile. Surriscaldamento, innalzamento del livello del mare, epidemie, esaurimento delle risorse naturali, guerre per impossessarsi del poco che resterà. Lo prevedono gli scienziati più autorevoli, compreso l’astrofisico Stephen Hawking. La specie umana, per come l’abbiamo conosciuta finora, rischia di scomparire a breve termine trascinando nella sua agonia molte altre specie animali. A meno che non si inverta il processo, finché si è ancora in tempo, con misure drastiche, planetarie. Eppure, proprio mentre ci troviamo con questo carico drammatico di esperienza, che prima d’ora l’umanità non aveva mai conosciuto, qui si teorizza la fine dell’esperienza. Il mondo esplode e una grossa fetta della cultura italiana sostiene che oramai, questo mondo, noi non possiamo più né esperirlo né raccontarlo – quindi nemmeno cambiarlo.

Secondo Scurati noi viviamo “nell’epoca della riduzione del mondo alle sue immagini”, dove “il reale e l’immaginario si contaminano senza più alcuna separazione né distinzione”. La forma del mondo sarebbe “un flusso indistinto e ininterrotto, dove tutto scorre con tutto, ogni contenuto è dissolto, ogni determinazione abrasa, ogni differenza annullata”. Al largo di Lampedusa intanto annegano corpi che non andranno mai a raccontare la loro storia in un reality show, ma qui si continua a parlare del “tripudio visivo dei simulacri mediatici” in cui i “confini tra realtà e finzione si vanno sfocando”. Roberto Saviano vive sotto minaccia per aver raccontato e documentato alcune realtà del nostro paese, ma qui si teorizza il ritorno al romanzo storico come unica via per lo scrittore, visto che ormai è “tramontata l’autorità del vivere e della testimonianza”. Aumentano gli stupri, la violenza sulle donne, la dipendenza da droghe pesanti, gli ammalati di AIDS, ma qui si afferma che “tutto il vivibile” è oggi ridotto “a una vertigine di sensazioni, per lo più visive, prodotte in forma spettacolare da altri, e a cui noi partecipiamo solo in qualità di spettatori”. Una giornalista russa viene uccisa per aver accumulato prove sulle atrocità commesse in Cecenia, e qui si sostiene che noi ormai possiamo essere solo “telespettatori distratti della sofferenza altrui”. Il rapporto sui mutamenti climatici del Dipartimento della difesa americano prevede scenari agghiaccianti di qui a uno o due decenni, e qui si dice che l’ambiente dello scrittore è ormai solo “un ambiente immaginario”. La schiavitù ritorna nella forma del lavoro nero e qui si sostiene che oggi “la critica della società non si può esercitare se non come critica dell’immaginario”.

Se questo è ciò che propone la cultura letteraria in Italia vuol dire che essa è stata davvero narcotizzata. Rispetto alla scienza e alla politica essa si trova oggi sulla posizione più arretrata che si sia mai data. Mentre occorrerebbero nuove analisi, nuove invenzioni di pensiero e di lotta, si ripropongono stancamente vecchi concetti, che vanno avanti ormai per forza d’inerzia, mescolando Benjamin con Baudrillard, Heidegger con Debord, Debray con Augé.

Ma ammesso che quella vecchia nozione possa fotografare certe zone del nostro mondo, come la comunicazione mediatica e televisiva, sta di fatto che nel suo riuso odierno essa è stata privata del suo originario valore critico. Mentre Benjamin vedeva i pieni e i vuoti, e cercava nella vita e nella letteratura (ad esempio in Proust) gli addensamenti di esperienza miracolosamente rinata, qui si teorizza che l’unica cosa che oggi uno scrittore può fare è scrivere romanzi storici, o raccontare “l’assenza di mondo” in cui viviamo immersi. E mentre Benjamin lavorava per cambiare il processo della storia che l’aveva provocata, qui invece la fine dell’esperienza viene data per assoluta e definitiva, addirittura come “la condizione trascendentale dell’esperienza attuale”. Poiché oggi “più viviamo più siamo inesperti della vita”, noi non possiamo nemmeno agire, lottare o sognare qualcosa di diverso da ciò che rischia di realizzarsi. Così un concetto che in origine fu al servizio della critica dell’esistente, diventa qualcosa di conciliatorio e narcotizzante.

Per Scurati persino la guerra è “una realtà deprivata della sua esperienza. Una serata di morte e distruzione trascorsa comodamente adagiati sul divano del salotto”. Affermazioni che, al limite, potrebbero valere per una minima porzione dell’umanità, per un’élite cinica di privilegiati, soprattutto in questa parte del mondo. Eppure sono queste che rimbalzano nelle pagine culturali italiane, senza alcun senso del grottesco. Persino su “Alias” del “manifesto”, in una recensione entusiastica di Daniele Giglioli al libro di Scurati, leggo che l’inesperienza è ormai la nostra condizione: non esiste più “un fuori, un luogo altro con cui giudicare l’inautentico”. Quello che colpisce è che questi enunciati si trovino nell’inserto culturale dello stesso giornale che, in altre pagine, fornisce giudizi e indicazioni politiche sul mondo, e che ci ha chiamati all’opposizione contro il grave pericolo, democratico e civile, di Berlusconi.

Condivide le stesse premesse Walter Siti, che nell'”Avvertenza” a Troppi paradisi si chiede “se l’autobiografia sia ancora possibile, al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot”. Filippo La Porta sostiene che l’esperienza è divenuta reversibile: “Nulla lascia più tracce su di noi”. Galleggiamo “su una nuvola di confortevole irrealtà” (L’autoreverse dell’esperienza, Bollati Boringhieri). Anche Alessandro Baricco, sia pure con sfumatura diversa, perché è convinto che non tutte le “mutazioni” vengano per nuocere, dà per scontato che il mondo sia ormai un insieme di luoghi di transito, e che oggi “fare esperienza delle cose diventa passare in esse per il tempo necessario a trarne una spinta sufficiente a finire altrove” (I barbari ).

Il sottotitolo del saggio di Scurati è Scrivere romanzi al tempo della televisione. Per quale misteriosa ragione i problemi dello scrivere siano oggi da legarsi proprio con il “tempo della televisione” – e non con il tempo dell’olocausto ambientale, della proliferazione nucleare, della schiavizzazione del lavoro, oppure (in positivo) con il tempo della prima mappatura del genoma umano, o delle nuove possibilità che la scienza oggi ci aprirebbe per muoverci in una direzione diversa – viene spiegato nel volumetto, e in tanti altri analoghi che ripetono le stesse cose con piccole variazioni. Quello della televisione è del resto diventato il tema dei temi. Così, mentre la scatoletta colorata fornisce ai morituri l’intrattenimento quotidiano, questi intellettuali le fanno propaganda, ne perfezionano l’azione, continuando a vedere il mondo sub specie televisionis.

La costruzione teorica di un mondo inesistente, virtuale, immaginario di cui non è più possibile fare esperienza, è poi l’altra faccia della medaglia di quella grande circolazione odierna, nel genere oggi di punta del mémoire, di pseudo – esperienze, di storie “vere” narrate con un linguaggio giornalistico, televisivo, oppure nel vuoto pneumatico di libri come Ascolta la mia voce di 
Susanna Tamaro (Rizzoli).

E tutto questo proprio mentre l’esperienza di tutti gli abitanti del pianeta rischia di prendere una forma mai vista, non più quella del sopravvissuto a cui tradizionalmente si associa la figura del testimone, ma quella del morituro.

Solo un’incapacità di vedere? O forse anche uno spaventoso desiderio di cecità, per nascondersi e per nascondere un simile pieno di esperienza, da cui potrebbero invece nascere nuove forme di consapevolezza.

(Questo articolo è uscito in versione ridotta su “L’Espresso” n. 50, 21 dicembre 2006)

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45 Commenti

  1. Condivido pressoché in toto quanto scritto da Carla Benedetti. Oggi ci troviamo su una soglia antropologica, ove tutto precipita verso la fine, o un nuovo inzio, oppure tutt’e due. Per documentare un cambiamento di tali proporzioni occorrono scrittori grandi e coraggiosi; e soprattutto scevri da qualunque ideologia. Ideologia infatti è, in arte, il contrario esatto dell’idea, è un inquinamento aprioristico della creatività che, quand’è vera, è nuova vita, è nuove, inusitate possibilità.
    Scurati è scrittore scadente e uomo immaturo – ho avuto modo d’ascoltarlo più volte, e la sensazione è quella di trovarsi al cospetto d’un quarantenne di vent’anni, di quindici; è filosoficamente, cognitivamente acerbo per fare lo scrittore sul serio. Ha bisogno, di volta in volta, d’inventarsi teoremi che poi rispetterà, dicendoci: avete visto come funzionano i miei bei teoremi? Sono convinto che egli fa quello che può: tuttavia è un peccato che rivesta una posizione di rilievo, perché poi si tende a pensare che ciò che dice e scrive sia davvero tutto ciò che si può fare. In questa estetica dell’impotenza, dell’accidia intellettuale e del cinismo spinto oltre ogni limite sopportabile (di cui già ci aveva avvertito svariati anni orsono con profonda lucidità David Foster Wallace), un altro campione è Walter Siti, giustamente citato dalla Benedetti; in lui la pretesa estetica è più presuntuosa ancora che in Scurati, ma il risultato è ugualmente desolante. Un deserto, una sabbia narrativa senza nemmeno un filo d’erba. Ho sempre letto i libri di Siti in libreria, per passare qualche ora, e non me ne sono mai pentito; mi hanno ogni volta rassicurato che non vale la pena comprarli, ma vale la pena leggerli per verificare di persona che ciò che raccontano in tv o sui giornali è sovente l’opposto della verità. Anche Siti, come Scurati, è omogeneo al sistema televisivo e massmediatico che pretende di denunciare; ma anche qui non è colpa sua: non possiede le forze artistiche necessarie per realizzare una letteratura autentica di rottura, sia pure operante tramite l’ironia o il cinismo o addirittura il disprezzo del mondo. La cattiveria, in Siti, produce mele marce, non nuovi e magari velenosi alberi. Baricco infine, l’altro autore citato dalla Benedetti, è un superficiale per eccellenza, un uomo colto e intelligente ma non profondo, un sughero abile a starsene sul pelo dell’acqua: non scenderà mai laggiù; ma a differenza degli altri due, ha almeno il buon gusto di riconoscere i propri limiti, e non spacciarsi per quello che non è, che non sarà mai.
    Aggiungo: Giorgio Vasta con IL TEMPO MATERIALE e Giorgio Falco con L’UBICAZIONE DEL BENE hanno a mio avviso scritto, negli ultimissimi tempi, opere significative; Vasta ha concretizzato matericamente il male, e Falco l’ha sparso all’intorno, ne ha fatto un’idea dominante, un qualcosa che vaga nell’aria, inafferrabile ma spietato. Entrambi sono partiti da realtà piccole (Vasta in Sicilia e Falco in Lombardia), ma hanno reso il clima generale dei tempi, almeno in parte; e l’hanno reso senza preconcetti, disarmati e nudi alla mèta. Per questo non si può che ringraziarli, prendendo atto che scrivere davvero (rischiare davvero) ancora si può.

  2. ricordo un dibattito tra scurati e pippo del bono andato in onda qualche anno fa. La supponenza del primo e il livore con cui si confrontava.

  3. Ma allora la Benedetti ce l’ha davvero con l’O-scurati, se ha riaggallato qui un articolo scritto molti giorni fa su “primo amore”

  4. macon sto cazzo di tuo neurone ne marche plus!!! Neh?
    Il post apparso su Primo Amore e ora qui sono stato io a metterlo chiedendo, ovviamente a Carla la permission! manaccia a te
    effeffe

  5. Teoremi… riflessione a margine dell’articolo di Carla Benedetti

    Credo che la Benedetti colga perfettamente nel segno quando parla di: «Teoremi superficiali, che cancellano fette lancinanti di mondo, di energie insubordinate, di esperienze e di spinte altre che coesistono in uno stesso tempo», a proposito delle verità che Antonio Scurati troppo spesso sfodera col tono asseverativo proprio di chi non sembra contempli altro da sé e dal proprio pensiero, in un’autoreferenzialità così claustrofobica da rendere non condivisibile anche ciò che, se posto in modo problematico, potrebbe benissimo essere almeno in parte condiviso.

    Ed è sull’espressione «teorema» che vorrei, in particolare, fare qualche considerazione.
    Ho l’impressione infatti che Scurati (e chi come lui abbia assunto questo modo rigido e asseverativo di argomentare) tenda a presentare le multiformi manifestazioni di quella che genericamente definiamo «contemporaneità» come un teorema da dimostrare, partendo da una serie manegevole di postulati (spesso abbastanza «evidenti»), corroborandoli attraverso un’altrettanto «evidente» dimostrazione, e infine facendo logicamente discendere da essi l’enunciazione della formula o di quella che ritiene la proprietà dell’oggetto in questione: la letteratura, il modo di sperimentare il mondo, la natura dell’esistenza, il modo stesso di concepire e vivere la vita.
    Poco importa se, così facendo, non solo vengano «cancellate fette lancinanti di mondo… e di spinte altre che coesistono in uno stesso tempo», ma vengano anche dati per certi e universalmente validi postulati che spesso danno conto di orizzonti parziali, e che al limite possono portare a formulare proprietà valide solo per una parte della letteratura, della cultura, dell’esistenza, del mondo…

    Quel che, a mio parere, è inaccettabile, al di là della varie posizioni espresse da Antonio Scurati, è dunque proprio questo suo modo di pronunciare tutto al singolare, come se il tratto della contemporaneità non fosse piuttosto l’irriducibile pluralità di tensioni, spinte, linguaggi, culture che spesso coesistono in drammatiche o pacificate antitesi lanciandoci di continuo sfide non riducibili in un singolo gesto, in una singola scelta, in modi unici di misurarsi (anche in letteratura) con questo nostro tempo stratificato, deflagrato, complesso.
    Eppure basterebbe anche solo addentrarsi in qualche provincia italiana del sud come del nord per rendersi conto, ad esempio, di quale sia il grado di interdipendenza tra realtà locali e globali, di come la cronaca più spicciola coesista con problemi e istanze di natura epocale, di come esperienze reali a volte durissime si intreccino con mondi immaginari, simulacri mediatici o virtuali, e come tutto ciò accada in una simultaneità sconcertante.

    L’«inesperienza», la «cattività del presente» sarebbero nodi critici estremamente significativi (e lo sono indubbiamente), se solo fossero punti di arrivo di un pensiero che, lungi dal voler esautorare la contemporaneità, provasse a interrogarla per coglierne alcuni aspetti spesso in rapporto problematico con altri di segno opposto, come ad esempio la drammatica esperienza degli sbarchi che accadono non altrove, ma sulle nostre coste, o come il bisogno di restituire identità e durata e senso all’esistenza – o di ridefinirle magari radicalmente – proprio non solo di autori stranieri che si stanno ritagliando uno spazio significativo nel nostro panorama letterario (penso alla Vorpsi, ad esempio), ma anche di quegli autori italiani sensibili a quanto accade nelle zone marginali (o in ombra) delle società contemporanee o in quelle aree di confine tra centri e periferie a noi così limitrofe, se solo sapessimo o volessimo davvero vedere di che magma è fatta la contemporaneità, con le sue contraddizioni feroci, spiazzanti, impronunciabili con un’unica formula asseverativa, come vorrebbe Scurati.

    Proprio per questo forse sarebbe il caso che ci si cominciasse a interrogare, e in modo radicale, su quanto sia davvero angusto qualsiasi orizzonte (individuale, collettivo o condiviso da un numero significativo di individui più o meno autorevoli) che non preveda altro da sé, che non contempli neppure la possibilità che la propria visione sia parziale o difettiva, confinata.
    Forse sarebbe il caso che ci si cominciasse a interrogare se abbia senso questo desiderio imperante di accreditare se stessi e le proprie scelte, estromettendo tutto ciò che contraddica le proprie teorie, o che oscuri la propria icona, perdendo di vista un fatto di importanza capitale: e cioè che probabilmente non esiste un solo modo legittimo di interrogare, decifrare, dare forma a questa nostra contemporaneità proteiforme, ma che anzi quante più saranno le visioni, le sensibilità, le esperienze, le poetiche espresse (del reale, del meraviglioso, del surreale…) con la dovuta serietà (che è cosa diversa dall’arroganza) tanto più larga sarà la rete che tutti noi saremo in grado di gettare sul mondo nel tentativo di decifrare e dare una qualche forma a questo nostro tempo, che non credo si possa provare a intelligere riducendo preventivamente i dati dell’ipotesi a un numero selezionato di aspetti funzionali alla deduzione che ne consegue… e al prestigio solitario perseguito anche a costo di negare tutto il resto.

    Evelina Santangelo

  6. @ effe,
    c’hai raggione, ‘sto neurone solitario mi sta facendo le bizze… sarà ‘st’afa elettorale…
    però ‘sto fumus persecutionis… che senza il consenso dell’autrice non ci sarebbe…

  7. “effe” è affettuoso, sta per francesco… nel caso volessi dare la colpa al mio povero neurone anche di questo…

  8. *È una mania tutta italiana quella di fabbricarsi dei piccoli teoremi storico-epocali per magnificare ciò che si fa*.
    E’ quello che fa anche Roberto Bui, giusto?

  9. Non credo, Bui dice e soprattutto fà lo stesso dai tempi di Q; non è stato così volubile. E poi scalzare il postmodernismo è un atto a cui va riconosciuto più ardimento che tatticismo.

  10. Se Bui scalza il postmodernismo allora chissà cosa fa Zecchi col mitomodernismo (e aveva pure un angelo con la spada sguainata in copertina: più scalzante di così!)

  11. come dicevo a domenico pinto poco fa, al telefono, avevo scritto questo pomeriggio un commento che per effetto d’oscuramento zompò lasciando che le formichine invadessero lo schermo ed anche il braccio con tutta la mano, al punto di farmi desistere. Tenterò allora, adesso che tutti dormono di ricostruirlo nella speranza che avvenga qualcosa lungo questo thread di significativo.

    titolo (me lo ricordo)
    un train peut toujours en cacher un autre
    (trad. nu treno pò sempe nasconnere n’atu treno)

    E’ il cartello che si trova in Francia ai passaggi a livello. Si avverte il passante, l’automobilista che dietro a quel treno che ci sembra fermo può sempre passarne uno in movimento. Scurati da quanto ci dice Carla, confermato da quanto ho letto dei suoi interventi su costumi e società, quando si avventura nella critica del romanzo o della società incorre secondo me in quel pericolo. Che consiste esattamente nello scambiare l’immagine fissa di una situazione, con quella in movimento molto meno prevedibile. Chiamerò tale sindrome, monopolaroid. Al pari infatti di quelle straordinarie macchine, da cui si estraevano foto grandi come fogli, ho l’impressione che in Scurati, ma potrei estendere il discorso ad altri quarantenni – mi viene in mente Pascale, ma non è difficile trovarne altri- l’irripetibile visione, liberata da ogni “negativo”, ovvero possibilità di riproduzione all’infinito della visione, comporti necessariamente postura di chi pontifica e parole da apocalittico. In ogni caso si tratterà di morte. Morte del romanzo moderno, morte dell’esperienza, morte della realtà, e come ben si sa chi primo annuncia, deterrà il diritto dell’ultima parola, del discorso da fare davanti al feretro. Che è mille volte meglio del baratro che il vuoto delle vite comporta.
    I monopolaroidisti si sentono allora investiti dell’importante ruolo di arbitri – ecco perché hanno l’aria contrita e seria di certi sacerdoti, vestono di nero- che abbiano un solo obiettivo durante i novanta minuti di gioco, ovvero piazzarsi in una parte quanto più centrale del campo o dello schermo, e fischiare il calcio d’inizio o di fine del match. Così si spiega perché della partita propriamente detta, non gliene freghi una cippa. Il polaroidista sogna una partita che sia fatta di un fischio al secondo, ovvero di un continuo fissare i paletti e le bandieriene entro cui si faccia della letteratura o meno. Ora è la Storia storia- Historische, poi la storia destino, Geschichte, poi l’esperienza Erleben,poi la sua fine, fino ad arrivare all’Hotel Abgrund di cui gli stessi avranno prenotato già tutte le camere. Il polaroidista vorrebbe allora convincere tutti a restare a quel primo treno, e tutti quasi se ne convincono, che quello che sta lì fermo davanti a loro è il treno che non va perso, per quanto se ne stia fermo, e quello è il vero romanzo mentre le altre scritture non valgono un cazzo perché fuori campo, troppo sfocate, o bruciate da luci che la pur potente macchina non era riuscita a filtrare. Tutto questo mentre la partita vera si gioca dietro a quel treno, a quella fotografia nata vecchia che non porta con sé nemmeno il fascino del tempo delle fotografie ingiallite, virate seppia.
    Dietro a un treno può sempre nascondersi un altro, ed è un treno che corre e che fa male, alle orecchie e agli occhi.
    effeffe

  12. sempre per restare in ambito arbitrale – degli arbitri che ci piacciono- qualche giorno fa l’amico enrico remmert in una discussione sul calcio ci aveva mandato (in mailing list) questo estratto:

    “A proposito di Hrabal, mi è venuto in mente questo magico pezzo (da “Ho
    servito il re d’Inghilterra”) ER

    Fate attenzione a quello che ora vi racconto…una volta che eravamo in
    libertà io e Zdenĕk andammo a fare una passeggiata, e in un boschetto di
    betulle vedemmo un omino correre veloce con un fischietto tra gli alberi,
    fischiando, gesticolando col braccio, allontanando da sé gli alberi e
    gridandogli dietro: che le prende di nuovo? Signor Říha, ancora una volta e
    lascerà il terreno di gioco. E correva di nuovo qui e là tra gli alberi, e
    Zdenĕk si divertiva mentre io continuavo a non capire, e poi la sera Zdenĕk
    mi disse che quello lì era il signor Šíba, l’arbitro di calcio, quella volta
    nessuno voleva dirigere l’incontro Sparta-Slavia perché ogni momento
    prendevano qualcuno a parolacce, e così, dato che nessuno era disposto a
    farlo, il signor Šíba aveva detto che l’avrebbe diretto lui… e si allenava
    nel bosco tra le betulle, correva portando scompiglio tra gli alberelli, e
    ammoniva e minacciava di espulsione Burgr e Braine, ma più di tutti urlava
    contro il signor Říha che ancora una volta avrebbe lasciato il terreno di
    gioco… e quel pomeriggio Zdenĕk era passato dal manicomio per schizofrenici allo stadio iniziale e aveva preso per una scampagnata un intero pullman di matti che dovevano andare in gita in un paesino dove c’era la festa del patrono, e così, coi vestiti a righe e la bombetta, avevano potuto fare i
    giretti sulla giostra e dondolarsi sulle altalene, e Zdenĕk, dopo che gli
    ebbe comprato in osteria una botte di birra completa di cannella e di
    boccali presi in prestito, Zdenĕk li portò nel boschetto di betulle, e così
    iniziarono la botte e bevevano, e il signor Šíba correva avanti e indietro
    tra le betulle lanciando trilli col fischietto, e i matti lì a guardare, e
    poi capirono, e facevano il tifo urlando e gridando tutti i nomi gloriosi
    dello Sparta e dello Slavia, videro persino Braine dare un calcio in testa a
    Plànička e non la smisero fino a che Braine non fu espulso… e alla fine,
    quando il signor arbitro Šíba aveva già allontanato da sé per la terza volta
    Říha e per la terza volta l’aveva ammonito, non restò che espellere il
    giocatore per gioco scorretto nei confronti di Jezbera, e i matti a urlare,
    e quando si furono scolati tutta la botte di birra, non erano soltanto loro…
    ma anch’io al posto delle betulle bianche vedevo correre le magliette rosse
    dello Sparta e quelle biancorosse dello Slavia, tutto al ritmo serrato
    secondo il quale l’arbitro, il minuto Šíba, fischiava… il signor Šíba che
    alla fine fu portato dai matti in trionfo fuori dal campo di gioco per quel
    suo fantastico arbitraggio… Il mese dopo Zdenĕk mi mostrò sul giornale un
    articolo sull’arbitro signor Šíba che aveva espulso Braine e Říha, salvando
    così, col suo energico fischietto, l’incontro.

    Bohumil Hrabal

  13. c’ era un mondo pieno di mondi dove tutti vivevano giocondi. era un mondo in movimento. era… assai contento. eravamo più di centomila. tutti quanti a fare la fila.

  14. a no / made,
    io ‘sto mondo che contiene tutti i mondi mica l’ho mai visto. Né nell’era democrista con appendice craxiana, dove c’era un solo mondo autoritario, escludente, appannaggio dei più furbi, né nell’era berlusconiana, dove c’è un mondo del mercato unico e del pensiero unico, appannaggio dei tycoons mediatici. Forse nelle fiabe… ma a ben vedere neppure lì, perché hanno una struttura ripetitiva ed escludente (in questo caso del “cattivo”), come anche il vecchio Propp, a suo modo, ha mostrato.

  15. ah ah ah, grande fk, a furia di parlarne, stanno facendo passare per scrittore uno che, al massimo, può partecipare alla stesura collettiva dei testi dei baciperuggìna

    amisci, che ridere. e che critisci…

  16. @krauspenhaar e g. Baudo
    Credo che ignorare, quando attorno dilaga l’ignoranza, sia ignoranza. Perchè, invece di scrivere i testi dei baci perugina, pubblica con le più importanti case editrici e vince i premi più ambiti? Credo sia giusto porsi certe domande, pur nell’opportuno, anzi necessario disincanto.

  17. Vedi, Adàmas, in questo caso, almeno, non è questione di ignoranza: al contrario, è piena coscienza e consapevolezza di quello che nello specifico (i.e.: letteratura) si vuole e si cerca. Niente di quello che questa gente produce a livello di scrittura (sic!) resterà: è tutta poltiglia funzionale alle logiche dell’apparato da cui discende e a cui fa riferimento: in un reticolo di autoreferenzialità che riproduce a dismisura l’esistente, lo rilancia e lo sublima anche quando, apparentemente, sembra prenderne le distanze, in una melassa illeggibile e inguardabile che spiana e appiana ogni asperità, ogni contraddizione, ogni oltranza, ogni tentativo di scavo, ogni dissonanza. Questi sono pseudo scrittori buoni per ogni regime, perché non graffiano, non scoprono la carne viva e urlante dell’esistente, ma patinano, levigano, deprivano di senso. Il loro compito è questo: e sono pagati, e premiati, per questo.

    E allora fa un po’ senso, a me sicuramente lo fa, vedere intelligenze critiche (in questo caso la Benedetti) sprecare tempo ed energie a demistificare l’inesistente, perché “questo” inesistente finisce per essere accreditato, quando invece non può essere né l’oggetto né la pietra di paragone né il paradigma (nemmeno a parametri rovesciati, in negativo) del “farsi” della scrittura. Si vadano a esplorare i “margini”, piuttosto, a portare alla luce ciò che, costretto nell’ombra e destinato per scelta (etica prima di tutto) all’oblio mediatico, solo possiede i crismi, le coordinate (anche sghembe e appena distinguibili) per la ridefinizione dell’oggetto letterario.

    Se la letteratura, per essere tale, non può mai essere disgiunta dal fondo di libertà da cui e su cui si staglia, perché si va a cercare tra i morti ciò che è vivo?

  18. @ g.baudo
    Trovo il tuo post così meraviglioso che sono felicissimo di avertelo “strappato a forza”. Condivido appieno ciò che affermi, e trovo che almeno a questo serva dialogare – persino su Scurati: trovare accordi o disaccordi intelligenti, insomma dialogare al di sopra del magma, nonostante il magma.

  19. ma quale ignoranza. tutti sanno CHI SONO carla benedetti e scurati, tutti, nella società letteraria, se hanno un minimo di cervello, conoscono le loro posizioni PRIVILEGIATE, dai GRANDI GIORNALI tutti (TUTTI) possono leggere le loro dichiarazioni.

    non bastasse, anche NAZIONE INDIANA riprende la solita POLEMICHETTA, la solita ESTERNAZIONE di cui non v’era alcun bisogno.

    dunque, se NAZIONE INDIANA riprende il fiacco girovagare dei grandi giornali,se riprende le querelles di critici e scrittori che fanno finta di essere sulle barricate, mentre sulle barricate NON CI SONO perlomeno da anni, dobbiamo affermare che NAZIONE INDIANA, in quanto a servizio d’informazione culturale alternativo, lascia a desiderare. Diamante, sveglia: se vuoi informarti di queste cose, magari in versione leggermente abbreviata, FAI PRIMA, FAI MOLTO PRIMA a leggerti l’espresso!

  20. franz data la premessa se… (a mio parere falsa) anche la conclusione lo sarà.
    Questo articolo l’ho messo io. io sono sulle barricate. Quest’articolo va bene per le barricate.

    effeffe

  21. @krauspenhaar
    L’Espresso, come ogni altro giornale, ho smesso di leggerlo da un po’. Quello che non hai capito è che non m’interessa leggere su NAZIONE INDIANA ciò che dice la Benedetti, ma leggere su NAZIONE INDIANA ciò che i lettori di NAZIONE INDIANA pensano di ciò che dice la Benedetti. E’ un po’ diverso, non credi? Quanto alle barricate, non me ne frega un accidente, e poi non sono queste le barricate. Io non mi barrico mai, per principio; io mi batto. E ancora: cosa cambia fra la polemica proposta da Forlani e un’altra polemica con meno visibilità esterna, di quelle che ti manderebbero in visibilio? La polemica è polemica, la discussione è discussione; vieppiù se i pesci nella rete sono grossi. Perchè la rete, vedi, possiamo gettarla anche noi poveretti: con un po’ d’immaginazione, talento e spirito critico si può fare tutto. Perciò condivido il pezzo postato da Forlani, meno il tuo snobismo alla rovescia, che alla fine della capriola sempre snobismo è.

  22. Cesare Pavese al pari di Giuseppe De Santis (Riso Amaro) pare si attorcigliasse il ricciolo in continuazione (testimonianza di italo calvino)
    effeffe

  23. Scusate, posso intromettermi?
    Ora, ho fatto leggere ‘Il bambino etc’ di Scurati a mia madre e le è piaciuto parecchio.
    Ora, la mia mamma è quel che si dice una ‘semplice donna del popolo’, con la differenza che legge parecchio di più della media nazionale. Certo, i suoi gusti sono quel che sono: Faletti, la Casati Modigliani (di recente ha scoperto Stephen King). Per fortuna abbiamo almeno un autore in comune: Georges Simenon, che adoriamo entrambi (e un po’ anche Camilleri).
    Ora, ha visto Scurati in tivù, le interessava un libro sulla pedofilia e, come dicevo, le è piaciuto: un po’ difficile, certo, ma tante idee e tante cose sensate… Ne abbiamo parlato a lungo, scena per scena.
    Sono d’accordo che fra le ambizioni di intellettuale pubblico, di nuovo Pasolini, di Scurati e le sue effettive capacità di scrittore c’è un abisso; ammetto che queste teorie epocali adattate al romanzo del momento possano essere discutibili; ammetto che la sua autopromozione possa dare fastidio (non a me, ma lo ammetto) – resta il fatto che Scurati è in grado di parlare a mia madre e, in parte, pure a me.
    In compenso so che mia madre non tollererebbe mezza pagina di Antonio Moresco, che sto leggendo con un misto di ammirazione e fatica, visto che purtroppo Moresco ha in comune con Scurati la sua caratteristica meno attraente, la mancanza di senso dell’umorismo…
    Già che ci sono: per quale motivo la letteratura italiana dovrebbe occuparsi dei margini, del sommerso, dell’intertistiziale, del dimenticato -cioè di quello che, a meno di non essere messo in forma di giallo, al lettore medio generalmente non interessa?
    Com’è che (per quel che ne so) l’unico buon romanzo che abbia protagonista un deputato è l’ormai antico ‘Il comunista’ di Guido Morselli? Com’è che passano ancora come paradigma dell’osservazione letteraria della politica certi datatissimi (per quanto ben scritti) romanzi di Sciascia?
    Scusate, me ne torno al mio lurkaggio…

  24. detto questo il lavoro che sta facendo francesco forlani, ad ampio spettro, (penso all’inventiva straordinaria dei video, ma non solo) per me è splendido. l’invettiva, mi preme dirlo, di prima, era rivolta a questo pezzo, alla ripresa di discussioni sterili. Il discorso della benedetti è sterile, è il solito attacco da potere a potere. non mi interessa, e non dovrebbe interessare soprattutto noi, che ci facciamo il CULO dalle retrovie, diciamo. francesco è anche un caro amico; ma se non dovessi criticare un amico, se non sentissi il bisogno di farlo pubblicamente, anche, mi sentirei poco a posto con la mia coscienza. lo so, non è importante, ma io intendo i rapporti importanti – e quello con francesco lo è – importanti anche nei conflitti. che sono circoscritti a una cirostanza – appunto – non investono l’uomo e lo scrittore.

  25. Scusate, se mi sintonizzo solo or ora. E scusate pure se mi viene da dire che mi colpisce lo zero assoluto di feedback al commento di Evelina Santangelo. Che si è presa la briga di ragionare da persona che vive in Italia e da scrittrice (che, per inciso, non va allo Strega né scrive suoi grandi giornali) su una questione che sta a monte a problemuccio di Scurati che cambia le sue teorie sul mondo e sulla letteratura con ogni romanzo che scrive. (a margine: anche questo, in realtà, ci può stare senza essere furbizia e automarketing. Scurati è evidentemente uno scrittore che scrive a partire dall’elaborazione teorica. Poi bisogna vedere, libro per libro, quel che ne viene fuori.)

  26. @diamante.

    ma quale snobismo? non hai capito. io non sono per le polemichette. sono (sarei) per parlare delle cose serie e pratiche. per esempio dei soldi che vengono mangiati, nel mondo culturale, da certi pescicani. o del fatto che noi operatori culturale a vario titolo, siamo nel migliore dei casi sottopagati. che le case editrici ci sfruttano. che i giornali ci trattano da vacche da mungere.

  27. Ps: e preciso: questo attacco di benedetti a scurati, per me, è polemichetta. è roba per riempire le pagine della rivista a diffusione nazionale, per metterci, come sempre, anche se di traverso, la contrapposizione politica. cultura serva della politica, come sempre.

    io vorrei da queste colonne più coraggio. che sia il primo amore a riprendere i pezzi dei propri leader; nazione indiana si riprenda dal coma nel quale (purtroppo anche per me) versa da tempo, e ci dia contenuti solo suoi, non di coloro che hanno abbandonato la barca. e mi fermo qui. voglio (vogliamo, siamo in tanti) più coraggio, più spregiudicatezza.

  28. @krauspenhaar
    Quindi, se ho ben capito, anche le (rare) polemiche letterarie su giornali e riviste importanti sono politicizzate, allo scopo, immagino, di dare visibilità al libro e all’autore incriminati. Beh, posso anche crederci (oramai viviamo nel perfetto Grande Fratello, e persino Orwell si stupirebbe di come gli abbiamo dato retta bene), ma la tua contro-proposta non è un po’ troppo idealista? Chiudersi dentro NI a cosa può servire (te lo domando perchè dici di essere per le “cose pratiche”)? E secondo te, sarebbe meglio dunque che nemmeno la voce della Benedetti si levasse, di tanto in tanto? O non vuoi darle almeno il beneficio del dubbio? Infine: non è umano che un critico (in tal caso la Benedetti) abbia una sua visione del mondo e della letteratura, e che tale visione esprima, a torto o a ragione, ma schiettamente, alla luce del sole, quando fa il proprio mestiere di critico? In fondo, se un critico si espone senza giri di parole, come ad es la Benedetti e (con meno frequenza di prima) Berardinelli, non rappresenta questa esposizione una garanzia per noi che leggiamo, una sorta d’assicurazione sulla credibilità, un dissolvimento dell’ambiguità che regna in questa società liquida? Ultimissima cosa: se uno non è scemo, ha un po’ di cultura e di senso critico, siamo sicuri che si faccia infinocchiare da critici pur bravi o prestigiosi o entrambe le cose?

  29. ma senza idealismo diamante (secondo me) siamo fottuti. fottuti completamente. io vivo in un nord senza più sogni né idee, basta guardare i risultati delle elezioni. destra berlusconiana e populismo xenofobo qui sono in testa. è la fine, è il vuoto totale.

    io non do consigli a nazione indiana, ci mancherebbe. mi limito a criticare certi “replay” di discorsi secondo me inutili. è tutto un parlare tra loro, non lo capisci?

  30. @krauspenhaar
    Affermi: “ma senza idealismo diamante (secondo me) siamo fottuti. fottuti completamente. io vivo in un nord senza più sogni né idee, basta guardare i risultati delle elezioni. destra berlusconiana e populismo xenofobo qui sono in testa. è la fine, è il vuoto totale.”
    Sottoscrivo.

  31. OT
    franz lo sai che ti stimo nella tua componente porno dada quanto in quella riflessiva spleen, e sai quanto mi faccia girare i coglioni il tuo “comporre” leggi , seppure di interpretazione, da azioni singole – post diciamo di ripresa- in una gestione invece per lo più e innanzitutto di creazione ad hoc. Come Sparzo potrà ricordarti insieme ai comuni amici scientifiques un fatto, per essere legge, deve comportare ripetizione. Tra NI – la mia NI, i miei post – e Primo amore e per quanto mi riguarda anche la tua non amata Carmilla esiste una relazione di tipo vasi comunicanti. Molte delle riflessioni, non tutte che leggo nelle “stanze” accanto le sento funzionali a un discorso che il più coerentemente possibile cerco di portare avanti. Ed essendo la forza di nazione indiana anche i suoi commentatori, spesso accade da noi quel che in quelle stanze, per scelta personale non potrà accadere (no comments) . ecco allora che l’articolo, il post, diventa, o dovrebbe diventare qualcosa di inedito da cui, come spesso accade, possano trarne giovamento sia gli autori del post – com’è accaduto in questo caso- che i lettori.
    Per tornare a bomba su una questione pertinente rispetto all’articolo e anche a una tua riflessione, che significato ha il potere?
    Il potere tout court non mi interessa, il potersi dare delle chances di diffusione di riflessioni o autori su questioni nevralgiche quello sì. Il problema è di capire a quale prezzo. Se l’espresso ti proponesse una rubrica accetteresti? E il foglio? Libero? Il Giornale? Nazione Indiana se da un punto di vista intellettuale ti garantisce libertà, indipendenza, confronto, dall’altra non ti garantisce un cazzo a livello “materiale”. Come del resto primo amore o carmilla, ne sono certo. Allora- domanda- a quelli come noi che ci siamo imbarcati nella difficile impresa suicidaria per un verso di consacrarsi a plein temps alla letteratura, è lecito conquistarsi degli spazi extra rete, e dunque reali – quotidiani, riviste a diffusione pop, trasmissioni televisive- per veicolare, come si fa in rete, idee, autori e quant’altro?
    Si può rimproverare a Scurati di fare quello che nel caso ti fosse proposto anche tu faresti? Certamente no. Ognuno elabora delle strategie, inventa tattiche, e poco importa se sia per arrivare alla fine del mese o per cambiare il calendario ufficiale con una bella rivoluzione. La vera questione è : di quali strumenti disponiamo veramente? Ognuno ha gli strumenti che si merita? Questo, detto da amico, non lo so.

    @Helena, Hevelina (con la acca)
    ho trovato le considerazioni di Evelina straordinariamente attuali forse proprio per la dimensione inattuale della visione del mondo, dei mondi, proposta

    effeffe

  32. @francesco forlani
    Hai ragione. Secondo me, che frequento NI da pochi mesi, il problema è il frequente degenerare del tono dei post, lo sfottò gratuito quando non addirittura l’insulto. Lo so sulla mia pelle, e mi sono sempre limitato a commenti sulle opere, magari saccenti ma oggettivi, non rivolti contro la persona. Se non fosse per questo aspetto odioso, NI sarebbe davvero un luogo di confronto ottimale: soprattutto perchè c’è parecchia gente e, mi pare, quasi nessun filtro. Fatto oramai raro in Italia. Krauspenhaar a mio avviso ha ragione e torto: ragione a conservare un po’ d’idealismo, torto a non concepire un po’ d’idealismo anche dove crede di non trovarlo.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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