Luigia Sorrentino plus Photoshoperò
Ogni cosa del fiume
di
Luigia Sorrentino
L’asse del cuore
I
con il mantello disteso sul petto
frantuma la roccia sotto il ponte
si tiene all’abisso come sponda
sommersa, come ogni sponda erosa
corre sotto, l’acqua, giù nell’abisso
non conosce nessuno, neanche
lo spirito del fiume
manto di bronzo abita l’esilio
e piange, la casa
ogni cosa del fiume è deserta
assente ogni cosa divina
fa ritorno alla terra di sempre
la terra che esalta ogni vivente
II
ho raccolto il tuo corpo tra le braccia
dove sei stato?
hai avuto diversi anni
la strada, l’esilio,
la casa temuta
verso la luna dei vent’anni
di padre in padre siamo stati
quella tua età sparsa nella casa
III
quella che sto lasciando
deve vivere o ferirsi
tutta piena di quel ciclo
schiusa
la primavera ha raggiunto lo sterno
all’altezza del cuore l’erba
il petto tocca
alla prima ora
entra la campana
allo svegliarsi tocca
spinge il fiato dalla montagna
lascia una lacrima sul cuscino
enorme l’ora del mattino
IV
calano masse di rondini
come pioggia impennano
torme di creature slabbrano
la membrana del cielo
nelle mani che disponi, nel gesto
del giorno canta il sogno,
si espande e colma
il sorgere a dismisura
tra le mani pochi nomi
liquido il primo amore
sciolte nel fiume le altre tinte
in quell’ascesa
porti con te l’impeto della notte
e tutte le sue braccia
allora sei in questo nascere
forma che si genera
V
corre la luna nuova sulla città
in occhi senza tempo
ti chiedo cosa ne sai del vento
che ha scoperchiato il suolo
le luci corrono liquide
quando dalla vena una goccia
di sangue cade a te che cerchi
i versi della Storia
goccia d’amore eterno dici
soffiando nel petto, muovi le dita
spingi da te il dolore
che ha attaccato il mondo
VI
perché merito tanto sole?
vedo la luce poggiata sul tetto
dov’è l’anomalia?
non sono indifferente
al cerchio delle braccia intorno
alla vita
scivola il canto che apre il mattino
il canto del pettirosso
in preda alla furia mattutina
sgronda la lacrima, fredda la notte
se n’è andata
VII
la misura del tempo ci divide
nel buio di un seme nega
l’asse del cuore, si confonde
all’odore di un fiore spostato
molte volte dal vento
ogni pienezza
nella ruota del ventaglio
lasciato sul divano, accanto
allo chiffon del tendaggio
tra le pareti larghe affrescate
la guancia accesa
VIII
a portata di mano tre rose
il cerchio delle braccia chiuse
nel ritmo del campanile
benché l’atto fu esattamente quello
attingere alla delicatezza
in profondità
non ci sono ostacoli
tra il ventre e lo sterno la terra
scioglie il rilievo del corpo
dall’interno
laggiù tutto solo, nel petto
sceso in volo
IX
se tu venissi come allora
agile nei miei occhi
(pag 152)
quando mi nascondevo
dietro i capelli
congiunta al cielo come acqua
la protezione più alta del cuore
X
il cuore pompa e rigetta
nella mano il battito si espande
la corrente spinta
sopra la cavità naturale della bocca
la costola a occhi chiusi
tra la stanza e la musica
la danza
intoccabile la frazione
stretta nella mano
nella danza il corpo è uno
uno soltanto lo vedo è lì
basterebbe sollevargli le molte braccia
lasciarle cadere su di sé tante volte
su di te sospinto appena
tu chiamato
tu qui, alla guancia
senza palpebre tieni a te
il sogno calmo
XI
il mio sangue dice prendilo
con cura il signore del mondo
venuto dal residuo vento
sulla schiena verticale
disse benvenuta giovinezza
e spinse a mezz’aria il bosco
incandescente lo animò vivendo
in lei, nella rosa l’impronta
curva del tempo, le gocce
che piansi, io presso questo minuto
io presso questa campana
vaneggia nel mio nido
nella mano in cui mi nutro
entra la lingua che spiana il respiro
lingua slegata sul taglio degli occhi
chiusi le labbra amate
XII
parli al cuore del figlio
il mondo che non vede
si genera da solo
da quella caduta, la testa
fra le mani del caos
l’ordine che regge
e tutto ripone al suo posto
regge il trave della testa
come un acrobata lo sversi
e dalla fronte cade ancora
cade e non annienta
dalla vetta che i secoli
raggiungono, nella guarigione
nella benda l’ampiezza
come un dio saldi in lui
l’eroe di ogni azione
Poesie pubblicate in: “Almanacco dello Specchio 2008” (Mondadori, Milano)
Nota critica
di
Fabrizio Fantoni
Già con la prima raccolta di poesie C’è un padre (Manni, 2003) Luigia Sorrentino aveva evidenziato una poetica della rivelazione, alla ricerca di una realtà che parlasse al di là del visibile: una poesia dall’ “incanto lucido, di evento scolpito nel suo schema figurativo” come la definì Milo De Angelis già nel 1987 quando per primo lesse alcune liriche poi confluite molti anni dopo nella raccolta d’esordio. In quelle primissime poesie Luigia Sorrentino aveva evidenziato un dire oracolare e solenne, un dire che dicendo, pone-in-nome e determina dal profondo rappresentando, attraverso forti condensazioni analogiche, “le cose nel loro amoroso in sé” di mallarmeriana memoria.
Questa poetica del nominare – o porre in nome – che è parte integrante della poesia di Luigia Sorrentino si ritrova anche nella silloge intitolata L’asse del cuore e pubblicata sull’Almanacco dello Specchio 2008 (Mondadori). Dodici poesie in cui il nucleo tematico è costituito, fin dal titolo, dalla ricerca dell’asse, del punto di convergenza, di stabilità e di equilibrio tra il sé e l’altro. Ma chi è l’altro? L’altro individuo non è solo colui con cui condividere la sorte dell’essere umano, ma è anche colui – quel se stesso – che dichiara una lontananza che non riesce a colmare. La distanza tra sé e il mondo può essere riempita solo dal cammino verso l’altro, intrapreso da chi ha davvero necessità di conoscere. La ricerca dell’altro diviene, pertanto, nelle poesie qui analizzate, un percorso esistenziale in cui confluisce l’esperienza dell’autrice che tenta di allacciare una relazione con l’altro che vibra e fa vibrare, con un linguaggio che utilizza e reitera l’analogia, espressione di una condizione interna, di un sentire in comunione con l’altro.
Si veda la lirica di apertura: “ con il mantello disteso sul petto/ frantuma la roccia sotto il ponte / si tiene all’abisso come sponda / sommersa, come ogni sponda erosa / corre sotto, l’acqua, giù nell’abisso /non conosce nessuno, neanche / lo spirito del fiume / manto di bronzo abita l’esilio / e piange, la casa / ogni cosa del fiume è deserta / assente ogni cosa divina / fa ritorno alla terra di sempre / la terra che esalta ogni vivente”
Il discorso fluisce attraverso un susseguirsi di determinazioni descrittive in cui ogni qualificazione di luogo, incisivamente definita, è indicazione di altro materializzazione di un paesaggio interno che si esteriorizza nel paesaggio sensibile. La forte tensione analogica che confluisce nel testo qui descritto trasporta il lettore all’interno della visione e lo fa diventare colui che vede, sente e descrive. Le percezioni visive ed uditive che provengono dall’incontro con il fiume divengono, così, il corrispettivo di un’emozione condivisa nel corpo dell’altro colta nel frantumare la roccia, nel farsi roccia, nel tenersi all’abisso, nel crearsi sponda.
Con un repentino cambiamento di soggetto “non conosce nessuno neanche/ lo spirito del fiume/ manto di bronzo abita l’esilio” lo sguardo dell’autrice si allarga alla condizione umana e la penetra, nell’abitare l’esilio insieme all’altro, e piange, l’assenza – “assente ogni cosa divina” – quel vuoto connaturato all’esistere in cui l’unica via d’uscita sembra essere il ritorno, ossia il recupero di un’identità irrimediabilmente perduta.
Nel fare ritorno alla terra, sembra suggerire l’autrice nei versi di chiusura, si compie il significato dell’esistenza: il mio altro si è rivelato nel luogo dell’origine – “la terra che esalta ogni vivente” – . L’io e l’altro accresciuti dall’esperienza, si incontrano, appunto, in questo territorio comune: la Terra.
Nelle altre poesie che compongono la silloge lo sguardo poetico dell’autrice entra in un dialogo con l’altro sempre più intimista, in cui si profila, in modo ancora più netto, la dimensione di un destino umano comune. La tensione analogica si stempera in un dire più corposo, dove il desiderio dell’altro viene affermato mediante versi connotati da una forte fisicità che fissa le immagini in un punto centrale in cui si incontrano significato, suono, ritmo:
“Il cuore pompa e rigetta / nella mano il battito si espande/la corrente spinta/sopra la cavità naturale della bocca/la costola a occhi chiusi/tra la stanza e la musica/la danza/intoccabile la frazione/ stretta nella mano/nella danza il corpo è uno /uno soltanto lo vedo è lì /basterebbe sollevargli le molte braccia /lasciarle cadere su di sé tante volte /su di te sospinto appena /tu chiamato / tu qui, alla guancia /senza palpebre tieni a te / il sogno calmo”
In questa poesia il desiderio dell’unione con l’altro si fa materia nella danza in cui molti corpi si fondono in uno, uno soltanto, un corpo indiviso dalle molte braccia che ricadono su di sé, che si richiudono tante volte incontrando il corpo dell’altro. Siamo nell’amorosa quiete di un abbraccio, dove tutto rimane sospeso, in uno stato di sonno vigile in cui tutti i desideri sembrano essere definitivamente appagati. Si realizza così quel momento di altissima comprensione nella congiunzione all’altro espresso in modo ancora più marcato nella poesia “se tu venissi come allora/ agile nei miei occhi/ quando mi nascondevo/ dietro i capelli/ congiunta al cielo come acqua/ la protezione più alta del cuore”: ed è ancora il ritorno, il recupero di “quell’antica unità”, per usare le parole di Platone, “il cui desiderio e la cui ricerca costituiscono quello che noi chiamiamo amore”.
La prospettiva, in questa seconda parte della silloge, continua ad essere esistenziale, tutta dominata dalla contrapposizione tra la desolazione del contingente, “il mondo che non vede”, e la ricerca di un’armonia, di un equilibrio. Si avverte nelle liriche di Luigia Sorrentino, il costante riconoscimento di un dolore “che ha attaccato il mondo” fra le cui pieghe scivola “il canto del pettirosso/ in preda alla furia mattutina”.
In tale consapevolezza l’immaginario dell’autrice regola la relazione tra sé e il mondo nella reciproca attribuzione del desiderio, da cui procedono tutti gli altri e, ponendo-in-nome, determina l’ordine simbolico che regola questa relazione:
“Parli al cuore del figlio/ il mondo che non vede/ si genera da solo/ da quella caduta, la testa/ fra le mani del caos/ l’ordine che regge/ e tutto ripone al suo posto/ regge il trave della testa/ come un acrobata lo sversi/ e dalla fronte cade ancora/ cade e non annienta/ dalla vetta che i secoli/ raggiungono, nella guarigione/ nella benda l’ampiezza/ come un dio saldi in lui/ l’eroe di ogni azione”
Qui l’autrice recupera la perdita nella genesi dell’altro. E’ il Tu generato a interrompere l’estraneità. Il Tu consapevole, cosmo-genetico, della creazione, rappresentato con la testa fra le mani del Caos che, parlando al figlio, realizza la congiunzione del cuore. E’ il Tu che regge l’ordine, fra sé e il mondo, “e tutto ripone al suo posto”. E’ il Tu – l’altro – colui che porta la parola mancante, l’energia consapevole che si salda nel cuore del figlio, eroe di ogni azione. Il Tu generato, è, quindi, il punto centrale, l’asse, in cui vi è la pulsione della vita che insiste per essere proprio in quel punto, in cui si realizza la congiunzione tra il sé e il mondo.
I commenti a questo post sono chiusi
Poesia incantevole e suggestiva come anche il video realizzzato.
Una scoperta…per me. Un bel modo per iniziare la giornata per poi tornare a leggere e ad ascoltare di tanto in tanto.
Grazie,
Rosaria
L’appunto di lettura mi ha invitato a vedere un senso nascosta agli miei occhi della poesia. Nella prima lettura , mi sono sentita nuotatrice del fiume, ascoltando la voce poetica dentro ( lo spirito del fiume), tra frammenti del corrente ( casa, esilio, separazione). Canto ancestrale del uomo confronto alla natura, incontro tra il cuore alto dell’anima e altezza del paesaggio.
Il desiderio dell’unione non l’avevo visto.O pensavo a un desiderio morto.
E’ molto interessante di leggere analisi, perché vedo la distanza tra la mia lettura( non distacca del sentimento propio al mondo) e l’analisi chiara della scrittura poetica.
Grazie a effeffe, per la creazione, lo spirito poetico, la lingua particolare di fotoshopero
Molto bella questa silloge : ritmo, equilibrio tra immagini e riflessioni, lirismo e sperimentazione. Mi è piaciuta molto. Fa da controcanto “concettuale” il photoshoperò di effeffe, come sempre “breve, intenso e…concett (u) oso!
Chi è l’altro ? rilancia riflettendo Fantoni sulle domande poste dal testo poetico. Già, chi è l’altro, l’altro da sé.. quante volte ce lo chiediamo. Tempo fa ho provato a pormela anch’io questa domanda riflessione, attraverso un sonetto di nessun valore, scarno e moralistico, ma abbastanza amaro sulla condizione dell’uomo postmoderno. Ve lo propongo qui di seguito, senza alcun riferimento alla bellissima silloge della Sorrentino. Solo perché esso, data la struttura, offre l’opportunità di “rilanciare” sinteticamente : un modo per contribuire al “dibattito”.
L’ ALTRO E ‘ UN PARADIGMA DELL’ OZIO
L’ altro è un paradigma dell’ ozio,
ma la scelta per l’altro è l’enigma
di vite altruiste, oppure negozio
giuridico dall’esanime stigma..
E’ perturbante gioiello, deviante
costume che disorienta l’agire
per l’utile, l’ usare urticante
di cose e persone, o interdire..
Ma l’ ozio di sé qui non è percorso
vincente, è una nota dolente
nella borsa-valori, è rimorso
postumo se non black out incombente..
L’ altro da sé è un alieno fratello
che ha volto d’inquietante modello.
20 . 12 .2007
Il tempo di fotoshopero è quello dell’umanità
dritta frontiera tra l’amore essenziale il corpo,
e la morte,
vincolo, treno, cammino tra il mondo e città essenziale
Napoli,
terra di vita come resistenza
stella marina piantata
in occhi verdissimi,
alla lettura terra ha un senso di vita
che non la parola detta in francese,
mi incanta terra con due rr
come affirmazione della vita.
Salvatore, bello il sonetto ( credo che sia la tua forma preferita di scrittura).
Per me l’altro è la mia altra infanzia.
E’ l’asse del mio cuore.
Se si realizza la congiunzione tra il sè e il mondo (obiettivo quanto mai illusorio o reale solo nel suo estremo, la morte) questa sembra potersi mostrare solo attraverso leggeri “tocchi”, che hanno la cadenza di respiri.
Più si definisce e più si rivelano o “sversano” i volti di quel dolore.
Complimenti come sempre.
Cara Rosaria, che porti la terra delle mareggiate nel tuo nome, grazie! Anche tu fai parte delle poesie qui raccolte che, come sai, non hanno un’inizio o una fine, anzi… non sarebbero nulla senza te. Francesco e Fabrizio hanno raccolto in questo spazio un poema che si scrive qui e ora.
Luigia
A Veronique,
che incarna pienamente lo spirito del fiume o il treno della vita. La sintesi nel video di Francesco è leggerissima e spietata al tempo stesso. Spinge verso il centro, dove pulsa il passaggio… il treno scorre veloce. Si allontana e si avvicina. Fugge da e ritorna a…
Saslvatore a me piace pensare che l’altro sia anche il noi, non solo altro da sè.
Nessuno sta solo sul cuore della terra.
La condizione dell’altro ora ci appartiene e ora non ci appartiene. Dipende dal punto in cui siamo.
Mi piace pensare che l’altro sia anche un paradigma dell’ozio.
Qualcosa che quindi sta e non si mouve dalla propria condizione.
Ciao, grazie per la tua poesia in forma di sonetto
Luigia
e ancora Veronique, scrive il finale bellissimo
A Paola,
che sa che la congiunzione tra sè e il mondo è un respiro: uno scartare i capelli con il gesto della mano, un movimento attraverso il quale si scopre il proprio viso e che incontra come emozione il viso dell’altro. Certo, quella congiunzione dura un istante, un istante che lascia un senso altissimo di proteziohe. Di congiunzione si tratta… non di poco, davvero!
Grazie a Fabrizio Fantoni, a Francesco Forlani, a tutti voi, parte del poema.
Luigia
che coppia, ragazzi!
anzi, che trio!
belli i testi e le immagini
la voce rapisce.
bello.
complimenti a luigia, bellissimi versi.
immagini parole desideri
ogni cosa ha il profumo della bellezza e rapisce
bellissimi i testi
volano sulle immagini
complimenti
c.
A Fabrizio Centofanti, Lucifero, Sergio, Carmine.
Noi siamo nello spettacolo del mondo. E dunque, meravigliosamente qui. Mi piacerebbe continuare questo dialogo in punta di piedi sui temi della poesia. Lo so che è difficile leggere sullo schermo, ma la recensione di Fantoni è accuratissima e forse merita più attenzione. Ricorda quelle “del professore”… quel meraviglioso personaggio viscontiano, a cui Visconti si ispira nel film “Gruppo di famiglia in un interno”, con Silvana Mangano.
Lo ricordate?
@luigia sorrentino
appunto, luigia, il “dritto” dovrebbe essere l’altro come un paradigma dell’ozio; come l’ozio di sé : sintetizzato nel “noi” come specchio in cui non solo ci miriamo, ma misuriamo la nostra “umanità”, la nostra capacità di vedere nell’altro il sé. Purtroppo ( e questo dico nel sonetto-riflession) ciò, invece, è visto come un “rovescio” nella morale media corrente. E’ così radicato il senso di “velocità” negli “scambi” tra le persone, che anche nelle migliori intenzioni non ci si rende conto di quanto siano diventati “strumentali” i rapporti … Questo era il senso “amaro” della riflessione.
Ricordo vagamente la figura del “professore” nel film di Visconti (visto trenta e più anni fa). Rileggerò con più “lentezza” il testo di Fantoni e magari ti farò sapere le mie impressioni.
Tante belle…poesie a te!
L’ozio di sè. Certo. Ma se ognuno (ciascuno) vedesse quella smisurata indicibilità del sè e dell’altro forse comincerebbe la relazione . In verità credo che bisognerebbe incontrarsi sapendo che quell’incontro è determinato solo da un momento della propria. Bisogna sapere che lo scambio può avere una durata, un inizio e una fine, insomma, che non lo renderebbero meno efficace ai fini dell’esperienza. I rapporti strumentali bisognerebbe abolirli, a meno che lo strumentale non conduca ad una sinfonia a qualcosa di armonico. Ma anche lì, tutto ha una sua durata. Un inizio e una fine.
Nella recensione Fantoni credo colga un aspetto importante della mia poesia. Fabrizio parla della difficoltà di realizzare questa unione nell’altro.
Perchè è così difficile questo incontro?
Perchè non sappiamo nulla di noi, perchè non c’è più ragione di incontrarsi, forse… o forse questo non incontrarsi dipende dalla indisponibilità culturale ad entrare nella relazione.
La lontananza dall’altro è superiore a qualsiasi cosa.
E allora?
Ecco. Parlare al cuore. Stare nel cuore.
Ciao. Buona notte.
Luigia
Ciao Luigia
Errata Corrige: “della propria esistenza”… leggi così Salvatore al rigo quattro.
Ciao
L.
Ritmo, sensualità, immagini mai banali. E un sotteso anelito metafisico, legato intimamente alla natura. Al mio gusto, stona soltanto qualche eccesso di misura; cioè queste poesie alle volte mi sembrano “pensate” più che “sentite”; o meglio, prima sentite e poi migliorate pensando. Il che è giusto e naturale, solo che nella perfezione ciò non si dovrebbe “vedere”. Penso a certi ritmi leopardiani, e sempre mi stupisco di come quell’individuo colto, imbevuto di nozioni e sapienza fin dalla più tenera età, riuscisse d’incanto (non sempre) a sembrare candido e massimamente spontaneo, ad arrendersi alla semplicità (terribile per giunta) dell’esistenza come un bimbo.
In ogni caso, complimenti a Luigia Sorrentino.
olè olè olè. bello quello che ho letto (nel senso di diderot, cioè che suscita l’diea di relazione)
renzo favaron
caro/cara Diamante, accolgo il tuo punto di vista: la sperfezione.
Ti ringrazio e metto la mano destra sul cuore come ho visto fare a Adonis due giorni fa. Eravamo a tavola con altre persone e ci avevano servito del vino rosso. Adonis ha detto che ai poeti non dovrebbe mai essere servito del vino cattivo.
caro Renzo Favaron
il tuo tono leggero!
Che ricominci pure il rito. Istintivo, caotico, primordiale. Che si consumi in un rifugio o in una consolazione.
Ciao
Luigia