Verdure
di Lisa Ginzburg
Aspetto una bambina, e causa valori della glicemia un poco alterati seguo una ferrea dieta a base principalmente di proteine e verdure: dal fruttivendolo vado di continuo. Il migliore, nel mio quartiere, è egiziano. Il negozio è grande, a vendere sono in diversi ma il capo è lui. Anche lui è in attesa di una figlia, la sua seconda, e ogni volta mi racconta della moglie, delle sue stanchezze o energie, dei movimenti fetali, come questa femmina pare scalmanata a paragone del maschio che nella pancia era tranquillo “e invece adesso che ha tre anni è ‘na peste”. Io ascolto e a mia volta dico di me, più titubante per la nessuna esperienza, ma desiderosa come sono ormai da mesi di scambiare e carpire il maggior numero di informazioni possibile su parti, allattamenti, gestione di questa lunga fase così eccezionale per corpo e spirito che mi sta capitando di vivere.
Conversazioni che di solito imbastisco con donne – commesse, colleghe, amiche, compagne di tragitti in autobus e metropolitane. Dopo il mio ginecologo lui, il fruttivendolo, è il solo uomo con cui parlo tanto della mia gravidanza. C’è la mediazione della moglie, sempre assente termine di complice paragone con me. Ma anche altro: una sua autentica partecipazione al mio stato, un rallegrarsi e condividere le mie giornate, quelle in cui sono più energica e sorrido tanto, quelle più faticose e lunatiche. Quando entro nel negozio (affollatissimo, la merce è ottima e i prezzi pure) ci salutiamo da lontano con un cenno contento: parleremo delle nostre bambine, che se il cielo vuole e tutto andrà bene nasceranno a poche settimane di distanza una dall’altra.
Il mio ginecologo, primario di rinomata competenza divenuto un amico, dice ridendo che “ormai se sei incinta pari un’extracomunitaria”. Se lui la spara come boutade, io invece la riscontro come assoluta verità, considerando le diverse reazioni al mio stato. Quel che nelle donne italiane è partecipazione felice ma subito ansiosa (“come ti stai organizzando? dove partorisci? hai già comprato xyz? hai trovato chi ti aiuterà? e il nido? e il latte artificiale?” e via così, un fiume in piena di programmi preoccupati), nelle africane, asiatiche, sudamericane che incontro è un sorriso di pura fiducia. Ciò che nella maggior parte degli uomini è affettuoso ma distante coinvolgimento, negli stranieri è vera commozione, unita a una strana forma di gratitudine che prescinde dalla realtà per rivolgersi a una forza suprema, trascendente: la forza della creazione. “Resti qui con noi, bella signora!” mi chiede l’aiutante del capo, il ragazzo egiziano che ogni volta mi aiuta a caricare i sacchetti pieni di verdure in macchina. Non è galanteria la sua, simpatia piuttosto, ma anche qualcosa di più alto. L’idea che una donna incinta è manifestazione in terra di una benedizione, una ricchezza, una luce. Qualcosa a cui stare vicino. Nella nostra cultura la gravidanza è quasi una malattia: e allora viene voglia di rivolgersi altrove, lì dove è intesa invece come salute, vita. Vita che esplode e vince.
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Molto vero e molto giusto. Seguo mamme e bambini da pediatra, e devo dire che i nostri figli, tra i più sani e protetti del mondo, sembrano portare più ansie che gioie alle loro famiglie. Siamo una società pavida, che sembra aver perso il coraggio di affrontare la vita con le sue gioie e gli inevitabili dolori, una società debole che non vede il coraggio degli altri, di quelli che attraversano i deserti ed il mare per cercare una vita migliore. Dovremmo imparare di più…
C’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’organizzazione della nostra società occidentale. I figli sono una preoccupazione costante perchè lavorando in media 8 ore al giorno e quindi con un’assenza da casa di almeno dieci se si vive in una grande città, ogni cosa sfugge al controllo, e quindi sfugge la serenità, la partecipazione, il significato, tutto.
Se non impariamo a rinunciare ad almeno un pò di superfluo per recuperare il necessario, sarà sempre peggio.
D’accordo, ma per quanto riguarda la “natalità” nei paesi latinoamericani (quelli di cui ho una infarinatura), la situazione non è così idilliaca: le nascite avvengono spesso per inconsapevolezza, distrazione, gioia di vivere, ecc. E’ piuttosto consuetudine vedere una ragazza di 20-22 anni con uno o due flgli e abbandonata o separata dal marito. Alla donna rimasta sola tocca accudire e allevare i figli, a volte con l’aiuto materno (quando c’è, perché nelle grandi città anche i rapporti sociali e familiari sono sfilacciati, o assenti), perché il marito se n’è andato o è come non ci fosse. Questo è lo stato delle cose nella cultura “meticcia”. Molto diversa è invece la situazione culturale nelle comunità indigene di quei paesi, dove i legami comunitari e interfamiliari sono molto forti, e suppliscono a certe difficoltà familiari. Dietro l’allegria e la voglia di vivere c’è spesso un dramma: il dramma dell’abbandono, della disoccupazione, della vita alla giornata.
mah, dipende da dove il verduraio è nato e cresciuto, da quanti chilometri dal cairo, se superano i trenta ed è un egiziano muhamed facile che sia contento per l’arrivo della sua bambina perchéllui il maschio l’ha già avuto. L’amico mio è arrivato dopo tre femmine e i suoi erano sull’orlo del crash per colpa della suocera egiziana (un vero e proprio flagello) e infatti l’han chiamato il dono proprio perché ha salvato il matrimonio e la famigghia e ora insieme all’altro maschio li mantiene tutti, sorella (laureata) separata con figlio a carico compresa.
premesso che non è semplice, che non lo è affatto (tara all’orientalismo e/o all’idealizzazione, alla “natura” alla deamadre e/o al romanticume borghese d’accatto, che non è un rischio caderci, perché ci siamo già dentro, culturalmente dico, ed è una fatica boia riposizionarsi ogni volta) vero è che quasi tutte le mie amicizie ormai sono “straniere”, di fattispecie culturale araba e sudamericana (quoto macondo in toto anzi andrei giù ancora più dura ma ho già dato:) cioé deserticolussureggiante. Qui e/o la.
vero anche che NON son incinta da più di una decina d’anni ormai. e che sono “reduce” da un’esperienza poetico affettiva molto simile a quella raccontata da ginzburg ma in terra egizia, in pieno sahara di fatto ostile, maschio e monoteo, di fattispecie culturale: “islamica fino al midollo insomma nna traggedia”, eppure era da tempo che non mi sentivo cosi voluta bene di default.
Che meraviglia la maternità .. e che meraviglia questo scritto ^__^ .. hem non riesco ha dire null’altro.. bello, bello, bello.. bello.
«Nella nostra cultura la gravidanza è quasi una malattia: e allora viene voglia di rivolgersi altrove, lì dove è intesa invece come salute, vita. Vita che esplode e vince».
Infatti: solo con l’escamotage della “malattia” il diritto occidentale riesce a tenere insieme la propria natura astratta e universale con la materiale, concreta esistenza di due corpi in un unico luogo, e dei legittimi, materiali diritti che derivano alla madre dall’essere portatrice di un “di più” di vita rispetto alla astratta pretesa che il diritto sia sempre correlato ad un solo (al neutro) individuo – nato il… – che esiste ed insiste in un luogo individualmente definito come spazio nell’inviolabilità del singolo corpo (e non comune). Bisognerebbe tornare ad interrogarci su questa ritornata santità del diritto, tornare a metterne in questione i presupposti: partire, ad esempio, dall’esigenza di un “di più” di diritti di cui è potenzialmente portatrice la donna (rispetto al rischio di un “di meno” implicitamente affermato dai cultori della “difesa della vita sin dal concepimento”) come punto d’incontro tra l’essere singolare e l’essere comune, e pensare a un diritto materiale che parta dal comune per includere l’individuale.
Forse la gravidanza è la malattia della competizione. Essere una madre modella che deve superare il pericolo, fare il marathon contro tutta disgrazia. Il bebè non è ancora nato e si sogna un avvenire di campione.
La madre, credo, è ansiosa di natura, anche quando hanno fiducia nella vita.
Credo che le madre della nostra cultura hanno ancora momenti du pura gioa candida, quando si fermano, la mano sul grembo, con occhi semi aperti verso una spiaggia segreta. Abbozzano allora un leggero sorriso.
Un sorriso misterioso e vincitore.
di paura, gioa
désolé pour les fautes et les régulières imperfections.
Che grazia! I commenti tutti esprimono conflitto tra ragione e passione. Mi vien da dire che non c’è un motivo. Certo non ci si può liberare dalla diffidenza scrivendo un inno alla bontà di cuore egiziana, loro e noi, qui e invece lì.
In Africa, dove c’è dio. Solo questo
Che grazia! I commenti tutti esprimono conflitto tra ragione e passione. Mi vien da dire che non c’è un motivo. Certo non ci si può liberare dalla diffidenza scrivendo un inno alla bontà di cuore egiziana, loro e noi, qui e invece lì.
In Africa, dove c’è dio.
Che bella questa narrazione fatta di incontri e di sguardi e di parole semplici, che scendono a descrivere la magia della creazione. Per noi donne occidentali questo sentire profondo è nascosto da sovrastrutture, timori e da conversazioni su questioni organizzative che coprono e deviano quel sentire naturale e ancestrale, che le donne migranti conservano anche nella povertà, nelle difficoltà di vivere in quest’Italia imbarbarita, nelle mille contraddizioni di società patriarcali, che però sentono ancora emozione e rispetto verso l’atto creativo. Gravidanza è corpo, radici nella terra ritrovate e sguardo interiore che si riflette al di fuori, nel vedere il mondo e la vita con altri occhi. Dici bene Vèronique “la mano sul grembo, con occhi semi aperti verso una spiaggia segreta”. Il segreto è stare lì nel semi-aperto, nel solo accennare a quel segreto di cui si è portatrici coraggiose, forse oggi più di ieri.
procedendo per balzi e incroci, si potrebbe dunque ipotizzare di disfare le passioni tristi, l’antropocentrismo e i suoi derivati, compreso l’orbiterracqueo androcentrismo (ovunque si annidi), riabilitando zoe (“il meno” sessualizzato, razzializzato, animalizzato che diviene “più”, generativo ma non solo di diritti) . Direi che si, è un percorso faticoso e dalle mille contraddizioni anche per chi parte da una collocazione privilegiata (essere di carne,
umana (+)
femmina (-),
in occidente (+)
bianca (+)
istruita (+)
e con sufficiente potere d’acquisto (+))
mi si è mangiato il + di essere di carne:)
Maria Luisa ha espresso il mio pensiero.
La maternità è uno stato di attesa pura, di sogno interiore, di realtà distacca.
No ho bambini e non sono in grado di evocare esperienza viva.
Ma ricordo mia madre con quatro figli, mi ha sempre sembrata incinta per l’eternità.
Nel gesto lento, nel pensiero segreto calamitato dall’embrione, nel volto tranquillo,
la sua manera di portare la pancia con fiducia nella vita, nel mondo rotondo.
La madre riallaccia il gesto quotidiano a una preghiera poetica del mondo.
Maternità di altra epoca?
Mia sorella ha vissuto le due maternite con ansia, voglia di riuscire, paura di non essere perfetta. La maternità rifletta la crisi del mondo occidentale, sfinito.
Il mondo passa come nuvole sul volto delle madre, è oggi sono nuvole di pioggia.