Incontri di civiltà: Jundishāpūr
di Antonio Sparzani
Nelle mie disordinate peregrinazioni alla ricerca delle storie attraversate dall’idea di inerzia nel corso di secoli di riflessione scientifica, mi sono felicemente imbattuto in quel grande filosofo/medico/scienziato che portava il nome di Abū ‘Alī al-Husayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā, brevemente ibn Sīnā o, nell’Occidente cristiano, Avicenna, nato vicino a Bukhara, allora Persia, oggi Uzbekistan, nel 980 e morto a Hamadan (Persia) nel 1037.
Ma più ancora ho scoperto un milieu culturale straordinario, fatto di collaborazione interreligiosa e interculturale, che ha molto da insegnare a tutti gli odierni proclamatori della superiorità occidentale. Di questo ambiente così ricco e produttivo vorrei raccontare qualcosa, senza, dionescampi, parlare più dell’inerzia.
Nel prologo generale ai deliziosi Racconti di Canterbury che Geoffrey Chaucer (c. 1343 – 1400), una volta smesso il mestiere di controllore delle dogane, scrive nel 1387, viene presentata la variopinta compagnia di pellegrini che durante il viaggio a Canterbury, raccontano i racconti: tra questi vi è un Doctour of Phisyk, un dottore in medicina cioè (anche nell’inglese contemporaneo physician è il medico, non il fisico, che è physicist), esperto di ogni arte di guarigione e attento anche alla propria salute, grazie ad una dieta “nutriente e digeribile”. Per comprovare la sua dottrina, Chaucer non esita ad elencare i maestri che “ben conosceva”, il cui repertorio suona così:
Wel knew he the olde Esculapius
And Deiscorides, and eek Rufus,
Olde Ypocras, Haly and Galien,
Seràpiòn, Razis and Avicen,
Averròis, Damascién and Constantýn,
Bernàrd and Gatesden and Gilbertýn.
[G. Chaucer, The Canterbury Tales, the Prologue, vv. 429-434].
Non è difficile riconoscere, nella scrittura in inglese medio (Middle English, circa 1100-1500) del XIV secolo, i nomi di illustri dottori dell’antichità. Oltre a cinque greci, Esculapio (Asclepio), Dioscoride, (eek, cioè anche) Rufo, il vecchio Ippocrate di Cos e Galeno, e a tre inglesi, Bernard Gordon, John of Gaddesden e Gilbertus Anglicus, troviamo i nomi – s’intende latinizzati – di sette studiosi arabi, Ali, Serapione, Razi, Avicenna, Averroè, Damasceno e Costantino l’Africano.
Nella cultura dell’Occidente del XIV secolo – Chaucer era uomo di mondo, diplomatico e parlamentare – era da tempo affermata l’idea dell’importanza della tradizione araba, in medicina così come nelle altre discipline.
Cominciamo dunque a metter bene a fuoco il fatto che, già a partire dall’alto Medioevo, quella parte di Asia centro-occidentale che comprende, molto approssimativamente gli odierni Uzbekistan, Iran, Irak, Siria e Armenia (almeno) divenne, pur attraverso instabilità politiche a tratti tumultuose, una regione ricca di fermenti e contaminazioni culturali e di scuole raffinate e ricca quindi di figure di pensatori e filosofi di tutto rilievo.
La città di Jundishāpūr (o Gundeshāpūr, o per i siriaci Beth-Lapat, o Belapat, vicina all’odierna Ahwāz nell’Iran sud-occidentale), fu un punto di riferimento piuttosto particolare.
La storia di questa città è in sé assai notevole: l’origine del suo nome non è chiara; in epoca precristiana vi era un insediamento detto Genta Shapirta, che sarebbe “il bel giardino”. Fu poi rifondata nel III secolo d.C. dal re Shāpūr I° (anni di regno: 241-272), secondo della dinastia Sassanide, talvolta infelicemente tradotte in italiano come “Sapore I°”, subito dopo che egli ebbe sconfitto l’imperatore romano Valeriano; sembra anzi che il nome Jundishāpūr potesse significare “esercito di Shāpūr” o “fortezza di Shāpūr” e che servisse in una prima fase come accampamento per i romani fatti prigionieri. La cosa interessante però è che da subito Shāpūr I° sembra abbia voluto farne un centro culturale che superasse la grande Antiochia, che pure egli aveva appena strappato alle mani di Roma.
La città crebbe rapidamente d’importanza, soprattutto come centro di una grande scuola medica di ispirazione ippocratea, fu resa capitale dell’impero da Shāpūr II° (anni di regno: 309-379, fu nominato re mentre ancora era nel ventre di sua madre: rex in utero), ed aumentò ancora quando un secolo dopo l’imperatore romano d’oriente Zenone l’Isaurico, nel 489, chiuse la scuola di Edessa, e ancor più quando, con un decreto che l’imperatore Giustiniano – con rara cecità culturale – emanò nei suoi primissimi anni di regno, nel quadro della sua rifondazione dell’intero corpus giuridico del 529, furono chiuse tutte le scuole filosofiche greche. Nell’accademia di Jundishāpūr si studiavano medicina, matematica, astronomia e teologia.
L’altro apporto fondamentale che arrivò in questo centro della grande Persia fu quello della medicina indiana, soprattutto sotto il regno di uno degli ultimi re della dinastia Sassanide, Cosroe I° Anūshirwān (= dall’anima immortale, regnò dal 531 al 579)
che ritenne di inviare a questo scopo il proprio vizir Burzūyah in India; questi riportò a Jundishāpūr sia le conoscenze acquisite che vari medici indiani in carne e ossa; il vizir scrisse anche un manuale, Sapienza degli indiani, che fu successivamente, nel 1070, tradotto in greco.. Ascoltate quanto di istruttivo per la professione medica scrive poi Burzūyah in una sua breve autobiografia a proposito della propria scelta per le scienze mediche:
Osservai che c’erano quattro cose cui gli uomini aspirano. A quale di queste dovevo mirare? Al denaro, alla prosperità, alla fama o a una ricompensa celeste? Ciò che decise la mia scelta fu l’osservazione che tutte le persone intelligenti apprezzano la medicina e che nessuna religione la condanna. Ero abituato inoltre a leggere nei libri di medicina che il medico migliore è quello che si dedica completamente alla sua professione e ricerca un compenso solo nell’aldilà. Mi risolsi così a seguire quest’indirizzo e a non pensare ad alcun guadagno terreno per non essere come un mercante che vende per una bagatella priva di valore un rubino in cambio del quale si sarebbe potuto procurare tutte le ricchezze del mondo.
Così, alla fine dell’impero Sassanide (651) Jundishāpūr era diventata un centro nel quale si erano fuse senza rilevanti contrasti le tradizioni, mediche e astronomiche, greca, persiana e indiana.
E più ancora, alla caduta dei Sassanidi, alla metà del VII secolo, in seguito alla conquista araba, la città venne accuratamente preservata, e anzi potenziata dalle scuole di pensiero arabe. Specie sotto lo splendido mecenatismo dei califfi della dinastia Abbaside (750 – 1258, anno del sacco di Baghdad da parte dell’esercito mongolo di Hulagu Khan, nipote di Gengis Khan [o Činggis Qaγan]) al-Manşūr (il califfo che costruì Baghdad nel 762), Hārūn ar-Rashīd (tutti ricorderanno le Mille e Una Notte) e al-Ma’mūn. Uno dei fattori che accentuò tale fenomeno fu l’incontro degli arabi con i cristiani nestoriani di Siria, che avevano mantenuto una tradizione intellettuale propria di notevole spessore, traducendo le opere greche in siriaco e contribuendo poi, all’arrivo dei musulmani, alla traduzione in arabo di un gran numero di queste opere. Furono così tradotti, studiati e commentati i più rilevanti testi greco-ellenistici, da Galeno a Euclide, da Aristotele ad Alessandro di Afrodisia e a Simplicio.
Il declino di Jundishāpūr iniziò soltanto quando appunto il califfo abbaside al-Manşūr costruì Baghdad, per farne la nuova capitale dell’impero; al posto di Damasco che lo era stata sotto la dinastia degli Omayyadi (tra la metà del VII e la metà dell’VIII secolo) Un po’ alla volta gli studiosi di Jundishāpūr si trasferirono a Baghdad, che divenne così il centro culturale più importante di tutta l’area.
La storia della città naturalmente è più ricca e complessa di quanto io abbia potuto raccontare in queste poche righe. Tra l’altro nell’Iran moderno è stata rifondata una Accademia di Jundishāpūr, che ha un ricco sito, naturalmente in farsi (persiano moderno che utilizza l’alfabeto arabo con qualche adattamento).
Dunque, con qualche interruzione, la più antica università del mondo.
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Gran bel vagabondare, caro Antonello. Ma allora è proprio vero che sai volare, nel tempo almeno…
A presto.
>>>L’imperatore Giustiniano – con rara cecità culturale – emanò nei suoi primissimi anni di regno, nel quadro della sua rifondazione dell’intero corpus giuridico del 529, furono chiuse tutte le scuole filosofiche greche.
In realtà fu chiusa solo la scuola di Atene, e forse solo fino al 532. Ad Alessandria, ad esempio, la scuola restò aperta e i filosofi pagani (es. Olimpiodoro) pubblicarono libri fino al 560 e oltre.
C’è poi da ricordare l’episodio riportato nelle Storie di Agazia Scolastico (II 30), ovvero quello della fuga dei filosofi “elleni” (a Bisanzio chiamavano se stessi – cristiani – “romani”) alla corte di Cosroe dopo le leggi giustinianee che proibivano – in teoria – l’insegnamento agli eretici e ai pagani. Ebbene questi sette filosofi (tra cui Damascio) rimasero talmente delusi dalla società Sassanide, Jundishāpūr o Ctesifonte che fosse, da ritenere più dignitoso tornare entro i confini dell’impero (e trovarvi eventualmente la morte) che rimanere in Persia. C’è da dire che Cosroe ottenne da Giustiniano l’immunità per i filosofi transfughi nei trattati di pace “eterna” (che poi durò niente) con Bisanzio.
Piuttosto di questo periodo sai cos’è davvero interessante? La riforma mazdakita che fu appoggiata da Kawad, il predecessore di Cosroe, che rivoluzionò letteralmente gli assetti sociali della Persia proponendo quella che la letteratura chiama “prima pianificazione statale comunista” della storia. Mazdak fu poi fatto uccidere, e Cosroe ripristinò l’ortodossia mazdea cancellando di fatto una delle esperienze più interessanti della tarda antichità e del medioevo iranico
Piacevolissimo e istruttivo articolo che mi ha permeso di saper qualcosa pure del mazdakismo;
questo spaziare negli spazi antichi per trovare qualcosa di legato all’attuale mi eccita,
bravissimo Sparzani!
:-))
MarioB.
Tutto questo periodo che sta tra la dissoluzione del mondo antico e l’inizio del Medioevo vero e proprio (diciamo tra il V-IV e il VII-VIII secolo) è interessantissimo e, purtroppo, pochissimo studiato a scuola.
Ricco, oltretutto, di scontri ma anche di scambi tra Oriente (Bisanzio, il nascente Islam) e Occidente.
Basti pensare che allora l’Occidente era in piena crisi, intento a cercare un compromesso tra cristianesimo ed eredità pagana, tra mondo romano e mondo barbarico (i Goti, i Longobardi). La palma della “vera” latinità la deteneva Bisanzio, che poi tra il IX e l’XI secolo conobbe il suo massimo splendore politico e culturale (e tutta la storia bizantina è un campo di estremo interesse, che ultimamente sto cominciando ad esplorare). Ma anche in Oriente, tra le sponde del Mediterraneo e Persia, si assisteva a una meravigliosa fioritura culturale.
Una cosa che ho appreso da poco, e che mi ha colpito molto, è che durante il regno degli ultimi re Visigoti di Spagna vi furono una serie di persecuzioni antiebraiche che spinsero gli Ebrei ad appoggiare gli invasori musulmani, che così si videro spianata la strada per la conquista della penisola iberica.
In altri termini, sarebbe bastata un po’ di tolleranza in più e la Spagna (forse) non sarebbe caduta in mano ai Mori.
Caro Sparz, mi ha fatto molto piacere leggere il tuo pertinentissimo accenno al grande Geoffrey – al quale dedicai un libro nella mia vita precedente: I Racconti di Canterbury, un’opera unitaria ed Guerini e Associati 1991 -. Ottimo excursus, complimenti. franco
Luoghi di uomini e di fascini millenari.
Ne fui investito, anni fa, alla lettura di uno di quei testi che – pur trattando un unico tema – sono in grado di svelare l’inesauribilità del pensiero, sondandone gli abissi, mai sfiorato dal sospetto di un completamento, di un possesso.
Il libro é: HENRY CORBIN, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi 1986.
Che gli avvenimenti politici degli ultimi decenni – snaturando ogni dato, confondendo ogni significato – impediscano un confronto diretto tra la tradizione scientifica occidentale e l’unica tradizione “teologica” che ha scelto di mantenere, coerentemente con la propria storia, l’aspetto complesso come garanzia di una “verità immaginale”, fenomenologica,
del pensiero
penso sia propria questo a provocare l’amarezza, la nostalgia di una campo unitario- che noi tutti dobbiamo condividere – che anima il bell’articolo di Antonio Sparzani.
grazie a voi, a Francesca che mi invita a volare, e a Diego che integra da esperto le scarne informazioni che mi è riuscito di scrivere in questo post. L’idea che mi ha mosso è con tutta evidenza quella di far toccare con mano come luoghi e tempi di “coesistenza pacifica” siano di fatto esistiti e possano dunque esistere, dove con pacifica intendo ovviamente non solo non belligerante, ma di ricerca di vere intersezioni. Spero di riuscire in futuro a documentarne altri.
Un altro esempio: la Sicilia sotto i Normanni, con cristiani (occidentali e orientali), ebrei e musulmani che convivevano fianco a fianco e partecipavano alla gestione dello stato.
Per non parlare di Federico II di Svevia, che aveva la sua guardia personale di musulmani, stanziati a Lucera (Luceria Saracenorum), dove pare ci fosse addirittura una moschea, e che a Gerusalemme discusse in arabo con il sultano al-Malik al-Kamil e concluse la crociata con un accordo diplomatico, senza colpo ferire.
sempre stimolanti e interessanti. Grazie una volta di più.
lucia
“Spero di riuscire in futuro a documentarne altri.”
Livorno?
A giudicare dal Vernacoliere i livornesi odiano a morte i Pisani, ma il resto del mondo non sembra loro dispiacere. O almeno così mi pare sia stato.
Bell’articolo.
Riporto sotto qualcosa da collegare a quanto scritto da Sparz in relazione ai cristiani nestoriani di Siria – che non sono in grado però di valutare, visto che ho letto anche tante tesi opposte a questa che riporto.
Su le Monde è uscita a firma di Roger Pol Droit una recensione sul libro “Aristote au Mont Saint-Michel” (Editions du Seuil) di Sylvain Gouguenheim, specialista dei cavalieri teutonici, di Ildegarda di Bingen, (la badessa del Reno che combattè l’indegnità dei preti, l’empietà degli imperatori e l’eresia catara) professore dell’Ecole normale supérieure di Lione. Questo libro è stato al centro delle polemiche, un saggio molto dotto sulle radici dell’Europa, anzi sul contributo della cultura araba alla trasmissione della cultura classica greca.
Roger Pol Droit sostiene che Al Farabi, Avicenna, Averroé, per quanto grandi ammiratori della filosofia antica, non leggevano il greco, ma attingevano alle traduzioni in arabo opera dei cristiani aramaici e siriaci come Hunayn ibn Ishaq, che forgiò gran parte del vocabolario medico arabo, attraverso la trasposizione di più di 200 opere di Galieno, Ippocrate e Platone.
Altro punto, continua Roger Pol Droit, lungi dall’essere unanimemente entusiasta, la recezione araba del pensiero greco fu secondo Gouguenheim “selettiva e limitata e senza grande influenza” sulla realtà religiosa, giuridica e politica dell’islam. “La ragione – sintetizza il recensore del Monde – non venne mai posta al di sopra della rivelazione, la politica non fu separata dalla rivelazione, né mai s’impose l’autonomia della scienza”. Ergo, “invece di sognare un mondo islamico aperto e generoso che offre all’Europa decadente gli strumenti della sua rinascita, bisogna ricordare che l’occidente non ha ricevuto la cultura classica in regalo, ma è andata a cercarla, perché completava i testi già in suo possesso”. Conclusione, contrariamente a quanto si va dicendo dagli anni Sessanta, “la storia della cultura europea non ha mai avuto un grosso debito verso l’islam, e comunque non essenziale”.
mi piace Livorno, aperta città di mare: ci sono nati Fattori e Modigliani, oltre al grande matematico/filosofo Federigo Enriques. Ma come crogiolo di culture diverse, come la metteresti?
… e ci è nato anche Piero Ciampi.
forse volevi dire Carlo Azeglio?
@ Sparz
Livorno.
“La Comunità ebraica prosperò per numero, per ricchezza, per importanza culturale, grazie appunto alla possibilità di occupazione che la città di Livorno nel XVI secolo riusciva ad offrire. La normativa speciale concessa dal Granduca di Toscana non solo permise alla città di accogliere genti diverse per ragioni etniche o religiose ma anche di favorire la pacifica convivenza tra di esse che la resero una meta desiderabile per tante minoranze (chiamate “Nazioni”).” [Wikipedia]
Ecco, Antonello, soldato blu ha già lavorato per te.
E poi mi affascina il nome inglese di Livorno, Leghorn, scoperto in una traduzione inglese del Conte di Montecristo.
che sarebbe poi il corno della gamba, una sporgenza dello Stivale nostro? Io avevo trovato anche Leighorn.
Bellissimo articolo, che mi ha calato tra gli Antichi –
@ sparz
Fra i due, meglio Piero.
l’altro giorno riordinando scaffali è uscito fuori un vecchio libro di Giuseppe Tucci: “La via dello Swat”, la “tranquilla” regione tra Pakistan e Kashmir dove confluirono e si sovrapposero l’ellenismo, il buddhismo e l’islamismo…la stessa dove ora imperversano fanatici e guerre insensate ..una stretta al cuore. La geografia è sempre un crogiolo o un’esplosione, alchemicamente sono per i crogiuoli, bel post Antonio, un abbraccio, V.
questo spirito che vien da lontano
[ talmente da lontano che s’è perso per via ]
… quanto i Greci hanno ricevuto dai barbari lo rendono più bello e lo portano alla perfezione…
Epinomide_Platone_VII
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